sabato 27 settembre 2014

Filosofia

L’uomo è  come i tartufi e le patate

Non ho mai studiato filosofia, né l’ho mai trovata particolarmente interessante. Ricordo solo una lezione nell’ora di lettere, a scuola, in cui l’insegnante spiegò qualcosa dicendo che l’uomo è come i tartufi e le patate, che vive sotto terra e lotta per cercare aria e luce, ma io ero distratta a scrivere una lettera d’amore e non seguii molto. A mia madre invece piace parecchio, ne ha studiata un po’ al liceo, e tremo sempre quando si mette a filosofeggiare. Perciò sono completamente ignorante in materia e non mi sono mai preoccupata di porvi rimedio.



Il mondo di Sofia

Jostein Gaarder è uno scrittore e filosofo norvegese, che riesce sempre ad inserire nei suoi romanzi piccoli trattati di filosofia e devo ammettere che, a dosi ridotte e mascherate da avventure, la si riesce ad ingerire e ad apprendere pure qualcosa senza soffrirne troppo. Ma mentre “L’enigma del solitario” mi risultò dolce e ghiotto, quest’ultimo che sto leggendo, “Il mondo di Sofia”, è piuttosto amarognolo. Fatico ad andare avanti e a trovare interessanti i pensieri di Aristotele, Socrate e Platone.



L’amore cos’è?

In quanti, romanzieri, psicologi, poeti e profani hanno provato a definire cos’è il vero amore, o meglio a capire quando si ama veramente o si è solo affezionati o infatuati di qualcuno? L’amore è forte attrazione fisica? Un voler bene immenso? Un accettare tutto, pregi e difetti della persona amata?

A me fu spiegato che il vero amore non è quando vedi la persona perfetta, ma quando vedi pregi e difetti e ami persino i brutti lati del carattere e i brutti momenti. 
Per tanto tempo pensai che dovessi basarmi su questa spiegazione per distinguere il vero amore, ma sinceramente, per quanto è vero che quando si vuole molto bene ti fanno tenerezza anche le imperfezioni e le debolezze umane, c’era qualcosa che non mi quadrava.

Davvero era così? Mi domandavo se avessi mai amato con questo criterio. Questa spiegazione era applicabile alla personalità di tutti?

Un anno fa ebbi una specie di illuminazione e giunsi ad una definizione del vero amore: scrissi che si capisce che si ama e si riconosce la persona giusta, quando passandoci del tempo insieme, si è se stessi, e si è felici di esserlo. Non ritengo che ci debba piacere tutto, questa cosa non mi convinceva, penso anzi che sia strano, che sia stimolante invece per entrambi ogni tanto scontrarsi, fare pace, conoscersi e scoprirsi sempre di più, non darsi per scontati, convergere le differenze… ma l’elemento essenziale era appunto la felicità di non dover fingere, di trattenersi o controllarsi per far funzionare le cose, per mantenere in equilibrio i rapporti.

E’ davvero difficile essere sé stessi. Al lavoro, con i genitori, con i fratelli, con i colleghi. Dobbiamo sempre adeguarci a dei ruoli. Non possiamo cambiarli o decidere di non aver più nulla a che fare con loro. Gli amici si possono scegliere, certo, ma non si vive assieme per tanto tempo e non si fanno esperienze di vita esclusive. Con chi allora si può essere sé stessi? 

Solo con l’unica persona che non siamo obbligati a frequentare, perché quando si ama sé stessi, non è necessario farsi andare bene qualcuno solo per non rimanere soli.

Perciò nella mia ottica pongo il proprio io e le proprie sensazioni in risposta ai quesiti, e non l’amato. E questo è coerente con il pensiero che dice che, per amare veramente il prossimo, è necessario sapere amare prima se stessi. Se due persone sono entrambi felici di essere sé stessi insieme, allora quella è la persona giusta.
Una visione piuttosto semplice. La mia visione profana.



L’anima

Per Platone l’anima è esistita prima che prendesse dimora in un corpo. Un tempo l’anima era nel mondo delle idee, tuttavia, una volta nel corpo umano, l’uomo si dimentica. Nell’anima nasce il desiderio di ritornare alla sua vera dimora. Platone chiama questo desiderio Eros, cioè amore. L’anima prova quindi il desiderio d’amore, di ritornare alla sua vera origine. Sulle ali dell’amore l’anima vuole volare a casa, nel mondo delle idee.
(Jostein Gaarder, "Il mondo di Sofia")


Mi è piaciuto questo passo che ho letto oggi, ho trovato interessante che il desiderio di “tornare a casa” venga chiamato “amore” da Platone. Mi ha fatto ricordare quella mia riflessione di dell'anno scorso.
Credo che tutti noi, per tutta la vita, vorremmo intensamente poter "tornare a casa", sentirci sereni insieme ad una persona.

E questa è la mia piccola pillolina di filosofia, pure io filosofeggio, nonostante tutto.



giovedì 25 settembre 2014

Forum, discussioni, libri ed e-book. Le mie opinioni.

