giovedì 23 ottobre 2014

Shhh! Non fare la bambina!

Mi ricordo del perché a volte mi sento frenata quando devo uscire per negozi con mia sorella. Non capisco perché mi dica di abbassare la voce o di zittirmi quando trovo qualcosa che mi piace e allora esclamo felice il mio entusiasmo. Non è che io gridi, solo mi lascio sfuggire: "Guarda questo! Guarda che bello!!!". E lei: "Shhh! Ti sentono!".
Io mi guardo attorno e non vedo gente infastidita... solo curiosa, divertita o indifferente. In verità, quasi non si accorgono di me. Poi lei aggiunge: "Non fare la bambina". E io ci rimango male, non capisco perché essere entusiasti di qualcosa sia riservato ai bambini, gli adulti non si entusiasmano mai? 
Non mi sembra di essere maleducata in quei momenti.

Invece io trovo maleducato chi parla dei fatti propri ad alta voce al telefono, in luoghi pubblici, quello sì, o chi dice parolacce in continuazione, chi arriva in ritardo, chi non restituisce le cose prese in prestito, chi spettegola alle spalle o fuma senza preoccuparsi di chi ha vicino. Non mi sembra che essere felici sia maleducazione, ma, a quanto pare, a molti da fastidio. A molti di quelli infelici.

Ho notato che si parla spesso di autostima e di felicità come requisiti positivi e da raggiungere, poi però quando una persona si dimostra sicura di sè, appagata e felice, la gente attorno bisbiglia: "Io odio quelli che si fanno gli autoscatti". "Ma chi ti credi di essere", "Non fare la bambina", "Cresci".

Così ho analizzato l'origine di questi fastidi.

"Io odio quelli che si fanno gli autoscatti". Chi lo afferma di solito, vuol dire che non se li fa. Certamente a chi piace farseli, come a me, c'è una certa dose di narcisismo ed autocompiacimento, ma fra tutti i difetti, se così li si può chiamare, se la vanità viene espressa in fotografie, non vedo come possa infastidire qualcuno. 

Invece ho capito perché la cosa infastidisce: non sono invidiosi dell'aspetto fisico (magari qualcuno sì), ma si sentono urtati dalla buona autostima sbattuta a loro in faccia. Il fatto che una persona si senta serena col proprio aspetto fisico, gli ricorda due cose: la prima, che è sbagliato piacersi. Magari pure loro si piacciono, ma gli è stato insegnato che è sbagliato essere vanitosi. Se fossero veramente modesti non si sentirebbero toccati dalla vanità altrui, invece si frenano con una finta modestia e se la prendono con chi si sente libero dal pregiudizio dell'essere vanitosi. La seconda spiegazione è che invece hanno molti complessi sul proprio aspetto fisico e trovano sfogo a denigrare quello altrui, criticando difetti o comportamenti di autocompiacimento, come se si sentissero meglio a sputare un po' del proprio veleno in giro.

"Non fare la bambina, cresci". I bambini sono creature al di sotto dei dieci anni, dopo si chiamerebbero "ragazzini". Caratteristiche biologiche e mentali di questa fascia di età, sono una certa innocenza, una continua sorpresa per tutte le cose che si scoprono del mondo e della vita, un non potere e sapere sopravvivere in certe circostanze senza l'intervento di qualche adulto, come spostarsi da un posto all'altro, firmare, comprare, lavorare, mantenersi... tutte cose ovvie direi. 
 Tutti i bambini, anche quelli a cui viene insegnato a "non dire le cose", tendono ad essere più sinceri, a dire le cose come stanno e a non sapere frenare antipatie e simpatie. A questa età si è più creativi, poi crescendo si impara ad essere diplomatici, il più delle volte per il proprio interesse, a frenare i proprio istinti, a ragionare in maniera "utile" e a dare per scontato il mondo, avendo già scoperto tutto e quindi a non stupirsi più. Però si inizia a lavorare, si affrontano i problemi da soli e si è autonomi.

Io in famiglia ho sempre affrontato i miei problemi emotivi da sola, e da quando lavoro anche quelli materiali. Anzi spesso mi sonno accollata quelli altrui, per esempio, quelli di mia sorella stessa. Per conto mio so procurarmi i soldi lavorando e so fare i calcoli per arrivare a fine mese, rinunciando a qualcosa se serve e, se dovesse essercene bisogno, non mi farei problemi a lavorare di più, facendo la cameriera o la baby sitter extra, o qualcos'altro di onesto pur di cavarmela da sola. Sono in grado di arrangiarmi e di spostarmi senza dipendere da nessuno. Perciò, non mi sento una bambina nel senso negativo. 

