giovedì 26 febbraio 2015

Progetti infantili

Quando ero piccola sognavo di scappare di casa. Credo che dipendesse anche molto dal fatto che in quegli anni c'erano tanti cartoni animati, con protagonisti piccoli, che vagabondavano per il mondo, come quello di Marco che cercava la mamma, Sandy Bell che girava col camper e scopriva tanti posti nuovi e interessanti (adesso che ci penso, non capisco come una quattordicenne potesse guidare un camper, e dove li trovasse i soldi per la benzina e per vivere), Remì che con un'arpa in spalle non aveva dimora e l'amico di Tom Saywer, mi pare si chiamasse Huck, che non doveva tornare a casa e viveva libero come il vento dell'est su di una zattera.

Che bella vita! Io sognavo di vivere così: coi cambiamenti, improvvisando ogni giorno, scoprire cose nuove, avere tanti amici, chiacchierare, senza il peso dei doveri, già da bambina mi sentivo soffocare dalla monotonia.

Ma forse i cartoni mi avevano solo risvegliato qualcosa che sentivo già, perché tanti miei coetanei con cui ho parlato, non pensavano fosse normale scappare di casa. Ho nitide quelle sensazioni e quei ricordi di me, piccola, davanti alla finestra, con la voglia, come un fuoco bruciante, di correre e correre fino a non riuscire più, e poi gridare con tutto il fiato in gola. Io soffocavo nel mio essere bambina e di dover chiedere i permessi per qualunque cosa.

Facevo accurati progetti: per esempio, ero abbastanza pratica da pensare che dovevo mangiare, così pensavo di suonare per le strade e di vivere con quei soldi. A me poi mangiare piace, perciò soldi ne avrei dovuti tirare su tanti! Il pianoforte non era comodo da portarsi appresso, ma il sax sì, solo che dovevo ancora averlo, e i miei non me lo volevano prendere, ma forse pure il sax era pesante, meglio il flauto: piccolo e di pochi grammi, però pure per quello dovevo convincere i miei, accipicchia, quanti ostacoli al mio meraviglioso progetto!

L' avventura, il divertimento e le novità erano le uniche cose in grado di smuovere la mia pigrizia, per il resto, non avevo voglia di sforzarmi troppo per nulla, a meno che non mi pagassero, ma da bambini bisognava fare tante fatiche a scuola e nessuno pagava, mondo ingiusto e crudele.

L'altra mia esigenza, che però faceva a pugni col progetto di fare la vagabonda, era che volevo essere sempre profumata e vestita bene, ma i vagabondi puzzavano, almeno quelli che avevo incontrato io, e questo era una cosa che mi bloccava, oltre alla mancanza del sax. Esistevano vagabondi vanitosi e narcisisti? Perché io vanitosa lo ero parecchio.

Forse avrei potuto fare la vagabonda chic: magari suonando per le strade avrei guadagnato così tanto da poter cambiare albergo ogni sera, fare il bagno in vasche piene di bolle profumate e dormire in lenzuola di cotone egiziano! Ma come potevo trascinarmi appresso tutti i vestiti e tutte le scarpe?
Dilemma degli undici anni!

Il mio cuore era un focolare caldo, ma la mia mente scalpitava come un arcobaleno nomade. Ancora oggi sono divisa in due così.
Non riesco a spiccare il volo senza la sicurezza di poter tornare in un nido. Un unica radice, un miliardo di rami verso il cielo.

Oggi, amo viaggiare con pochi bagagli, ho sempre pensato: zaino in spalle e avventura! Autostop, treni, camminate. Zaino leggero per riempirlo di ricordi ed esperienze. Autostop? Che paura, meglio di no. 
Mi piace sentire la pioggia e il vento su di me. Mi piace sdraiarmi direttamente sull'erba, sulla sabbia, giocare fra i sassi. Sento riaffiorare dal passato quell'indole selvatica che fatico a zittire. Ma poi, da sola mi sento troppo sola. Mi mancano i miei sogni a casa, le strade familiari, la musica malinconica, il profumo di muschio bianco, le letture e un letto in cui fantasticare fino le undici del mattino.

Io credevo che, siccome volevo scappare di casa, anche gli altri lo volessero. Chiesi a non meno di dieci amichette e amichetti di scappare con me, ma tutti avevano paura, quelle mezze calzette!