Tengo un blog, principalmente per dire quello che penso. Ci sono tanti modi per dire quello che si pensa senza tenerne uno, la maggior parte della gente lo fa, ma io per certi versi, e non me ne vanto, me ne sto un po' sulle mie. 

Di solito tendo a non esprimere i miei pensieri, a meno che non mi trovi veramente bene ed in confidenza con qualcuno, e allora chiacchiero e chiacchiero, come se mi piacesse condividere il mio mondo allo stesso modo di quando scrivo sul blog. Oppure lo faccio se mi viene richiesto, o meglio ancora se mi pagano per farlo (per esempio, dare consigli su come suonare, lo faccio perché mi viene richiesto e mi pagano per farlo, altrimenti, non ne avrei alcuna voglia e inclinazione).

Non so se sono nata così o è una conseguenza dell'essere cresciuta in un ambiente numeroso di più persone in disaccordo, per cui era meglio non partecipare al caos, ma so che le discussioni, i litigi, mi fanno perdere il controllo e mi sento come se dovessi dileguarmi e salvarmi, prima che esplodano le bombe.

Mi piace molto leggere i forum e i gruppi di discussione, anche se raramente partecipo. Io leggo le domande e i post da cui scaturiscono le risposte e leggo tutti, ma proprio tutti i commenti. Mi piace sapere cosa passa per la testa della gente, studiare la società, anche se poi non me ne faccio nulla.

Mi lasciano molto perplessa i litigi on line. Davvero non capisco il senso di arrabbiarsi e di perdere il tempo per insultare, offendere e cercare di far prevalere le proprie ragioni con degli sconosciuti. Già nella vita reale non trovo utile litigare in questo modo con chi devo condividere spazi e tempo, ancor meno mi viene voglia di farlo con persone che non hanno niente a che vedere con me. 

A parte i forum, a volte anche sotto i miei video di Youtube ho trovato offese e provocazioni di troll, e per fortuna non faccio video con contenuti particolari e a larga diffusione. Di solito mi sono limitata a cancellare, ma spesso anche a lasciare i commenti e passare avanti.

Per me è anche una questione di pigrizia: scaldarsi per un'offesa richiede molte energie ed adrenalina, e forse io mi sento troppo indolente per partecipare alle risse. Perciò, rimango sempre molto perplessa e/o divertita, a seconda degli argomenti di discussione, di come invece siano in tanti a soffrire, arrabbiarsi e a prendere a cuore questioni che poi, una volta spento il pc, non modifica la loro vita di una virgola, se non perpetuare una certa sensazione di veleno e di malumore.
Certo è, che litigare con accanimento e voler averla vinta, scrivendo su di una tastiera, richiede un sacco di tempo.

Questo non vuol dire che io subisca e che sia sempre d'accordo, al contrario. Nella vita reale, con le persone a cui tengo, dialogo molto, dialogo parecchio. Non mi piace lasciare i problemi irrisolti, non mi piace che si ripetano continuamente le stesse dinamiche sbagliate. Mi impegno anche ai compromessi e a capire perché ci si arrabbia, perché non ci si capisce. Se il più delle volte sembra che il mio atteggiamento sia di disinteresse, è perché, in effetti, sono veramente poche le persone a cui tengo così tanto da dovermi impegnare. 
Detto proprio così, schiettamente: in generale non me ne frega niente quasi di nessuno.

Sono tanti i forum di discussione che mi fanno pensare. Alcuni argomenti sono pesanti, altri frivoli. Magari pian piano ne parlerò, oggi volevo scrivere qualcosa su un argomento leggero e tecnologico: il dibattito fra gli e-book e i tradizionali libri cartacei, o meglio fra chi preferisce l'uno e chi l'altro.

Ecco, io per esempio in questo "scontro" non ho alcuna voglia di intromettermi, perciò mi sono rifugiata nel mio angolino per dire la mia.

Libro cartaceo o e-book? Penso che uno non escluda l'altro e che, in generale, non condivido l'atteggiamento degli assolutisti.

Quando vivevo dai miei, avevo la camera piena di libri, tutti i miei guadagni andavano là. Da piccola, ogni venerdì pomeriggio, mia madre portava me e i miei fratelli in biblioteca e, da quando ho imparato a leggere, sono cresciuta con l'abitudine di leggerne uno o due a settimana. Ricordo che a certi libri mi affezionavo e mi dispiaceva tanto restituirli, ma purtroppo non erano miei, così, una volta lavoratrice, ho smesso di frequentare le biblioteche in favore delle librerie.

A me piaceva essere circondata da letture, ma dopo un po' ho dovuto smettere di comprarne perché non sapevo più dove metterle. Iniziava a starmi stretta la mia camera, avevo bisogno di ossigeno, tanto più che i libri prendono polvere facilmente, mi sentivo soffocata letteralmente dalla carta e dalla polvere, ma ero affezionata ai miei mondi dietro a quelle copertine, ai miei personaggi rinchiusi in quelle pagine e non volevo liberarmene. Come avrei fatto se una sera, in solitudine, avessi avuto voglia di rileggere un romanzo?