I "non cresciuti" sono invece quelli che non sanno prendere decisioni importanti per paura di "cosa dicono gli altri" o di stare da soli, come se non avessero veramente staccato il cordone ombelicale dal controllo e dalle sgrida di mamma e papà. Io invece fin da piccola, questi problemi non me li sono mai fatti: del giudizio altrui non me ne è mai fregato nulla e mi è più difficile tradire me stessa che dovere affrontare la solitudine o l'ira e il pregiudizio altrui. Essere adulti non significa avere ruoli importanti nella vita o guadagnare cifre stratosferiche, se poi si è falsi, si sparla, se poi ci si comporta con ripicche, vendette e ricatti emotivi, come fanno i bambini a cui viene negato un giocattolo.

Molti confondono però, la creatività, il gioco e l'entusiasmo con l'essere "infantili e regrediti". Eppure Giovanni Pascoli stesso, che non era un idiota, spiegava, nella sua poetica del fanciullino, cosa distingue un artista da un non artista: il poeta è semplicemente un adulto che ha conservato il fanciullo che è in se, che tutti siamo stati.
Come vengono descritti gli artisti? Con aggettivi come: "creativo, fantasioso, stravangante", tutte cose che siamo stati da piccoli, chi più, chi meno. 

Io, proprio perché ho ancora un lato infantile sviluppato, legato alla scoperta, ho sempre sete di scoprire, di conoscere le cose e di stupirmi, e questo mi spinge a leggere tutto e dappertutto e ad imparare continuamente, a non considerare la vita raggiunta ad una certa età. Vorrò sempre sperimentare e imparare qualcosa fino alla morte.

Quello che infastidisce i "maturi" dell'atteggiamento entusiasta e "da bambini", è che sotto sotto invidiano la libertà che pure loro vorrebbero. Vivono incatenati in una vita senza emozioni pure e gioiose, senza più "scoprire il mondo", non sapendo più cos'è il divertimento del gioco e dell'entusiasmo. A loro urta vedere un adulto che si diverte o che è felice con poco. Certi adulti non potrebbero mai essere felici neanche con tutto il potere, con tutti i soldi e le attenzioni del mondo, sono delle cause perse, inutile starci dietro.

Chiudo il pensiero del giorno con un aneddotto che raccontavo ieri sera ad una mia amica e che ci ha fatte ridere per un bel po'. 
Siccome sto imparando a produrmi da sola la biogiotteria che mi piace tanto, ero molto felice due sere fa quando, dopo aver capito come si usano certi arnesi e a cosa servissero altri, con delle perline riciclate da vecchie collanine e monili della nonna, a lezione mi sono inventata e costruita i miei primi orecchini. Questa cosa di creare, inventare, progettare, costruire e sperimentare, mi prende totalmente, un po' come le mie nipotine di tre anni quando giocano nel loro mondo.
Siccome i primi esperimenti sono venuti bene, mi sono emozionata per tutta la sera e fino alle tre di notte sono rimasta sveglia a rimirarli: facevo così da piccola, quando mi compravano un giocattolo nuovo e non riuscivo più a dormire perché ero troppo felice. Finalmente, dallo sfinimento, i miei occhi hanno reclamato sonno, ma prima di addormentarmi veramente, mi sono ricordata degli orecchini, così mi sono svegliata, ho acceso la luce e li ho guardati di nuovo. E poi sono crollata.

La mia amica si è messa a ridere tanto quando gliel'ho raccontato e io, che fino ad allora non mi ero resa conto del lato comico del mio comportamento, mi sono messa a ridere pure io.

In fin dei conti, ha ragione mia sorella: sono proprio una bambina!



mercoledì 15 ottobre 2014

Storie dell' Indocina, III parte - Mio padre

Veniva da un po’ più a nord, nel senso che c’erano dei periodi dell’anno in cui si portavano dei golfini, e faceva freddo “Come a settembre in Italia quando piove”.

Erano in quattro fratelli, mio nonno faceva il taxista. Aveva sedici anni in più di mia nonna e morì quando mio padre era un ragazzino. Ho sentito raccontare questo episodio da mio padre, ma una volta non capivo perché terminasse il racconto con una strana risata, ad alta voce. Il pubblico ascoltatore rimaneva di sasso per il finale, in un silenzioso imbarazzo, non sapendo se partecipare, se ridere con lui o dispiacersi, se fosse uno scherzo o che altro. Ma credo che se avesse detto le cose con un tono di voce contrito e con qualche lacrima, non si sarebbe percepita la stessa amara, soffocata rabbia e disperata rassegnazione.