Quanta irrequietezza che avevo in me. Sarei stata abbastanza sventata e incosciente da fare cose in grande, da passare all'azione, fregandomene della morale e dei doveri che, a dire il vero, risvegliavano il mio gusto di fare bastian contrario. Una pazzoide.

Sapete cosa mi trattenne dallo scappare? La sensazione di abbandono, di abbandonare qualcosa, e quell'immagine di mia madre in cucina che preparava la cena. E poi il freddo in inverno!
La mamma.

Forse, in fin dei conti, ero una bambina come tutti gli altri.



domenica 22 febbraio 2015

Le bambole di Alice V - La famiglia Blanchard

Nota:  I racconti qui pubblicati sono inediti  ed interamente ideati e scritti da Thasala Phan, a cui appartengono tutti i diritti (vedi nota in fondo alla pagina). Alcuni luoghi citati, i personaggi e le trame sono frutto di sola fantasia. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


*** 


Nell'estremo Oriente, negli anni Cinquanta, accadde un fatto inquietante. Questa storia mi è giunta alle orecchie da fonti certe e so che è vera, tutto quello che scriverò qui non l'ho inventato io.
Si tratta della storia di una splendida dimora in campagna, costruita nell'Ottocento, durante le colonie europee. La prima famiglia in cui la visse fu composta da un unica figlia e da una numerosa servitù inglese. Spiccava in uno di quei posti verdeggianti, con le ombre e le cascate a cui aspirano tanto i turisti. Una villa isolata dal mondo e disabitata.

Gli abitanti del posto hanno una particolare abitudine legata alla magia bianca: quando cambiano casa e vanno a stare in una nuova abitazione, accendono l'incenso, preparano il riso e fanno donazioni di frutta, fiori e pregano gli Dei, affinché il luogo venga benedetto e che non accada a loro nulla di male. Questo rituale allontana le forze negative e in Oriente tutti sanno che non bisogna scherzare con i poteri contro cui non sappiamo dominare. E' necessario allearsi con gli spiriti buoni e chiedere il loro aiuto per rimanere protetti.

Le leggende dell'epoca raccontavano che, nonostante la sua bellezza, quella villa fosse disabitata e che nessuno volesse viverci. Quelle rare e brevi volte che qualcuno ci aveva messo piede, si ammalava inspiegabilmente fino ad arrivare alla morte, e nessun medico era riuscito a capire che malattia fosse. Accadde pure però, che certi che si ammalarono, guarirono appena vennero allontanati dalla casa.

Un giorno una coppia di marito e moglie occidentale, decise di acquistarla e di venire a vivere con i dieci figlioletti, dai cinque ai diciotto anni, tutti biondi. L'agente sembrava avere fretta di concludere il contratto e di allontanarsi il più alla svelta possibile, oltretutto il proprietario non si fece mai vivo per la vendita, ma la famiglia Blanchard era troppo entusiasta del posto per porsi domande.

Le voci nel villaggio giravano, e giù nella locanda non si parlava di altro, sussurrando, con terrore, cose che non dovevano essere risvegliate.

Capitò un giorno, durante il trasloco, che un viso scuro con due stretti occhi orientali celati da lunghi ed arruffati capelli neri, si avvicinò al signor Blachard e gli disse:

- Benedite la casa, ma occorre uno potente, non potete farlo voi, vi posso aiutare.

Il signor Blanchard era un uomo gentile, ma era abituato alla sua cultura d'origine e non credeva in queste cose. Rispose allegramente:

- Oh! Siete di qui? Siamo contenti di fare amicizia con qualcuno del posto. Grazie, ma non credo abbiamo bisogno di riti e magie.
- Vi prego, mi sembrate brava gente. In questa casa sono morte delle persone. 
- Eh! Accade, ma se nessuno più occupasse case in cui sono decedute persone... il mercato immobiliare chiuderebbe non le pare? 
- Non bisogna scherzare con gli spiriti. Nessuno è mai riuscito a capire come siano morte.
- Accidenti! Che sfortuna! - disse allegramente Blanchard. Aveva occhi chiari, ridenti e barba e baffi biondi - ma stia tranquillo, saranno stati casi, a noi non succederà niente. Venga pure a trovarci!

L'uomo dalla pelle scura e gli occhi stretti e a mandorla si allontanò scuotendo la testa.

