Mi è successa una cosa strana. Qualche sera fa, di punto in bianco, mi è venuta in mente una persona che conoscevo e, incuriosita, mi sono chiesta che fine avesse fatto. Prima di raccontare però questa storia è bene tornare indietro di qualche anno e cominciare dall'inizio. Non farò i nomi reali di nessuno per questione di privacy.
Nell'inverno del 2004 mi trovavo in una minuscola birreria del centro con un chitarrista a suonare dei duetti jazz, in acustico. Alla fine dell'esibizione ero sola davanti ad un bicchiere, mentre la ragazza del chitarrista si era avvinghiata a lui e l'aveva subito portato via.
Fra il pubblico che fino a quel momento aveva ascoltato, c'era un ragazzo dai lunghi riccioli biondi, anche lui rimasto solo, che prese ad attaccar bottone con me, un tipo strano. Andrea.
La sensazione che mi diede subito era di un bambino cresciuto (aveva due anni in meno di me) alto un metro e novanta, magro, molto confuso ma molto innocuo. Mi propose un panino in un locale di via Milano, io accettai e ognuno con la propria macchina raggiunse il posto.
- Non ti fare ingannare dalla mia macchina come fanno tutte. Non sono pieno di "pila", l'ho comprata con i soldi che mi hanno dato per un incidente. Quasi ci rimettevo la pelle.
Passai la serata con lui a parlare di assurdità e di serietà. Non ricordo perché vivesse solo con sua madre. Ci riempimmo di panini e di patatine. Mi chiese se avevo voglia di uscire con lui e i suoi amici nei prossimi giorni.
Fu così che per un certo periodo, fino alla fine dell'estate di quell'anno, frequentai questa compagnia, e con uno di loro intrecciai una relazione così vuota ed innocua, che nei miei ricordi fatico a pensare che sia esistita realmente.
Erano studenti e studentesse universitarie della Brescia benestante. Giravano con macchine lussuose e spendevano cifre da capogiro ogni fine settimana. Ragazzi brillanti, simpatici, galanti con le donne, con l'ambizione o con l'obbligo di seguire le orme famigliari e di diventare avvocati, medici, politici. La classe di ex liceali del centro, quelli definiti "figli di papà". Quelli felici e senza problemi.
Non era la vita con cui ero cresciuta io, che tanto avevo calpestato per rendermi indipendente economicamente dai miei, dall'acquisto di un rossetto alle tasse scolastiche. Pensavo a tutte quelle volte che, giovanissima, avevo servito nei locali ragazzi della mia età, nelle sere in cui correvo avanti e indietro con i capelli raccolti, quando desideravo anch'io vestirmi elegante, con i tacchi, anzichè sudare in tenuta da cameriera volando fra un tavolo e l'altro, tenendo a mente le comande e contemporanemante mandando a quel paese vecchi clienti bavosi dalle battute volgari e scontate.
Nonostante lavorare presto fosse stata una mia scelta, non nego di aver provato invidia davanti a combriccole tanto allegre, con i giovani che per fortuna apprezzavano la mia presenza, seppur puzzassi di fumo e di birra del locale.
Ora da ventenni eravamo tutti lì e io uscivo con loro. Mi aprivano la portiera dell'auto, mi facevano i complimenti e insistevano per pagarmi sempre il conto.
Ma ogni cosa ha il rovescio della medaglia e mi accorsi frequentandoli, che tutta quella bella vita nascondeva anche smarrimento e malinconia. Come se cercassero rassicurazioni, conferme nelle incertezze dell'indomani. La situazione si ribaltò e divenni io quella più "leggera", quella che non aveva i problemi, che non pensava futuro, sembrava che fossi io ad aver avuto di più e probabilmente era così. O forse semplicemente non mi facevo più problemi e al futuro ci pensavo ma non ne avevo paura?
Questa era la compagnia in cui mi inserì Andrea.