“Litigammo, mi sgridò, io mi arrabbiai,  per ripicca andai via di casa, portai via anche lo zio. Andammo al cinema, quando tornai lui era morto”.

Mia madre si lamenta sempre che mio padre racconta le cose così… male, senza condimenti, scrive pure male, dice lei. E queste due righe sono tutto ciò che so di mio nonno, a parte che credo sia morto d’infarto o di pressione alta… di più non so. Ma c’è un’unica foto di lui in bianco e nero in casa e ritrae l’immagine di un uomo scontroso e burbero. “Come assomiglia a papà” dicevo da piccola.

Così mio nonno morì, lasciando mia nonna sola al mondo con quattro figli piccoli. Se della famiglia di mia madre so molte cose dei parenti e dell’albero genealogico, che durante il dominio francese qualche europeo si è infiltrato fra i miei avi e so pure un sacco di aneddoti e racconti di vita, di quella di mio padre non so praticamente nulla. Ho sentito raccontare che mia nonna scese da ancora più a nord, giovane e sola con una sua sorella. Ma che nella folla la perse di vista e non si rividero mai più. Non so come abbia poi conosciuto mio nonno.

A mio padre è rimasto impresso il sacrificio di suo fratello e di sua sorella maggiori, che ad un certo punto rinunciarono a studiare per aiutare la madre, per mantenere i due fratelli minori e consentire a loro di studiare e crearsi un futuro dignitoso. E racconta che la nonna si privò di tutto, di una vita, per sobbarcarsi da sola la famiglia. Ogni mattino si alzava all’alba e andava a vendere pesce al mercato. Tornava la sera tardi, stanca. Quando i figli crebbero, ci fu la guerra, poi la dittatura, poi la famiglia distrutta, ogni membro in un continente diverso. Morì con un figlio in Italia, uno in Canada e uno negli Stati Uniti. Solo la femmina era al suo capezzale. Questa fu la vita di mia nonna.

“A volte, per cena, avevamo un pugno di riso e un uovo da dividerci in cinque” ricordo che raccontò una volta mio padre.

Quello che so di lui, è che con una madre al lavoro tutto il giorno, senza padre, senza ricchezza e con molte rinunce, crebbe con troppa libertà, imparando a cavarsela da solo e con un forte desiderio di rivalsa e di ambizione.

Fu certamente la sua testa brillante, ma credo che contò molto anche la forte motivazione di rendere felice mia nonna, a spingerlo a studiare e ad impegnarsi tanto da superare il test di ammissione ed arrivare primo fra le migliaia di candidature presso l’unica università di architettura di tutto il paese, giù, nella capitale del sud, dove scese con il sogno di diventare architetto e dove conobbe mia madre.

Quando tornò a casa per comunicarlo a mia nonna, lei gli disse solo: “Bravo”. Poi andò in un’altra stanza e ritornò con dei soldi: “Questa sera esci a divertirti” gli disse. Ma era sicuramente commossa ed orgogliosa, e quei soldi erano forse una sua giornata intera di lavoro, avrebbe poi fatto economia da un’altra parte, sull’essenziale, era il modo di mia nonna di esprimergli orgoglio e affetto materno. 
Nessuna scena teatrale. 

Come quella volta che lei venne in Italia, avevo sedici anni e mi vide per la prima volta. Nessun abbraccio, ma mi tenne strette le braccia annuendo, era un po’ tremante, eppure quegli occhioni neri, rotondi e buoni, quelle rughe profonde, i capelli bianchi raccolti, il volto magro e segnato dalla sofferenza, mi penetrarono in fondo fino a farmi male.

Lo scrittore Antoine de Saint-Exupéry scrisse: “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. La mia famiglia paterna è così, non si interpreta tramite quello che si vede con gli occhi e si sente con le orecchie.

Degli anni che mio padre visse da solo come studente universitario, so qualcosa dai racconti di mia madre, altrimenti non potrei dire di conoscerlo.

So che per mantenersi, dava ripetizioni di matematica di giorno, mentre la notte rimaneva in piedi per disegnare i fumetti per un giornale. Che aveva solo due camicie e due paia di pantaloni, così doveva lavare ogni giorno e fare asciugare la notte in tempo. Cucinava e mangiava per se stesso, ma per lui era normale digiunare quando non c’era nulla, perché i soldi servivano per pagarsi gli studi, non rinunciò però a comprarsi una chitarra che imparò da autodidatta a suonare.