Nel giro di qualche mese, la casa fu pronta e la famiglia europea venne a vivere in quell'angolo di paradiso. Avevano una bella macchina lussuosa e lucente e il signor Blanchard viaggiava tutti i giorni per raggiungere la capitale e occuparsi di affari. La signora Blanchard era una graziosa mogliettina affezionata al marito e alla famiglia, ogni mattino accompagnava i figlioletti a scuola, poi tornava a casa a sbrigare le faccende, a cucinare e ad aspettare la sera il ritorno del marito. 
Per qualche tempo tutto sembrò andare bene. Il più grande era all'ultimo anno delle superiori e sognava di diventare avvocato. La dolce Isabelle rallegrava la casa con delicate melodie al pianoforte, i più piccoli correvano giocando felici nel giardino. Il tranquillo Robert passava invece le giornate all'ombra dell'albero a divorarsi i suoi amati libri.

Dodici persone. Se ripenso a quello che poi successe ad ognuno di loro, mi vengono i brividi. Non sono stata in quel posto e non c'ero in quegli anni, eppure io oggi ho paura a raccontare, la stessa paura che ho letto negli occhi di chi a sua volta mi raccontò, sussurrando, e poi non volle mai più parlarne. Ci sono cose che non vanno risvegliate, ma è necessario mettere in guardia, affinché non vi siano altre vittime innocenti.
Andiamo avanti.

Successe per primo al più piccolo, e fu come gli altri casi: si ammalò improvvisamente ed inspiegabilmente, non volle nè mangiare, nè bere, entrò in coma, e nonostante l'intervento di medici occidentali ed orientali giunti pure dall'Europa, i signori Blanchard gridarono dalla disperazione al capezzale del piccolo morto.

Tempo dopo capitò anche, ad uno ad uno, agli altri membri. Tutti con la stessa dinamica. Il figlio maggiore, poi la dolce Isabelle, la piccola pianista, pure Robert, il sognatore poeta.
Il signore Blanchard, distrutto e senza più forze, pensò di non abitare più in quella villa, e ricordò le parole di quello strano uomo scuro. Ripensandoci, quelle misteriose pupille iniettate di nero lo rabbrividirono. Tuttavia andò a cercarlo in paese ma nessuno sapeva di lui.

Erano rimasti solo la moglie e quattro dei dieci figlioletti. 

- Dobbiamo scappare di qui! - dissero i signori Blanchard, ma la sera in cui si prepararono a spostarsi in un albergo, la signora cadde in trance. I medici la misero subito a letto: aveva gli occhi splancati, terrorizzati, la bocca aperta come a volere gridare qualcosa senza riuscirci. Fissava il vuoto, il sudore le impregnava la fronte e i capelli spettinati. Con un dito tremante cercò di scrivere qualcosa nell'aria. 
I bambini piangevano e si abbracciavano. Terrorizzati. Oramai era una famiglia distrutta.
Il signor Blanchard non volle che videro la mamma con quel volto agghiacciante.

- Emilie, fatti forza, ora ce ne andiamo via di qui, ti scongiuro - le diceva al cappezzale.
Il primo ospedale era troppo lontano. La signora Blanchard morì il mattino dopo. Non fecero in tempo a scappare da quel posto.

Il mattino seguente il signor Blanchard portò via immediatamente i quattro figlioletti rimasti e questi, assieme, a lui, furono gli unici a salvarsi da tutta quella storia.

Il giorno del funerale della moglie, in disparte ed invisibile, il signor Blanchard rivide lo strano uomo scuro del primo giorno. Aveva un volto indecifrabile.

Lo avvicinò: - Non vi avevo voluto credere, ma avevate ragione, quella casa è maledetta.
L'uomo dagli occhi stretti e neri fissò Blanchard in volto: rispetto a mesi prima, il suo sguardo azzurro e sereno era scomparso, gli occhi erano rossi, il volto segnato e le rughe lo invecchiavano, come se di colpo avesse vissuto trent'anni in più.

L'orientale annuì: - E' necessario chiamare qualcuno potente, un'esperto di magia bianca e nera.
- No - disse il signor Blanchard - la casa è di mia proprietà, ho deciso di farla abbattere. Ha ucciso delle persone. Sapete, quella notte, mia moglie tracciava continuamente la lettera "A" nel vuoto. Era l'unica cosa che riusciva a fare. Ma non fu in grado di spiegarmi altro. E' un falso paradiso, è maledetto! - gridò con rabbia.
- Signore, la casa decide, è più forte di voi, di me, potete farla abbattere, ma lasciatemi chiamare ad assistere un esperto il giorno in cui accadrà. Non rimanete soli di fronte all'ira della casa, quando verrà distrutta.