L'e-book fu una bella trovata. Dopo essermi assicurata di averne una copia in formato elettronico per ogni libro che volevo dare via, trovai la forza e il coraggio di fare gli scatoloni e salutarli. 

Se penso che il mio trasloco di libri sia consistito nell'infilare in borsetta il mio e-book, anzichè trasportare tutti quegli scatoloni, e che in casa mia ci sono centinaia di libri e lo so solo io, sono a favore dell'elettronica.

D'altro canto, è vero che non è la stessa cosa. Un libro si sfoglia, si annota, si sottolinea, si annusa e si porta in spiaggia senza la paura della sabbia che si infila in granelli nel dispositivo o che venga rubato, o che si rovini sotto il sole. 
Un libro vecchio e ingiallito di qualche storica edizione, racconta un romanzo nel romanzo. Un libro mi ricorda la mia infanzia, quando ai compleanni e alle feste varie mi riempivano di libri, enciclopedie ed atlanti. Infatti non li ho dato via tutti: quelli con le dediche, i ricordi e le date, me li sono tenuti.

Perciò sono giunta ad alcune mie personali conclusioni e a convivere con entrambi i formati: nell'e-book reader ci vanno i romanzi, quelle trame di sola lettura per intenderci, mentre per gli argomenti di consultazione, quelli dove si leggono e si rileggono alcuni capitoli e si ha bisogno di sottolineare, è meglio avere il libro tradizionale.

Tenendo conto che se si perde o si rovina un lettore e-book, si perdono centinaia di libri, è sempre meglio avere su altro dispositivo una seconda copia di tutti i files. In vacanza però è meglio portare un paio di libri "normali" in edizione economica, che sono leggeri e meno impegnativi e non c'è il rischio che finisca la batteria e si spenga sul più bello. A casa o nei lunghi viaggi di lavoro o di studio invece, meglio il lettore, si possono portare in valigia tantissimi volumi senza trascinarsi pesi.

Se uno spende molto per leggere, l'e-book è più economico e facilmente reperibile: senza spese di stampa, trasporto e vendita in negozio, lo stesso libro costa anche meno della metà della versione stampata. Io ne acquisto spesso on line e scovo parecchi titoli che in libreria non vendono, e dopo aver pagato arrivano immediatamente via e-mail i links da cui scaricare le mie letture. Risulta perciò anche comodo e rapido per acquistare libri in qualsiasi lingua da ogni parte del mondo, semplicemente con una connessione ed una carta di credito.

Ecco, queste sono le mie opinioni, che non ho avuto voglia di scrivere e condividere con tutta quella gente sul forum che sta discutendo. Meglio qui sul mio blog, a casa mia.

Qui mi sento più serena.


mercoledì 24 settembre 2014

Scarpette

Non è una salutare posizione, ma io quando leggo a letto, dopo un po' finisco con una guancia appoggiata su un braccio formicolante. Così il mio orecchio vicinissimo alla guancia, sente le percussioni, forti e decise, un po' irruenti e, mi dico, fra il sonno e lo stordimento:

"Mi batte il cuore! Sono viva!" 

Questo pensiero è scioccherello per due motivi: il primo è che il mio cuore non si trova nel mio braccio destro, e il secondo è che non ha mai avuto problemi a farsi sentire, nel senso biologico, non romantico. Il mio cuore di solito batte assai.

Spengo la luce e nel farlo mi ridesto un po', così divento consapevole che quelle pulsazioni provenivano dalle mie vene, dal sangue che vi scorre dentro e che dovrebbe arrivare alle mani e alle dita, se non ci fosse la mia testa pesante appoggiata sopra.

A proposito del sangue, quand'ero piccola ricordo di averlo avuto piuttosto liquido e che le ferite sanguinavano più a lungo della media, prima di rimarginarsi. Credo fosse una cosa di piastrine. Poi c'era quella cosa dell'epistassi che, non so come, mi è sparita da un giorno all'altro.

Sì, mi ricordo che magari parlavo e mi trovavo le gocce di sangue all'improvviso sui vestiti. Quando atterrai in California, qualche minuto dopo cominciai a perderne e, sapete, magari è un aiuto divino se durante un'interrogazione non sai la risposta e succede questa cosa, e allora ti agiti, fai un po' di scena e mandi in crisi pure la profe che ti spedisce in bagno a sistemarti, ma arrivò pure un paio di volte durante i concerti col coro del conservatorio e furono delle seccature, perché il fazzoletto mi toglieva il rossetto e la cipria dal naso.

Però da adolescente mi sentivo importante per questo problema, così come il pesare quaranta chili e sentire continuamente commenti di persone che mi dicevano di metterne su un po'.
Piccola sia in verticale che in orizzontale, mi sentivo piccola pure nel mondo per quel fisico acerbo che non volevo far diventare donna, mi sentivo bella e perfetta, come Emilia quando cantava:

"I'm a big, big, girl in a big, big world..." e per questo le persone dovevano proteggermi, non sporcarmi, per mantenere i pensieri liquidi ed innocenti.