Di certo non poteva concedersi divertimenti, e neppure amicizie. Così la chitarra divenne il suo conforto e la sua compagnia nei troppi momenti di fatiche e di solitudine.


lunedì 13 ottobre 2014

Storie dell'Indocina, II parte - Il collegio

Parla mia madre:


Il collegio era solo femminile. C’erano delle ragazze che frequentavano la scuola il mattino e poi tornavano a casa, ed altre che rimanevano a mangiare e a dormire, vivevano là tutto l’anno. Di queste, la maggior parte tornava a trovare la famiglia il sabato e la domenica, mentre un gruppo più ristretto, a causa di impegni o problemi familiari, invece tornava solo a Natale e a Pasqua e durante le vacanze estive. Io ero una di queste, e così vivevo dei mesi in collegio senza mai vedere la mamma e il papà, senza vedere i miei fratelli. 

A casa? Non tornavo, c’erano solo i miei due fratelli e il personale di servizio, tua nonna spesso si assentava per andare a trovare il nonno presso la base militare, che era lontano da dove avevamo la residenza. Per stargli vicino, rimaneva dei giorni e delle settimane con lui.

Ricordo quando il venerdì sera le ragazze salutavano e, felici, tornavano in famiglia. Allora la scuola si svuotava, nella stanza rimanevamo solo io e una mia compagna di classe, perché tua zia, mia sorella, aveva due anni in meno di me e ne frequentava un'altra, così l’avevano messa dall’altra parte dell’istituto e non ci vedevamo mai. 
Eravamo noi due sole, eravamo diventate molto amiche. Lei era bellissima... e sola. Non ricordo perché neppure lei non avesse qualcuno che la venisse a prendere, ma condividevamo la stessa solitudine. Bisbigliavamo per non farci sentire dalle suore, in questa grande stanza piena di letti vuoti, al buio. Avevo così paura dei corridoi e delle scale di notte… mi ricordo di questo. Una grande paura.

Quanto tornava il lunedì le ragazze rientravano e riprendevano le attività. Il lunedì era un giorno particolare, i corridoi si riempivano, eravamo tutte “uguali”…

Le suore erano molto rigide e severe. Ci punivano se non rispettavamo la disciplina. Colpi di bacchette sulle nocche, o in ginocchio per ore sulla ghiaia, contro il muro. Ma ce n’era una che era così dolce e buona… era quella che cantava e suonava il pianoforte durante le messe, io le volevo bene. 

Quando tornai a casa e dissi ai miei che volevo vivere in clausura così, nella mia solitudine ed imparare la musica, mio padre mi disse: “Ma sei ancora così giovane! Non hai vissuto nulla della vita, come puoi scegliere consapevolmente? Noi siamo buddisti… ma ogni religione insegna ad essere buoni. Prima di prendere una decisione così importante, vivi qualche anno fuori, vivi la vita che fanno tutti, e se ancora lo vorrai… non ci opporremo… se ancorai sentirai di volere abbracciare il cristianesimo e ritirarti al servizio di Dio”.

Tu penserai che fossi triste… ma io non ero triste. Mi ero abituata al collegio, e poi avevamo anche dei momenti felici: mi ricordo quando insieme alle suore, aiutavamo il prete a preparare le messe. Avevamo il compito di ritagliare le ostie, allora ci riunivamo attorno al tavolo, eravamo alcune ragazze insieme a delle suore.
Ecco, quelli erano momenti felici!

In verità, non so se volessi tornare a casa. La vita di fuori non la conoscevo, ma sentivo le governanti raccontare che una ragazza, una vicina, era stata stuprata mentre camminava, o di persone folli in giro per le strade. Io lì dentro mi sentivo protetta. Lì c'era silenzio e ordine, non ho mai voluto cercare altro. Tua zia invece tentò di scappare...

Poi, dopo tanti anni passati là dentro, cresciuta là dentro, ci trasferimmo di casa. E un giorno dovetti lasciare il collegio, decisero che gli ultimi anni scolastici li frequentassi normalmente, in una scuola pubblica come tutti gli altri. 