Il signor Blanchard non aveva più nulla nella sua vita. Non aveva creduto una volta, non voleva più commettere lo stesso errore e acconsentì.

La cosa inspiegabile, dopo, è che pure i bambini in albergo si ammalarono e sarebbero morti pure loro, ma qui accadde la parte del racconto più strana.

La casa fu abbattuta, e venne un monaco a guardare il lavoro.
Quel giorno ritrovarono nascoste, cementate dentro le mura, dodici bamboline in legno, ognuna riportante una data di nascita e una data di morte, che coincidevano con i dodici membri della famiglia Blanchard, e una lettera: "A".
Sette di questi avevano già adempito la maledizione: il giorno della morte previsto era lo stesso di quello poi accaduto, ma cinque dei membri sopravvissuti, il signor Blanchard e i quattro bimbi, si sarebbero potuti ancora salvare.

Il monaco osservò le bambole: - I bambini devono morire oggi. E lei, signore, fra un mese. 

Mi è stato raccontato che le bambole vennero bruciate e il suolo pure. Poi pregarono, pregarono per dodici giorni portando in dono al luogo distrutto ciotole di riso, frutta fresca, pesce. Misero una grande statua di un Dio pacifico e a turni anche gli abitanti del villaggio vennero a praticare il culto.

I bambini in ospedale, appena distrutte le bambole, si ripreso miracolosamente. Il signore Blanchard scampò alla sua morte stessa in tempo. La pioggia, col tempo, spazzò via la cenere delle bambole e delle mura. Dal suolo ricrebbe l'erba e spuntarono fiori. Ma da allora il luogo è rimasto disabitato e nessuno ha più costruito nulla. La famiglia Blanchard ritornò in Francia e il padre non tornò mai più in Asia.

Anni dopo, con l'avvento di internet, uno dei figli sopravvissuti, Richard, volle vederci chiaro e cominciò a viaggiare e ad avviare delle ricerche, ritornò pure sul posto e fece delle domande agli anziani del villaggio. Venne a sapere che l'unica figlia della prima famiglia che vi abitò, si chiamava Alice e aveva la passione delle bambole. Era una ragazza pallida e fragile di salute, morì giovane. Ma era anche un tipo strano: creava bambole vestite da sposa in nero, incideva il legno e non parlava con nessuno. La stanza in cui nelle mura vennero ritrovate le dodici bamboline, era la stessa in cui vi aveva vissuto rinchiusa lei e dove morì.
Ripensando alle lettere "A" incise sulle bambole ritrovate quel giorno e ai segni tracciati dalla madre, intuì che ci potesse essere un legame, che fosse una maledizione. Quello che ancora nessuno ha risolto, è come potessero essere cementate nel muro tanto accuratamente, e come potesse nell'Ottocento una ragazzina prevedere l'arrivo di una famiglia di dodici persone ed indovinarne la data di nascita, avvenuta poi in un futuro di cent'anni dopo.



Racconti indediti di Thasala Phan
Vedi Copyright in fondo al sito.


Fiaba

Il gigante e la bambina, nel giardino e poi addormentati vicino. L'uno accanto all'altra. C'erano fiori e c'era il sole nel giardino, ma da lì non sarebbero più potuti uscire.

Il gigante poi con un pugnale recide il fiore per salvare la bambina, che recisa non è più bambina e mai più sarà donna.

Le urla e la rabbia della gente che sale in difesa di lei, troppo tardi, non salvano il gigante.


Dolce fischiettìo di favola innocente. Che innocente non poteva essere vista. Il giardino non ha più fiori.

L'unico sbaglio è stato il tempo.
Ora giacciono lontani, morti entrambi.

sabato 21 febbraio 2015

Libro: "STANCO? Diari di quattro rinascite" di Simona Orioli (recensione).