Il proibito era solo un gioco di ribellione, uno scherzetto perverso, una provocazione divertente, come se pensassi che senza una salute ballerina, la sigaretta in bocca e le scarpette da bambola e tutti quei teatrini, non potessi essere altrettanto importante e non avessi il diritto di ricevere attenzioni.

Quanto tempo è passato!

La medicina psicosomatica dice che chi soffre di epistassi "piange sangue", come se perdesse la voglia di vivere. Non lo so se è così.
Ma il mio corpo è cambiato, non peso più quaranta chili, sono più rotondetta, non ho più quei bruciori allo stomaco di quando digiunavo per non ingrassare di un grammo, adesso mangio e il mio sangue è cambiato... ora coagula! Non ho più sanguinato da almeno dieci anni.

Chissà cosa è successo.
Chissà cosa è cambiato.
Chissà cosa succederà e cambierà ancora.
 
Tuesday bloody tuesday.


lunedì 22 settembre 2014

Fiori di campo

Un quaderno di carta e ancora, una penna ad inchiostro. Lettere da imbucare in posta e giorni di attesa del postino. Memorie di un'epoca passata, di quando ero una ragazzetta con le calze lunghe e le gonne troppo corte. A quei tempi, ancora si scriveva a mano. A quei tempi, mi interrogavo su cosa fosse l'amore. Giran e rigiran i dischi di vinile, le cassette a nastro, le cartoline in vacanza. C'erano i francobolli, c'erano le file alla cabina telefonica. Cos'è la nostalgia? E' un venticello di fine estate e una casa fredda e decadente.

Una vita di acquerello che di gocce liquide puntella, saltella e macchia cerchi d'acqua. Sono solo bolle colorate senza forma, ricordi che si allargano e si perdono, si nascondono, si scordano. 

Innocenza. 
 
Mentre tutto continuava a correre e a scorrere. Non ho più nessun mio quaderno delle elementari. Non ho nulla da derubare. Solo parole e sussurri che di notte mi parlano e mi sbarrano gli occhi. Fisso la notte. Vieni a prendere quello che non ho.

Ci si stanca, ci si accetta, si ascolta fuori per non ascoltare dentro. Non ci sono più bivi, solo percorsi obbligati. Oramai.

Ma io cammino e volgo il naso all'insù. Con i piedi scalzi in terra, con i capezzoli chiari e scuri, con una mongolfiera al posto della testa, di aria rosa, decorata a fiorellini di campo.

Sono io, sono il capro espiatorio. 
Sfogati, colpiscimi. Feriscimi, se ti fa stare meglio. E' solo un corpo. Io azzero la mente e mi allontano da questo corpo, so farlo. Ma non sono in grado di piegarmi a te.



Non potrai cercare di stringere, non potrai impegnarti anche se lo vuoi, a piegare il Nulla.




venerdì 12 settembre 2014

martedì 9 settembre 2014

In la minore

Nella mia casetta ideale, in realtà ci ho già vissuto, non in questa vita però.

Era a più piani, con un grazioso giardino e tante margheritine e i fiori delicati.
Con le tende alle tante finestre e la tranquillità e il verde attorno a me, come a voler riposare il capo e il cuore stanco di sera. Come a voler lasciare il mondo di fuori.
Perché quando si sta bene in casa con le persone che ami, non è più necessario trovare diversivi esterni, basta un abbraccio per far scivolare il peso.

Nella mia casetta ci stava tanta musica e silenziosa pace, come una domenica mattina di canti di uccellini alle finestre e grilli estivi nelle notti rischiarate da lucciole. C'erano i libri e le pianticelle, le tovaglie a quadretti rossi e biachi. 
La sera mi piaceva conversare e scambiare idee, vivere nell'affetto e nella gioia, con le poche persone attorno a me. Con la neve bianca di fuori. Vestivo di leggera mussolina chiara, con i capelli raccolti su e le sottane leggere e i piedi nudi. Ma mi sentivo protetta.

Credevo di volere fare grandi cose, credevo di poter essere felice solo con un futuro grandioso. Ma non era così. Credevo di voler scappare e di non essere in grado, di reggere le guerre fredde e i familiari silenzi di una famiglia che non c'è.

Ora, sono così stanca. 
Nella mia casetta, ci vorrei tornare.

Quanto dovrà durare ancora questo viaggio prima di poter tornare a casa?
Quanta nostalgia nei miei pensieri, quanto smarrimento nel mio cuore.
Ho scordato la strada. 

Mi manca la mia abbandonata dimora, mi manca il mio mondo perduto. In questa mia vita, sono una gitana dagli abiti strappati. 



Vestiti che non mi appartengono.




domenica 7 settembre 2014

In sol

In ogni alito di vento, in ogni sguardo e volto, in ogni sussurro gridato, come gridi sussurrati, come pensieri soffocati. E piccoli, grandi passi in qualsiasi direzione. 