La mia vita cambiò.
Non tornai mai più a vivere fra le suore.






domenica 12 ottobre 2014

Ascolta

Di notte, sotto il piumone caldo, mi rifugio ed ascolto la pioggia di ottobre che bagna i campi e le strade, che batte sopra il tetto, sopra di me.
Mi piacciono le luci soffuse e gli ambienti semplici ma vivi di piccole abitudini quotidiane.
Come preparare una tazza di te, riordinare, pulire. Appendere gli abiti e rifare il letto.
La serenità è nei gesti spontanei, nelle speranze, nei progetti. In una casa modesta, in una casa amichevole, nella vita di tutti i giorni. Non nei diamanti, non nelle sfide.
Nella quiete, tutto qui.



venerdì 10 ottobre 2014

Domenica 12 ottobre 2014

Salò: evento "Colorando" 11-12 ottobre 2014

Arte, musica, giocolieri e mille colori... "Colorando" Salò



Salò: evento "Colorando" | 11-12 ottobre 2014 Presso Piazza Cavour 
Dal 11/10/2014 Al 12/10/2014

SALÒ. Sabato 11 e domenica 12 ottobre, in piazza Cavour e via Cavour, dalle 10 alle 19 è in programma "Colorando", evento organizzato da "Gli amici del Peler", che porterà in piazza 250 opere di pittori bresciani, veronesi, mantovani e milanesi.

Non solo. Ci sarà anche "tanta e ottima musica", divertimento per i bimbi, giocolieri, mimi, cartomanti e 250 coloratissimi ombrelli con cui sarà allestita un'originale coreografia.

Durante la manifestazione saranno inoltre raccolte le firme per presentare all'Amministrazione comunale la richiesta di riportare in paese il mercato del sabato.




martedì 7 ottobre 2014

Storie dell'Indocina, I parte - Mia madre


Come si sono conosciuti la mamma e il papà? 

La mia prima psicoterapeuta mi fece scrivere come compito la storia dei miei genitori, dal loro incontro a quando si sposarono, forse perché per comprendere al meglio una persona, bisogna risalire indietro alle origini famigliari, o forse per costringere il paziente a dialogare con uno o entrambi i genitori, se non altro per chiedere informazioni, oppure, perché pensandoci e scrivendone, chi esegue il "compito" conosce poi meglio se stesso.

Comunque qui di solito parlo di me, ma oggi mi è venuta voglia di rispolverare la storia dei miei.

La loro storia non è molto lunga, nel senso che dal primo incontro a quando si sposarono, passò solo un anno. E' più impegnativo dover descrivere la società del tempo che parlare di loro, ma è doveroso farlo per riuscire a comprendere alcune dinamiche.

Per cominciare, bisogna pensare  all'ambientazione sia storica che geografica: siamo in Estremo Oriente, negli anni Cinquanta-Sessanta circa, in un periodo in cui c'erano visive differenze fra le classi sociali. Per esempio, mia madre mi raccontava che per distinguersi come famiglia per bene, lei e sua sorella vestivano di bianco.

Vestirsi di bianco in un paese sempre estivo, significava che: chi li indossa non svolge attività faticose che fanno sudare e sporcare, e che gli abiti vanno cambiati e lavati spesso, cosa che i ricchi potevano permettersi. Altri tratti distintivi erano i capelli profumati, lucenti e non bruciacchiati dal sole, e la pelle diafana, il più chiara possibile: avere carnagione "pura" indicava ragazze per bene che giravano in macchina (non tutti se la potevano permettere) e che non dovevano affaticarsi per le strade.

Oltre alla differenza fra i ricchi e i poveri, c'era anche uno spacco fra i tradizionalisti e gli "occidentalizzati", quest'ultimi, non erano ben accolti dalla maggior parte del paese. Erano "depravati occidentalizzati" quelli che avevano "perso di vista le origini, le tradizioni" ed erano concentrati nella capitale del sud, metropoli che ancora oggi, chi viaggia da quelle parti pensando di trovarci l'Oriente, se ne ritorna deluso e critico: "Non c'è niente di orientale nel sud, la bellezza del paese sta al nord, con le montagne, le risaie e le cascate. La natura incontaminata. Le donne miti, in abito tradizionale!".

Il sud riportava ancora tracce degli anni in cui era stata una colonia francese, mescolandosi al contempo alle novità importate dagli americani del nord, con cui erano in rapporti politici ed economici.

Le ragazze del sud erano famose per essere "facili". Giravano in minigonna (la jupe) e in pantaloni a zampa di elefante. Ascoltavano musica occidentale, mangiavano "le fromage", una cosa puzzolente a base di latte di mucca che arrivava dalla Francia, "le chocolat", bevevano "le cafè"! Facevano amicizia e legavano con gli stranieri e addiritttura ci facevano dei figli assieme.