Il fatto che il destino ce lo creiamo noi, oppure che ci sia già un percorso, è un quesito che mi pongo spesso.
Sono nata con la convinzione che "volere è potere" e, se venisse chiesto a mia madre com'ero da bambina, lei risponderebbe che ero una testa dura. Io quando volevo/voglio qualcosa ho sempre battuto il chiodo, con le buone o con le cattive, dietro le quinte o alla luce del sole, e di solito prima o poi raggiungo l'obiettivo. Essendo una pigra, tendevo a schivare gli scontri e spesso mi limitavo allegramente a fare quello che volevo, evitando la fatica, quando era possibile, di chiedere il permesso o di avvisare. Anche se le persone a volte pensano che ci abbia rinunciato, è solamente perché sto facendo una pausa.

Di solito raggiungevo l'obiettivo. Queste sono le due paroline chiave. Di solito.

Ho raggiunto un'età in cui la vita mi ha insegnato che non tutto dipende da me. Che a volte le cose non arrivano perché è meglio per me un altro percorso, e il non accontentarmi può essere un regalo divino. Ma preferisco pensare che arriverà tutto quello che desidero, solo con i tempi diversi, più dilatati, o con un ordine più creativo.

Per esempio, da piccola volevo tantissimi, bellissimi vestiti. Non potevo, ora posso. Volevo fare il conservatorio. Volevo fare la specializzazione, da sola e senza l'aiuto dei miei. Studiavo e lavoravo. 
Desideravo fare la barista. Poi la commessa e vendere vestiti. Poi di fare la segretaria. Poi di avere una macchina. Poi ho deciso di insegnare a tempo pieno. E dopo desideravo di riuscire ad arrivare ad uno stipendio decente per vivere da sola.
Ho fatto tutto quanto. Solo che quando volevo quelle cose, al momento non mi era dato modo di riuscirci. Non allora, solo dopo.

Nel frattempo, le deviazioni mi hanno permesso di conoscere alcune persone che mi sono rimaste amiche sino ad oggi, ecco perché non potevo raggiungere subito l'obiettivo, è stato un regalo per la mia vita il dover faticare un po'. Le deviazioni erano gli unici posti, gli unici ambienti in cui avrei potuto conoscere e sperimentare alcune situazioni necessarie per il mio bagaglio e per apprezzare e sapere gestire l'obiettivo raggiunto.

Diari di quattro rinascite è un libro che mi è giunto fra le mani con una certa casualità, ma nel momento in cui forse avevo bisogno di leggere alcune parole. Dice che noi siamo responsabili della nostra vita. Ecco.

- Dice il contrario di quello che dici tu - mi viene detto. Ho regalato una copia del libro anche a questa persona, scelta fra le sei a cui avevo pensato a Natale. Perché io oggi vengo vista un po' come una fatalista, una che aspetta, e non serve a nulla dovermi convincere che il destino ce lo creiamo noi, non ne ho bisogno. Io ho fatto il percorso inverso degli altri, non ho paura ad agire e a credere in me, la mia lezione di vita è di allentare la presa e credere di più nel destino, che non può che essere meraviglioso per me. Imparare ad osservare e ad avere più fiducia, anche nelle persone. Pensare con serenità che non tutto dipende da me. Che se a volte lascio fare agli altri, il risultato potrà essere anche migliore.

L'esortazione di dover credere in se stessi e di essere artefici della propria vita, è per quelle persone che hanno paura di lottare, di provare, di affrontare. Io no. 

- Io credo che ci sia un disegno, e in mezzo il libero arbitrio - rispondo. Il mio "creare il mio destino" oggi, non è più lottare fino a sanguinare contro gli eventi, ma cogliere il bello da quello che mi succede. Io scelgo se subire e soffrire, o creare e sorridere con quello che mi viene offerto al momento. E' difficilissimo, più difficile questo per me, che fare qualcosa.

STANCO? Diari di quattro rinascite di Simona Orioli.

Simona Orioli era una mia vicina di casa, nonché compagna dell'asilo. Aveva un anno in più di me, me lo ricordo, perché quando si è piccoli, il bambino più grande di un anno, è molto più grande!
Poi c'era l'altro bambino sempre vicino di casa e che veniva nello stesso asilo, Alessandro.

Io mi trasferii a Fog City verso i cinque anni e frequentai l'ultimo anno di asilo lì. Perciò ci perdemmo di vista molto presto.
Nella mia vita, se oggi mi viene chiesto chi ricordo degli anni all'asilo, rispondo "Milena", una bambina bionda di Fog City, la suora Maria Rosa, perché era quella che mi prendeva più spesso in braccio, Simona e Alessandro, quest'ultimo perché i nostri genitori rimasero in contatto. Ma Simona, non so perché. Ci sono diverse foto di gruppo dell'asilo e c'è lei.