Il suo disperato bisogno di affetto e di attenzioni mi soffocava e spesso mi ritrovavo a non rispondere alle sue chiamate. Sembrava che dovesse vivere per forza ma che non gliene importasse nulla di se stesso, guidava per procurarsi incidenti quasi mortali e anche i suoi amici avevano rinunciato a rimetterlo sulla retta via e a lasciarlo da solo nel suo brodo con le sue stranezze.
Ci allontanammo sempre di più. Non eravamo neppure più amici.
Mi stupì quando, circa un anno dopo dal nostro incontro, mi rivelò che era tornato da poco perché appena saputa la notizia dello tsunami era partito per fare volontariato.
Se n'era tornato con qualche tatuaggio in più e una moto nuova di zecca. Uno sproloquio dei suoi nuovi progetti e delle sue contraddizioni.
Mi invitò a farci un giro, per andare a pranzo da un suo amico. Dopo tutto quel tempo mi fece piacere rivederlo, ma purtroppo litigammo nuovamente. Proprio non andavamo d'accordo.
Conoscendo il suo modo di guidare, lo avvisai che se avesse fatto lo stupido con me, me ne sarei tornata a piedi piuttosto che salire con lui. Mi promise e si trattenne all'andata, ma al ritorno non resistette e, pur di mostrarmi quanto valesse il suo motore, mi ritrovai in galleria a gridare terrorizzata di rallentare, e a stringermi forte a lui dalla paura di morire, ma non mi ascoltava.
- Hai visto? - disse poi compiaciuto - sono passato dai sessanta ai centossettanta chilometri orari in due secondi.
Ero riuscita a farlo fermare in mezzo alla strada, e restituendogli il casco gridai:
- In città, in galleria. Mi avevi detto che non l'avresti fatto. Hai accelerato senza avvisarmi, se non mi fossi aggrappata per tempo sarei potuta cadere all'indietro!
Girai sui tacchi e me ne tornai veramente a piedi. Dopo quella volta non ci sentimmo più e neppure pensai mai a lui e ai suoi amici.
Fino a qualche sera fa. Chiedendomi se fosse ancora vivo (ma ironicamente) e non trovandolo su Facebook, ho provato a cercarlo su Google, e la notizia che ho letto mi ha raggelato per qualche secondo il sangue. Un anno fa, in moto con un suo amico, aveva fatto un incidente e tutti e due erano rimasti feriti molto gravemente. La notizia era riportata sui giornali. Era uscito di strada. L'amico scaraventato all'aria. Andrea era alla guida.
Ho cercato notizie per sapere se fosse sopravissuto ma non ho trovato nulla.
Dopo tanti anni non avrei voluto sapere queste cose, soprattutto quando l'ultimo ricordo che avevo di lui era stato il nostro litigio a causa di quel suo "scherzo" in moto.
Non so perché mi è venuto in mente così all'improvviso.
Oggi pomeriggio, mentre ero in coda alla cassa del centro commerciale, ho guardato distrattamente in lontananza i vivaci corridoi pieni di vetrine e di negozi, e l'ho visto.
Lui era lì, lontano, lavorava ed era occupato con i clienti, leggermente ingrassato, con lo sguardo ancora buono e gli occhi azzurri, i riccioli lunghi e biondi, il sorriso disarmante. Mi è sembrato ancora quel ragazzo magro ed innocuo che in birreria mi aveva detto:
- Andiamocene via da questo buco, lo vuoi un panino? Andiamo in via Milano?
Ho pensato a lui come un bambino, ma di quelli che cadono, che si fanno male, si scordano e felici ed incoscienti si rialzano e riprendono allegramente a fare gli stessi giochi pericolosi. Forse per amore della vita, e non di disinteresse come credevamo tutti.
L'ho osservato, aspettando che si liberasse, che magari da distante come eravamo guardasse nella mia direzione e mi riconoscesse, ma era attorniato dai clienti e preso dal suo lavoro. Non sapendo cosa fare, ed essendo di fretta, me ne sono andata col sorriso sulle labbra.
Andrea sta bene.
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