In questo contesto gaio e colorato, crebbe mia madre, e per esattezza nella fetta "ricca" e pure "occidentalizzata". Mio nonno, sapeva bene come crescevano le fanciulle in una metropoli con continue incursioni di militari alti e bianchi che venivano di passaggio e poi se ne tornavano al loro paese, e pensò bene di mandare le figlie in collegio, in campagna, lontano dai divertimenti, sotto la tutela e lo sguardo rigido delle suore francesi. 

E qui iniziò l'adolescenza triste ed isolata di mia madre: sveglia alle sei, preghiere tutte le mattine, mai contraddire le suore, disciplina ferrea, lingua parlata in francese e a letto presto tutte le sere. Viveva lontana dalla famiglia e da sua madre.

Quando tornava a casa non era molto diverso: mia nonna era una signora raffinata, voleva bene alle figlie ma, secondo la buona educazione ed il rispetto del tempo, ne era un po' distaccata. Ognuno dei suoi figli aveva un autista ed una cameriera personale e mia madre era legata alla sua, che era anche una specie di dama di compagnia. 

In quanto a mio nonno, era colonnello e non stava molto a casa, ma quando c'era, la sua disciplina non doveva essere una passeggiata, perché ho sentito dire più volte da mia madre che lei in collegio si trovava bene. "Leggevo le poesie, a volte le scrivevo", mi diceva. "Volevo farmi suora e rimanere là, imparare a suonare il pianoforte e cantare le canzoni della chiesa, mi piacevano tanto, ma tuo nonno non voleva".




domenica 5 ottobre 2014

Il labirinto

Nota:  I racconti qui pubblicati sono inediti  ed interamente ideati e scritti da Thasala Phan, a cui appartengono tutti i diritti (vedi nota in fondo alla pagina). Alcuni luoghi citati, i personaggi e le trame sono frutto di sola fantasia. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


*** 


IL LABIRINTO ©
Mercoledì 1 Maggio 2013


“Le leggi cui sottostavano gli abitanti del labirinto erano paradossali, ma immutabili. Una delle più importanti diceva: Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne.”
(Michael Andreas Helmuth Ende)


- E così, vedi, noi siamo qui da millenni. In questo labirinto. Non c’è modo di uscirne, perché la felicità rende leggeri, e noi siamo sempre più pesanti, come il piombo. Tutto è grave e sprofonderemo nella terra da dove siamo venuti – spiegò l’anziano al giovane viaggiatore.
- Non mi rassegno – rispose questi – io troverò un modo di andar via di qui.
- Sei ancora giovane. Ma ti rendi conto che giri in tondo da anni e sei sempre più stanco. Sei stanco e appesantito. Questo ti rende infelice.
- Ragazzo, non si può andar via da qui – si lamentò una donna che pareva avesse cent’anni. A guardarli bene però sembravano tutti molto più vecchi della loro età, come se l’infelicità li avesse invecchiati. Anche i bambini sembravano anziani, anzi a ben vedere non c’erano bambini.
- Perché siete infelici? – chiese il viaggiatore.
- Perché è la legge del labirinto: solo chi può uscirne può essere felice, ragazzo. Ma solo chi è felice può andar via di qui. Leggi il cartello del signor Ende, è nel libro Lo specchio nello specchio.

Il viaggiatore riflettè. Lui non voleva arrendersi e rimanere in quell’isola. Erano anni che cercava una via d’uscita. Doveva trovare un modo per andar via da quel posto sempre più pesante, sentiva man mano crescere dentro di sé la tristezza. E la voglia di arrendersi.

- No, no… non può finire così… - si disse disperato e smarrito.

Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne. Diceva chiaramente il cartello affisso sulle mura della città.

Un’isola tonda labirintica. A forma di Cerchio. Passò ancora un’altra notte a dormire in quel posto e l’indomani riprese nuovamente il viaggio, ma più camminava, più scordava quale fosse la sua meta e perché viaggiasse. E dopo un altro anno una sera si arrese:

- Sono infelice – si disse – non ce la faccio, non uscirò mai più da qui… - e crollò al suolo mentre il deserto attorno a sé soffiò arido e vittorioso e la sabbia cominciò ad avvolgerlo.
La notte era fredda ed egli divenne abitante del labirinto.
Fino all’infinito.


The “Ende



Conoscevo il signor Ende. Scriveva di storie infinite e di specchi che riflettevano specchi in una sorta di presa in giro onirica e tormentata. Egli era troppo potente perché potessi riscrivere le regole dell'isola a forma di cerchio e salvare il mio viaggiatore perso nel labirinto, ma potevo con le mie poche capacità scriverne il seguito e dargli una seconda vita.
Dopotutto anche nel mio nome c’è stata una seconda opportunità.