Un giorno mi chiese l'amicizia su Facebook e ci scambiammo qualche saluto. Mi disse che il sax era proprio un bel strumento. Mi comunicò che aveva scritto un libro che sarebbe uscito sotto Natale. 

Ci rivedemmo dopo anni, alla presentazione del suo libro, al Palazzo Novello di Montichiari, una domenica pomeriggio di dicembre per un allegro tè.

- Ognuno può interpretare in maniera diversa quello che legge - mi ricordo che disse.

Comperai sei copie senza averlo ancora letto, perché intuii che poteva essere un libro che avrebbe aiutato alcune persone, che c'erano argomenti che volevo condividere con chi mi sentivo in sintonia, e perché era corto, perciò anche quelli che non amavano leggere, potevano leggerlo in qualche ora.

- Sono quattro diari, consiglio di leggerli proprio nell'ordine - disse, mentre Viola, la sua bambina, correva qua e là.
- Guarda l'immagine di copertina - presentò.

Ho qui il libro mentre scrivo. Guardo la fotografia della copertina. C'è un lago in tempesta. Mi viene da pensare al lago di Garda. L'ho visto rabbioso, l'ho visto cupo, ma anche sereno, tranquillo e accomodante. Non ho mai pensato che il lago o il mare potessero essere sempre tranquilli o sempre agitati. E' facile pensarlo per la natura, è altrettanto semplice applicare questo concetto alla vita? Io non riesco ancora pienamente. E' una cosa teorica che so, ma ho ancora bisogno di aiuto per ricordarlo. 
Così ripenso al quarto diario: Il riflesso di un lago in tempesta, l'ultimo, quello in cui riassume e svela chi sono i tre protagonisti dei precedenti diari. Parla di trasformazione, di gratitudine. Infonde speranza e coraggio di guardare i cambiamenti e di apportarli nella propria vita.

Se sei stanco del lavoro, se stai soffrendo. Hai il potere di non continuare su questa strada. E' il riassunto di Simona. Se lei ce l'ha fatta, vuol dire che tutti possono.

Il diario che mi ha colpita di più, però, è: Come i campi di grano, il terzo. Forse perché da adolescente ho sentito anch'io il desiderio della protagonista, lo stesso dolore, ma la mia vita non proseguì con lo stesso risvolto. Anche se descrive una ragazzina, gli adulti si ritrovano spesso nelle stesse tentazioni e sofferenza. Qual è la vostra scelta? Da dove prendete il coraggio di proseguire verso un'azione o l'altra? Cosa decidete di fare? Di imparare la lezione o di posticiparla in un'altra vita? 

Tu sei la tua casa è il primo diario. Un lungo viaggio onirico e simbolico che porterà il protagonista alla rinascita, ma per arrivarci dovrà cadere, conoscersi, affrontarsi, prima di rialzarsi. Mi fa pensare alle apparenze. 

- Hai fatto il conservatorio per fare la commessa? - mi dicevano i primi tempi, dopo gli studi. Eppure, quello, per un po', fu il periodo più sereno della mia vita. 

Sono stata un'adolescente indisciplinata e spontanea, cresciuta con insegnanti che mi dicevano: "Sei superficiale", squadrata male per i corridoi del conservatorio a causa dei miei vestiti stravaganti, le gonne corte, le calze a rete. Persino il bidello mi disse che io ero lì per sbaglio.

Tutto ciò mi faceva male, avevo sedici anni. Io ci credevo in quello che dicevano. Che ero sciocca e superficiale. Mi impegnavo come potevo, rinunciavo alle vacanze perché avrei disturbato, il sabato e la domenica non andavo mai via tanto per potere esercitarmi tutti i giorni. Ho rinunciato a tante attività dei miei coetanei, chiusa fra quattro mura a suonare, mentre desideravo con tutte le mie forze andare all'aperto e liberarmi dagli obblighi e dai doveri. Amavo suonare, ma ero anche una "frivola socievole", l'apparenza infastidiva i vecchioni accademici e i figli di papà. Ero troppo timida per sbilanciarmi ed essere carina con gli insegnanti. 