Non hanno importanza. 

In ogni secondo scandito, di palpito, in ogni nota, melodia e scatto fotografico del passato. Discorsi frivoli e culturali per essere di compagnia oggi. Tintinnare di nuvole e di raggi tersi, viola, su di me. 

Se alzo la testa e guardo lontano per distanziarmi da questa realtà, queste giornate come film. Come una trama e tutti attori. Sono tante maschere, la mia è di cartongesso.

Nuvole d'oro, disco di fuoco rosso, davanti a me, bagna di luce il muto orizzonte.

Silenzio.
Il senso.


Il senso. 


Tutto scorre in un senso, un unico filo. Un unico tasto, un solo scatto. Un solo pensiero.
Neanche il più sonoro, entusiasto scrosciare, gridare, ridacchiare, riesce a nascondere il vuoto nudo dei camerini.




venerdì 5 settembre 2014

Bambina

Io ci credo nei sogni. Non di quelli nel cassetto o come le stelle belle e lontane. Io sono nata per realizzare i sogni. Se ci penso, le cose che ho sempre fortemente desiderato si sono quasi tutte realizzate.
Quello che a volte mi è difficilie capire ed accettare, è che le mie richieste si realizzano nei tempi che vogliono loro e sotto altre spoglie. Di solito si realizzano tardi, troppo tardi per i miei gusti. Ma sto imparando ad essere più paziente. 

Si dice che le difficoltà, o quelle che appaiono tali, arrivino per insegnarci qualcosa. Io fin da piccola ho sempre sofferto di impazienza: soprattutto mi sento insofferente se la gente non capisce. A scuola capitava spesso che io anticipassi le idee delle maestre, che leggessi velocemente e finissi le cose prima degli altri. Non ero un genio, ma sono sempre stata una "rapida" nel fare le cose. Mi ricordo quanto mi sentivo insofferente quando gli altri non ci arrivavano, non capivano, e guarda caso la vita mi ha obbligata a fare l'insegnante e a ripetere cento, mille volte gli stessi concetti e spesso con persone "lente". Un compito ed esercizio di tolleranza e pazienza per me severissimo.

Attesa, attesa e fatica. la mia vita mi ha sempre messo in queste condizioni, proprio me che sono così pigra e voglio subito le cose.
 
Da piccola mi visualizzavo indipendente a diciotto anni, a vivere da sola, con già uno stipendio mio e alla guida di una mia auto. Ho tutte queste cose oggi, ma il mio obiettivo era ottenere queste cose subito, con la maggiore età. Ebbene, io a diciannove anni ero già andata a cercare un appartamento in condivisione a Milano, ma nessuna inquilina mi ha voluta con il mio sax, perché ero una convivente rumorosa. Poi, fra quattro fratelli, mi sono ritrovata l'unica a dovermi arrangiare per la patente, ma anche per le tasse e gli studi e ogni cosa. Così, fra studiare e lavorare, finire la scuola per non avere più le tasse e altre difficoltà, e poi comprarmi la macchina, il mio desiderio di indipendenza è arrivato più tardi di quello che volevo. Adesso che ci penso però, con la testa calda e distratta che avevo appena maggiorenne, forse è stato un bene che sia riuscita a conquistare il posto di guida a ventiquattro anni.

Che cosa dovevo imparare? Ad apprezzare il presente, a gioire delle mie sudate conquiste, a non avere fretta?
Comincio a pensare che sia così. Però... Quanto sono positiva, me ne rendo conto! Non so perché riesco a trovare il lato positivo, quasi sempre, anche nelle battaglie perse.
Non riesco neppure a pensare di poter perdere una guerra anche dopo dieci, venti battaglie perse. Non so come faccio. Sono sempre stata così?

Se ripenso a me da piccola, temo di sì. Mi immagino una bambina di nove anni che, davanti alla televisione, rimane affascinata dal sax. E qualche anno dopo che insiste per averlo, e insiste e insiste. E si calma per un po', poi di nuovo chiede e promette sacrifici e rinunce e non scorda mai l'obiettivo. Tutta questa tenacia e fiducia, per quattro, lunghi, anni. 
Sì, ero già così da bambina.

Poi mi ricordo di un lungo periodo buio, quando nessuno più credeva nelle mie capacità, io stessa.
Ma in fondo c'era una parte di me, convinta che io valessi, nonostante le delusioni e i fallimenti. Era testardaggine? Un non volere accettare le cose? Non saprei, fatto sta che undici anni dopo e con molte fatiche, ho riconquistato la mia posizione e riacquistato la mia fiducia.
Non sono mai cambiata.

Va bene: sono testarda, non mi importa di quello che credono e pensano gli altri di me, sono impaziente, sì, ma è per questo che sono veloce a cogliere le occasioni, e ho pure una mente un po' contorta e criminale quando progetto e osservo le persone e le cose. Ma è grazie a queste cose che io arrivo.