Ecco come andarono le cose. 

Il viaggiatore crollò al suolo e vi rimase per molto tempo. Entrai nella sua mente per parlargli, lo trovai con la testa fra le mani nell’oscurità.

- Ciao – dissi.
Mi guardò perplesso.
- Chi sei, dove sono? – domandò.
- Mi chiamo Aslaath, siamo in un tuo sogno.
I suoi occhi erano intontiti e non sembrava aver compreso.
- Sogno! – esclamai – il confine di tutto… - cercai di spiegare.
- Che ci fai qui? – mi interruppe brusco.
- Per tirarti fuori da questo posto. Dal labirinto intendo, non dal sogno! – mi corressi.
- Come sei venuta fin qui?
- Io ho questa capacità – sorrisi – vago nei sogni, a volte mi perdo, anzi direi quasi sempre, ho uno scarso senso dell’orientamento e odio guidare, sai… ma dopo varie volte che non so dove sono torno indietro e cerco la strada, chiedo e poi imparo come arrivarci. Sai una cosa? Mi comprerò un navigatore! – aggiunsi pensierosa, ma poi ripresi guardandolo: - Nel tuo caso ho seguito le indicazioni!
- Parli troppo! – fece laconico.
- Ops! Scusa… - dissi mortificata – senti: c’è un modo per uscire dal labirinto di Ende.
- Bisogna essere felici – disse.
- Sì.
- Ma solo chi riesce ad uscire è felice.
- Sì…
- Sei scema? Non c’è soluzione, è un labirinto.
- Quindi tu cerchi la felicità solo per andar via di qui? – chiesi, ignorando il suo “scema”.
- Io voglio uscir di qui per essere felice.
- Capisco. Quindi non c’è verso…
- Mi prendi in giro?
- No! Solo non capisco perché vuoi essere felice!
- Per andar via di qui, te l’ho detto no?
- Ma come ci sei finito qui?
Per una volta non mi guardò con sufficienza e rimase a fissarmi in silenzio.
- Ti svelo un segreto: nessun abitante del labirinto è nato in questo posto. Ci sono tutti finiti il giorno in cui hanno acquisito la consapevolezza. Ma dopo si scordano. Si scordano di quando erano felici. Quando ti ricorderai come sei arrivato in questo posto saprai anche come uscirne.
Silenzio.
- Chi sei? – mi chiese nuovamente.
- Non ti scorderai facilmente di me – dissi con noncuranza alzando le spalle – arrivederci! – e uscii dal suo sogno.

Questo fu il mio intervento. Non ero certa che sarebbe riuscito a capire cosa volessi dirgli ma avevo fatto del mio meglio e, ripensandoci, visto quanto era stato indisponente con me, non so se se lo fosse meritato…


Anni dopo il viaggiatore scrisse questa lettera:

"Quand’ero piccolo persi una perlina di lacrima, era trasparente e luccicava, sembrava rugiada.
La cercai dappertutto, nelle amicizie, nelle albe e nei tramonti, ma non la ritrovai mai più.

Poi un giorno mi ritrovai in quel labirinto, e mi scordai di quella goccia. Il mio unico scopo era cercare di uscire da quel posto. Dovevo a tutti i costi essere felice per andar via ed essere così felice. Proprio così, era la legge del labirinto. Essere felici per… essere felici! Che senso aveva? Non lo so.
Una sera venne una persona a trovarmi, fu come un astro caduto dal cielo e guardandola negli occhi fu come vedermi nello specchio. Lo specchio nello specchio.
Era solare e l’opposto di me.
Mi chiese perché volevo essere felice. Risposi che volevo esserlo per uscire dal labirinto, ma quando mi chiese come c’ero finito non seppi trovare una risposta.
Se ne andò com’era venuta.
Il segreto era ricordare.
Gli abitanti del labirinto erano tutti troppo presi dal loro fallimento e dalla rassegnazione. Non avevano più un futuro o pensavano di non averlo. All’improvviso mi resi conto, con spavento, che in quel posto non c’erano bambini, e che tutti si erano scordati di esserlo stati. I bambini.
Sono stato piccolo anch’io? Certamente, ma non ricordavo più.
Da piccolo ero stato felice e non avevo nulla, solo la sete di conoscere il mondo, la vita, con i tanti perché, dove, come, cosa. Quelle stesse domande che mi avevano portato in quel labirinto. Ero felice perché ero innocente, perché mi fidavo, perché sognavo l’impossibile e lo rendevo possibile, nel mio piccolo mondo.
Avrei voluto che quella ragazza finita nel mio sogno fosse rimasta un po’ di più, per farle altre domande, ma se ne andò subito. Ripensandoci… forse era un po’ troppo svitata perché andassimo d’accordo. Parlava veramente troppo! E poi aveva un nome impronunciabile.
Da adulti non si può tornare indietro e vivere come i bambini. Ma smisi di cercare la felicità perché non era quella la soluzione, e quella sera nel deserto, quando mi ripresi e guardai sopra di me, mi accorsi, dopo tanti anni, che c’era un cielo con la luna e le stelle. Mi guardai attorno con gli occhi di un bambino e scoprii che c’erano tante cose da esplorare in quel posto e che potevo fidarmi, che non dovevo oppormi alle pareti del labirinto e stranamente non sentii più l’isola mia nemica. Mi sentii sereno e pieno di progetti come quando mi ero incamminato per conoscere il mondo e, conoscendolo, ero finito in quel posto.
Il mio nuovo scopo fu di conoscere le storie delle persone in cui vi vivevano e dialogare con la natura e gli animali. Non più di andarmene. Annusai l’aria e ascoltai il mare. Fu un attimo. Mi sentii felice.