Quando finalmente riuscii a diplomarmi, sentii come un grosso peso ruzzolare giù dalle scale: avevo ventidue anni, dopo tanti anni, non avevo più l'obbligo di dover suonare musica che mi faceva schifo, tutti i giorni, non interagendo e parlando con nessuno, da sola nella mia stanza, non dovevo più rispettare un programma ministeriale, gestire la competizione.

Mi piaceva scegliere gli abiti e vestire i manichini nelle vetrine, sotto Natale poi, luccicava tutto. Potevo liberare la fantasia e la femminilità. Parlavo con le clienti. Avevo il mio primo stipendio, durante il lavoro chiacchieravo con le mie colleghe, e quando tornavo, se ero stanca, non dovevo per forza montare lo strumento per studiare musica che odiavo e che non avevo scelto. Potevo uscire con le mie coetanee.

- Non penserai di stare lì per sempre vero? Con tutta la fatica che hai fatto e i soldi spesi.

Io in quel momento ero felice così, era un recuperare la mia adolescenza perduta. Ma avere a che fare con le apparenze e le aspettative era dura. Come il protagonista del primo diario. Non fu facile per me. La gente si aspettava altre cose e il vedermi in un negozio a mettere via i vestiti provati dai camerini, la vedeva come un mio fallimento. Thasala una fallita.

Come la mia amica che ora insegna lettere per fare felici i genitori mentre desiderava fare l'Isef. Perché insegnare lettere per loro era più dignitoso. Ma lei non è felice ogni mattina di svegliarsi e di fare il suo lavoro. Qual è il vero fallimento?
Eppure, siamo noi a farcene un problema, o sono veramente gli altri? Siete voi la vostra gabbia dei giudizi o sono gli altri che vi ingabbiano? Cosa vi impedisce di aprire questa gabbia e di prendere il volo? Avete le capacità di cambiare, di essere più forti dei giudizi e delle aspettative e di amare voi stessi veramente?

Leggete il primo diario.


Il mio nonno è morto da qualche mese. E' andato via nel sonno. In questo periodo affronto spesso il tema della morte, anche un mio vicino è andato via giovane, nel giro di venti giorni, e pure il mio cagnolino che venne qui, piccola come un battufolo.

Cos'è la morte? Tutti moriamo, ma allora cosa è servito vivere e soffrire? Forse la differenza sta in quello che si è fatto e provato in vita, in quello che si ha imparato. Nonostante le sue esperienze negative, in punto di morte, il protagonista del secondo diario, Quello che non ho, è quello che sono, riesce a rivedere nei suoi ultimi istanti la bellezza di quello che la vita gli aveva dato e che non aveva colto. Tuttavia riuscirà a fare pace con se stesso, e la sua vita non sarà sprecata. Ha imparato la lezione d'amore.

Il libro conta novantanove pagine, con un linguaggio fluido e diretto, l'ho letto in circa due ore. L'ho regalato ad alcuni amici importanti e a mia sorella. A mia madre è piaciuto tanto e l'ha finito prima di me. E' come un piccolo seme che in alcuni terreni farà sbocciare un fiore, in altri ci vorrà più tempo, e in altri forse non servirà a nulla. A volte ci vorranno più letture. Nei momenti di stanchezza, potrebbe essere utile rileggere qualche pagina che in passato ci aveva suggerito qualche fantasia.

Non basta un libro a cambiare la vita, non lui da solo, dobbiamo essere noi, il terreno, a sapere cogliere il messaggio.
Ma l'importante è donare quello in cui si crede, e io credo sia un piccolo, importante dono da parte di Simona, l'averlo scritto.

Grazie.


venerdì 20 febbraio 2015

"Luna-cane" dov'è?