Ho scoperto da poco e casualmente un gruppo che parla di legge dell'attrazione e si basa sull'idea dell' Ho oponopono, che deriva dalla cultura hawaiana e significa "mettere le cose a posto". Il concetto da cui scaturiscono tutti gli esercizi e i modi di vivere, è che noi siamo artefici della nostra vita, della nostra gioia o della nostra infelicità, e che abbiamo tutti i mezzi per aggiustare le cose.

Non voglio addentrarmi nell'argomento perché è facile, se uno lo volesse, cercare informazioni con un motore di ricerca. Voglio solo parlare di alcuni esercizi che fanno parte del programma e che ho scoperto di farli già fin da piccola, senza sapere che fossero pratiche delle leggi di attrazione.

Il primo esercizio serve per potenziare il proprio credo. Quando desideriamo fortemente una cosa, spesso ci facciamo sopraffare dalle difficoltà e scordiamo il traguardo. Abbiamo paura. Ci arrendiamo quando qualcuno ci mette i bastoni fra le ruote o gli altri non ci aiutano. Vediamo le difficoltà e non ci crediamo più.

L'esercizio consiste in una sorta di meditazione, può durare un minuto o anche di più, ma sarebbe consigliabile riuscire a farlo quotidianamente.

Per eseguirlo ci si mette tranquilli e si visualizza la situazione che vorremmo vivere. A seconda del carattere di chi lo fa, potrebbe essere facile o difficile. Con la pratica, bisogna riuscire a visualizzare i particolari, sentire la pace o la felicità di quella vita che vorremmo, viverla e non solo guardarla anche nella meditazione. Questo esercizio che potrebbe sembrare inutile, è in realtà un mezzo potente che quasi tutti i pazzi mettono in pratica. Per esempio, io.

Quando io sognavo ad occhi aperti sul banco di scuola e tutti mi richiamavano e sgridavano o quando mi distraggo, o quando dopo anni gli altri ci hanno rinunciato e invece sono l'unica ancora a crederci, è perché senza che nessuno me l'abbia insegnanto, sto praticando il primo esercizio della legge dell'attrazione.

E' perché ne sono talmente convinta e desiderosa, che quando mi riscuoto da queste "meditazioni", tutto il mio corpo, tutte le mie azioni e tutta la mia mente è proiettata fortemente verso quell'immagine e ogni passo che faccio è in una direzione. 

Sono i piccoli passi che contano. E' il traguardo che conta. Se non siamo i primi a crederci e ad esserne entusiasti, come possiamo convincere gli altri?

Il secondo esercizio è per non vivere nella frustrazione, che ci fa diventare dei persecutori verso mete impossibili. Perché si sa: volere è potere, ma bisogna essere capaci di discernere il possibile dall'impossibile.
Ad avere ancora fiducia nella vita e a credere che le cose ci sono per un motivo, anche se non capiamo subito.
Non possiamo chiedere di volare senza ali.

Ogni giorno, bisogna sforzarsi di trovare cinque cose belle della vita che stiamo vivendo e ringraziare. Io non è che lo faccio proprio così, ma fin da piccola ho sempre avuto una naturale predisposizione ad apprezzare le cose che mi girano attorno, e pure ora.

Per esempio, quando viaggiando ci si perde, mentre gli altri brontolano, io sono attratta verso le nuove strade e i paesaggi inaspettati e sono pure contenta delle deviazioni a sorpresa. Mi godo il bello e gusto l'avventura. Se la casa in cui vivo è più piccola di quello che vorrei e gli spazi sono ristretti, mi impegno a sfruttare ed arredare ingegnosamente. Oppure di recente ho fatto una cernita del vecchio e ho donato tutto alla Caritas. Erano cose che non mi servivano e non c'era più veramente spazio, questo mi ha permesso di alleggerirmi e la sensazione di dar via il vecchio per donare a chi ha più bisogno, è bellissima. Ho apprezzato la capacità di vivere con poche cose, situazione che ti costringe una casa piccola.

Ogni giorno, abbiamo sempre qualcosa da ringraziare. Diamo per scontato perché viviamo qui, ma soldi, salute, bellezza, lavoro, genitori, una casa, un posto dove dormire senza bombardamenti, non sono cose scontate. 
A volte ringrazio il tempo. Quando piove perché posso dormire bene, accendere le candele. Chiudere le finestre e ascoltare la mia quiete. Quando c'è sole perché posso vestirmi più femminile, girare a piedi nudi, prendere la bici, tirarmi su i capelli.

Non me l'ha mai insegnato nessuno. Sono sempre stata così.

Ho iniziato a scrivere questo post pensando ad un mio sogno che vorrei vedere realizzato. Ma poi ho pensato che non bisogna rivelarli, altrimenti non si realizzano. Ma ci credo, ci credo, sì.
Io continuo a crederci e a visualizzare la felicità, non mi interessa quello che pensano gli altri.