E mi ritrovai a casa mia. Fra i miei cari, i miei genitori che mi avevano messo al mondo. Non dovevo più fuggire da loro ma comprenderli. Ero fuori dall’isola. Ora avevo la capacità di camminare senza più perdermi nel labirinto. Senza perdermi troppo a lungo intendo. Quando succede mi guardo allo specchio e mi sembra di rivedere Aslaath che mi ricorda come uscirne.
Chissà dov’è adesso. Penso che dovrei ringraziarla." 
H. Van



Sono ancora io, Aslaath. Sono contenta che il viaggiatore si sia ripreso. Merito mio. Ma ancora di più sono soddisfatta di aver infranto le regole del labirinto: adoro disubbidire le leggi e trovare soluzioni alle cose apparentemente impossibili. Ci riesco sempre. Alla faccia del signor Ende.  






giovedì 2 ottobre 2014

Le bambole di Alice IV


Morgan aveva lasciato la casa di sua spontanea volontà, ma non fu una scelta facile. La casa che lei credeva il suo luogo di rifugio, di calore, le aveva detto che non era più una sua esclusiva, che doveva gettarsi nel mondo e cercare la felicità altrove. Che in quelle mura erano entrate altre persone, altre bambole. Per tanto tempo lei cercò di rimanere ed aspettare che le cose tornassero felici come una volta, ma le pareti divenivano sempre più cupe e le tapparelle spesso rimanevano chiuse. Non più raggi di sole, le risate scemavano e gli specchi non brillavano più. L'aria era sempre più pesante. Scendeva l'inverno. Il carillon taceva. Non poteva più fare nulla, e se ne andò.

Morgan non camminava più sulle nuvole, ma con i piedi per terra. Camminava da sola, eccetto quelle volte che Alice dai boccoli d'oro la guardava riflessa, dalle vetrine, dagli specchi, nei volti delle persone.

Alice rideva, godeva, pugnalava ed immergeva le mani candide nel sangue. La sera, quando arrivava a casa, sorrideva a Morgan dallo specchio e le mostrava chiaramente il cuore che ancora palpitava e grondava nelle sue mani, aspettando una reazione dall'altra dimensione. Morgan si limitava a lavarsi i denti e il viso, poi spegneva la luce e usciva dalla stanza. Non poteva e non voleva fare più nulla contro Alice.

Passarono così delle settimane alla ricerca di bucaneve in città e ninfee fra gli asfalti. Sognava gigli, ma trovò fiori di carta bianca da colorare.
Un giorno arrivò una novità, piombando nella sua serena monotonia. Qualcuno le scrisse del sentiero e lei credette di nuovo nelle parole infantili di Alice, quando ancora aveva bisogno delle ninne nanne per addormentarsi, come tutti i neonati. Sentì scorgere la fiamma che invece era un lumicino spento. Ma era una presa in giro. Fu la notte più lunga di tutti i tempi, la risata più acuta e penetrante di quel gioco inspiegabile e crudele che la padrona giocava con le sue bambole.

E poi, a mezzogiorno, tutto tornò quasi come prima. Ma non come prima. Ora il suo volto era invecchiato di cento anni. Chi era quella donna grigia allo specchio?

Alice... perché?



Le bambole di Alice III