- Zia, Luna-cane dov'è?
- Non c'è più, è morta, è andata in paradiso - mi sento così triste senza i suoi occhioni rotondi, le orecchiette a punta e la coda all'insù. Mi manca tanto, piccola Luna.
- Perché?
- Perché era vecchia, ma adesso è contenta.
- Posso vederla?
- No, la rivedrai fra tanti, tanti anni.
- Quando sarò grande?
- Quando sarai molto, ma moltissimo "grande".
- Ma io non posso più giocare con Luna-cane? - mia nipote mi fa il visetto triste e apprensivo.
- No, non tornerà più. È morta. Ma adesso lei è felice sai? Saltella con gli altri cani in paradiso - cerco di dirle entusiasta.
- Gioco con Stella-cane?
- Sì.
Lei sembra pensare un po', mi guarda come a cercare conferme, è triste come me di non vederla più, probabilmente non le è chiaro neppure il termine "morte", poi il pensiero di Luna felice sembra colpirla.
Meglio accettare la realtà di una perdita e parlarne con i grandi, che continuare a non sapere, a sperare che Luna torni.
Mi ricordo quando anni fa mia sorella perse un gatto e suo marito le nascose di averlo ritrovato investito, pensando di non rattristarla. Io non approvo le bugie. È stato molto più straziante per lei continuare a sperare di rivederlo e domandandosi come stesse, che accettare la realtà, vivere ed elaborare la perdita e andare avanti. E comunque anni dopo lo venne a sapere ugualmente per caso, e fu peggio scoprire la verità in quel modo, piuttosto che con parole dolci e abbracci di un uomo che ti è vicino e ti sorregge. A cosa è servito? A farle vivere anni di agonia e a vivere il lutto ugualmente, ma da sola, in "ritardo" e con la rabbia dell'inganno.
La verità viene sempre a galla.
"Luna-cane" ti ho sognata anche stanotte, spero veramente che ora tu stia bene e di nuovo possa saltellare felice come quando eri piccola.


Il nastro riavvolto

C'è gioia.
Imparo, proseguo.

C'è brezza.
Rileggo, domando.

C'è vita.
Mi rialzo, ci riprovo.

In questo viaggio siamo tutti allievi e maestri. Se succede, ancora torno indietro di qualche capitolo.

È questo il vero tesoro. Ora impara a gioire, ad attendere e a prendere tempo dalla brezza.
Ascolta.
Imparo, a vivere.


giovedì 19 febbraio 2015

Ora è così

Le cose strane sono che senza non so stare. 
E poi so che così non si può rimanere, allora ritorno sui miei passi.
Le cose strane sono che non c'è scelta ma io voglio scegliere.
C'è un destino ignoto. C'è un bivio che non dipende dal destino.
Le cose strane sono le riflessioni e i vuoti, che tutto e niente sembrano.
Che poi non capisco perché le persone siano così lunatiche ed impegnate.
Le cose strane siamo noi, io e te.
Altre presenze sembrano più facili quando non sei tu. 
Lei non mi spaventa, quanto spaventa te.
Le cose strane poi non sono così strane, solo che le paure sono lo specchio del mondo.
Ora è così. Ma tutto si risolve, basta un sorriso fiducioso.

Sorridi con fiducia al mondo di paure.

Le cose strane si sciolgono nella candida semplicità di un abbraccio.
In un semplice e candido abbraccio le cose non sembrano più strane.


mercoledì 11 febbraio 2015

Piccola amica

Luna è andata a dormire per sempre. Era così piccola. Luna non c'è più.
E ai bambini non si dicono bugie, non bisogna negare la realtà, perché chiederanno, intuiranno, e io ci sarò per spiegare a loro che la vita è fatta anche di queste cose, ci sarò, per coccolare la tristezza.

I bambini a volte sono tristi. Anche i grandi sono tristi, a volte.
Luna è morta, non c'è più. Fa parte della vita. Come insegnava mio nonno.
Le cose hanno un inizio e una fine, a volte è cambiamento, altre riposo e altre ancora una lezione d'amore.
Perché l'amore invece sopravvive al tempo. Grazie di avermi ascoltata e portata a passeggiare in tante ore assieme a te, piccola Luna.
Addio.

mercoledì 4 febbraio 2015

Bus

Come quando, domenica. Come stesse e cosa pensasse, come vivesse in fondo non era importante. Come stai. Non ricordo venisse chiesto.
Ma mi ricordo altre cose. Come Tu sei Pazza ad esempio.
Erano lacrime di rabbia.

Come allora sui sedili gente che saliva e scendeva e le finestre umide di pioggia.
Odore di ombrelli e sconosciuti.
Le finestre, sì. Altri posti non avevo, per stare al caldo.

Allora ero piccola, non potevo parlare. 
Oggi. Non è questione di anni.

In giro e giro. Gira. Gira. Macchia arancione nel grigio. Ecco.
Una casa, dov'è?