Nel frattempo, mi dedico ad altre cose che mi rendono felice lo stesso e metto in pratica la pazienza, noiosa e pallosa lezione della mia vita, ma miglioro. In certe cose sono così brava, in altre no. Quando le cose diventano veramente difficili, succede sempre qualcosa volta a darmi una mano. Non so perché.
Forse perché sono nata per essere felice, non per soffrire. Perché non sono come tutti gli altri. 
Gli altri sono qui e si lamentano, piangono e stanno male e non sono capaci di uscirne.
Io ho sempre scalpitato per raggiungere un sorriso e per trovare una via d'uscita. 

Per questo, so che andrà tutto bene.



martedì 2 settembre 2014

Parliamo di "Privacy" (di questi tempi)

Tante persone terrorizzate dalle intrusioni nella propria privacy, a volte mi fanno proprio ridere. Sono quelle che poi sui social network pubblicano foto dei bambini, condividono nomi e cognomi, avvisano ogni volta che vanno in vacanza, che tornano, che mangiano e poi vanno in bagno, dicono quando dormono, che visite fanno all’ospedale e tutto e di più. Ma poi si arrabbiano e gridano se si lede la loro sacra privacy.

Rido non perché sottovaluto l’importanza di non fare sapere le cose per la propria incolumità, io stessa non ho il mio cognome sul campanello di casa e faccio ancora recapitare la posta a casa dei miei, ma perché li trovo incoerenti ed ignoranti.

Ho tre punti nella mia testa che continuano a solleticarmi:

1- Perché la gente dovrebbe tanto interessarsi a me, a te?
Capisco i personaggi famosi, ma io e te che abbiamo di così interessante, da suscitare un’attenzione morbosa tale da scomodare qualcuno, fargli perdere tempo e denaro per indagare nella nostra vita privata? Io credo che anche se mi mettessi in topless sul balcone, Novella 2000 non pubblicherebbe le mie foto, pure se fossi io a pagare per farlo. Io credo invece, che a parte i ladri che puntano a sapere quando o no siamo in casa, alla gente comune non gliene frega una beata mazza di quello che facciamo. Quindi rilassiamoci e ridimensioniamo il nostro ego: non siamo la Bellucci o Berlusconi.

2- Non ho niente da nascondere.
Ok, poniamo che qualcuno sappia cosa faccio di lavoro, che faccia ho, quante sorelle ho , se sono single, dove sono andata ieri sera, con chi sono uscita, quante paia di scarpe abbia comprato. Non è che la mia vita cambi. Tutto quello che c’è in rete, è la mia vita reale chiara e trasparente. Sono cose che potrei dire ad un colloquio di lavoro. Non devo preoccuparmi di non far sapere a qualcuno che l’ho tradito con qualcuno. Coerente nella realtà, coerente nel virtuale. Non hanno senso le foto diverse da quelli che si è, non ha alcun senso fingere di avere la pelle liscia se poi quando ti vedo hai i brufoli. O farsi foto in sui sembro una stangona e poi non supero il metro e sessanta. Oppure mettere foto di vent’anni fa. Non è che la privacy sia una scusa per bleffare e nascondersi dietro la maschera?

3- Se ti da tanto fastidio o hai paura, o impari ad usare i social, oppure non ti iscrivi.
Quando ci si iscrive ad un qualsiasi social, ci sono le regole chiare da leggere prima di cliccare il tasto “accetto” o “annulla”. Per poter andare avanti è necessario accettare. Qualcuno dice pure che è una fregatura, ma nessuno obbliga nessuno a far parte, per esempio, di Facebook. Se si trovano inammissibili le regole, basta non iscriversi.
Il tasto più discusso sono le fotografie: quando un utente le pubblica sullo spazio gratuito che offre il social, il materiale diventa di proprietà anche del social. Ora, perché protestare? Le regole lo dicono, caspita, sei in casa d’altri, o è così, o è così.

Parlando prettamente di Facebook, se lo si impara ad usare, è possibile comunque divertirsi, condividere quello che si vuole con chi si vuole e proteggersi. Chi dice il contrario è perché non sa usarlo.
Qualsiasi post, informazione e foto che un utente vuole pubblicare, ha un menù a tendina con le varie opzioni da scegliere, che sono:

- Rendi visibile a tutti.
- Rendi visibile agli amici e agli amici degli amici.
- Rendi visibile solo agli amici.
- Rendi visibile agli amici tranne che a:
- Rendi visibile solo a questi amici:
- Rendi visibile solo a te stesso.

In questo modo l’utente medio, ovvero la maggior parte, non ha possibilità di invadere la tua privacy se non lo vuoi. Poi certo ci sono gli hacker e gli "smanettoni" che sono la minoranza e che riescono ad accedere a dati anche laddove non si potrebbe, ma si ritorna sempre ai primi due punti: perché dovrebbero interessarsi a te e cos’hai da nascondere?

I social network sono divertenti e vengono usati per disparate ragioni, mi preme nel mio caso avvisare in poco tempo, tante persone, quando devo fare eventi musicali e poi condividerne le foto. Non sono preoccupata della mia privacy e delle mie immagini o video diffusi in rete, che tanto sono sempre inerenti al mio lavoro o quasi, anche se conto migliaia di amicizie con amici, colleghi e sconosciuti.

Ci sono però alcuni comportamenti comuni nell’uso di Facebook, che trovo pericolosi, molto più delle foto e dei dati diffusi. Delle vere e proprie minacce per la propria privacy:

1- I post delle vacanze. 
Ok le foto dei luoghi, meglio se pubblicati al rientro ma va anche bene durante, ma scrivere: “Parto il giorno X e torno il giorno X” è proprio far sapere gratuitamente a qualche malintenzionato che la casa è incustodita in quei giorni. Ho sempre preferito rimanere nel vago sull’argomento.

2- Identità. 
In realtà, anche se “obbligatorio”, Facebook non riconosce se un nome è vero o finto. Io non metto il mio cognome solo perché in Italia sarei facilmente rintracciabile, ma di solito un normale nome italiano con un normale cognome italiano non è pericoloso, c’è sempre qualcuno che si chiama allo stesso modo. Certo se non si vuole essere identificati basterebbe inventarsene uno e farsi riconoscere solo dagli amici. Ma non ha senso salire su un palco, mostrare il volto al pubblico e non volere essere riconosciuti. Neppure la provincia è obbligatorio indicare. Ma se uno scrive nome, cognome e paese, dovrebbe sapere che basterebbe leggere le pagine bianche per ottenere un indirizzo e andare sotto casa. Se si hanno di questi timori, meglio lasciare vuoto il campo.

3- Le foto dei bambini. 
Allora, sono più i genitori degli stessi a metterli che amici e parenti, si sa: siamo narcisisti, è più bello mettere le proprie foto, ma questi genitori poi si indignano e si comportano da premurosi iperprotettivi, che non vogliono che le facce dei loro bimbi siano di dominio pubblico. Per Bacco! Penso sempre, non sarebbe più coerente non metterle? Ma poi ogni volta mi viene pure da pensare: ma poi sai in quanti gliene frega di sapere che faccia hanno e di rubare le foto dei tuoi figli???

4- Carte di credito e conti correnti. 
Mai credere alle mail con richieste di dati. Se si va col mouse sul link che indicano, in basso compare sempre il vero indirizzo del sito, di solito dai nomi palesemente sospetti. E comunque le banche e le poste non richiedono mai dati importanti tramite e-mail. La mia posta (vera) mi avvisa da mesi tramite mail e lettere di andare nei loro uffici per modificare dei dati stupidi sulla prepagata, ma io sono troppo pigra per andarci, e nonostante io sia iscritta sul loro sito non ho il permesso di farlo da sola, perché possono farlo solo i loro impiegati allo sportello.
Comunque per le carte di credito e le funzioni dei conti correnti on line, ci sono sempre gli avvisi tramite sms e/o email per ogni utilizzo o attività. E se proprio, proprio ci si vuole sentire ancora più sicuri, basta sottoscrivere una carta di credito Visa o Mastercard ricaricabile, scollegata dal proprio conto corrente. Si possono ricaricare nelle tabaccherie adibite, da poche decine di euro fino a cinquemila e ci si può fare di tutto: pagare on line, viaggiare, pagare nei negozi e ristoranti.

Io trovo invece che sia una forma di protezione una piccola mancanza di privacy, è questo che permette alla polizia di indagare e scoprire su persone pericolose, quando ce ne fosse bisogno. Telefonate registrate, videocamere piazzate in luoghi pubblici. Archivi di rete.
Ricordo che quando anni fa decisero di mettere le telecamere su una nota via del centro ritenuta malfamata, in tanti protestarono per la mancanza di privacy. Io invece ero favorevole perché potevano così vigilare sui soggetti pericolosi, in quanto a me, non era un problema se passeggiando mi beccavano con le dita nel naso o con la bocca spalancata dallo sbadiglio.

Infine, vige sempre la regola del buon senso. Le bimbe e le donne che vengono violentate da sconosciuti incontrati in rete sono stupidine di loro, e avrebbero abboccato anche se li avessero incontrati per strada. E’ sempre successo e sempre succederà. Una volta raccomandavano di non accettare caramelle e passaggi dagli sconosciuti, ora sarebbe meglio dire: “Non dare (tu) caramelle e passaggi agli sconosciuti di Facebook, o di Skype, o di Whatsapp!”



lunedì 1 settembre 2014

Culla


Non è un errore, se gli occhi stanchi cedono, le braccia pesanti si abbandonano e la mente si arrende.
Qual è l'altra faccia del fallimento?


Non è un peccato addormentarsi nonostante le mille cose che si dovrebbero fare.
Richiami e doveri e responsabilità.
Dov'è il mio infante giardino?


Quando è il cuore a pulsare troppo e il respiro rapido richiede più aria di quello che c'è.
Allora una costruzione vecchia di sabbia crolla.


Un finto castello, una finta principessa, una nuvola che ha mutato forma...




Dormi.
Non hai risposte.
Protetta dal Grande Sonno.










"Per arrivare all'alba
non c'è altra via
che la notte"

(Kahlil Gibran)