- Ho lavorato qui... e qui... Ah! E quando lavoravo lì!
- Ma tu hai lavorato in tutta Brescia???
- Beh, sì!
Beh, sì: di esperienze lavorative ne ho fatte tante, e mi sentivo molto in gamba a potermi comprare tutto quello che volevo senza dover tenere conto di nessuno. Lavoravo mentre studiavo e ovviamente i miei stipendi mensili non erano da considerarsi pieni, ma quando a ventun anni, mi pagai a rate il mio saxofono soprano da sei milioni di vecchie lire, facendo la cameriera il fine settimana, racimolando mance e soldi e rinunciando a tante cose, ero la ragazza più "importante" del pianeta. Correva l'anno 2000.
Il primo lavoro in assoluto però, durò una settimana nell'estate del '95: trovai un impiego da operaia in una azienda di vestiti. Cucivo a macchina e stiravo con grossi macchinari a vapore, senza aria condizionata o un minimo di ventilatore per rinfrescare il soffocante sole di agosto. Ero contenta in pausa scolastica di guadagnare dei soldi tutti miei, ma la paga era veramente misera, meno della metà di quanto prendeva una barista ai tempi, il lavoro letteralmente soffocante e snervante, e ad un certo punto mi domandai, con un pizzico di presunzione, perché mai io, figlia di architetto e professoressa di lettere, dovessi subire le angherie di quei dittatori senza scrupoli ed umanità. Io che me ne stavo lì otto ore a grondare di sudore mentre la stronza "padrona" comandava dal suo tavolo, col ventilatore puntato addosso solo su di lei.
Li mollai dopo una settimana, dopo ovviamente essermi presa i miei soldi e imparando più di tutti gli insegnamenti di una vita di mamma e papà: che studiare permetteva di poter trovare alternative.
Seriamente, mi ero chiesta in quei sette giorni, come potessero quelle persone stare lì da anni, in quel capannone, al freddo in inverno e al caldo in estate, a produrre come formiche, sotto gli ordini di una donna grossa e arrogante, per quattromila lire all'ora.
A diciotto anni, una settimana dopo aver dato gli esami di maturità, finii a fare la baby sitter. Ora, io sono un tipo sveglio, ma alle prese con una bimbetta di due anni era una impresa bizzarra per me, che di materno non avevo nulla, solo i soldi mi piacevano. Ogni giorno, non vedevo l'ora di liberarmi di lei e di volare via il pomeriggio a fare shopping e spendere in vestiti e scarpe tutto quello che guadagnavo. La cosa più difficile? Insegnarle a bere il latte con i biscottini a colazione, stare tranquilla e comportarsi da bambina "normale", come si aspettavano i suoi genitori, mentre di nascosto da lei mi preparavo pastasciutte alle dieci del mattino, mi addormentavo in piedi, mi annoiavo a morte o facevo la pazza, mettendo in radio la musica da discoteca e ballando tutta contenta, spiegandole che era un gioco nuovo. La mettevo sul puffo e le dicevo che eravamo "ragazze cubo".
Il "giretto" all'aperto nei bei giorni era una cosa che proprio la madre si aspettava e non si poteva evitare, io avrei preferito poltrire sul divano guardando un film dietro l'altro, ma la bimba avrebbe riferito, così ogni tanto mi avventuravo a scoprire il paese, fino a quando non reclamava acqua, cibo, sonno, pannolino e freddo. Per quanto riguarda il cambio, i miei amici possono testimoniare gli innumerevoli morsi sulle braccia che riportavo quell'estate: la peste non ne voleva sapere di cambiarsi, io non avevo proprio idea di come convincerla, così spesso la prendevo in braccio a forza e la portavo su per due piani di scale, con la sua strillata nell'orecchio e i denti ben conficcati a mordermi, come segno di ribellione.
Cambiare i pannolini è stata la cosa in assoluto più traumatica e violenta (per me) nelle mia vita lavorativa.
Me ne andai via pure da lì, dopo sei o sette mesi, quando non ce la feci proprio più a svegliarmi presto tutte le mattine: per Bacco! A scuola quando volevo proseguire a dormire mi bastava fare una firma sul foglio il giorno dopo, per lavorare invece, non mi era consentito neppure di saltare qualche prima ora!
Successivamente trovai un impiego di poche ore a settimana come telefonista per i sondaggi: dovevo chiamare in casa la gente e chiederle se potevo intervistarla. Le interviste erano diverse: dai sondaggi politici a quelli di mercato, da quelli più locali, come quando dovevamo chiedere chi era o meno, favorevole alla costruzione della metropolitana a Brescia e le motivazioni; a quelli nazionali, come quella della fusione di due banche e conseguente indagine di mercato.
Non ricordo perché smisi, forse perché non me ne fregava niente di sapere cosa pensava la gente del nuovo locale e dei politici e mi annoiavo ad ascoltare. E anche perché non avevo la patente e preferivo lavorare in città per spostarmi da sola. Ma forse perché, in realtà, al tempo non avevo veramente bisogno di soldi, lavoravo solo per i miei capricci.
Incominciai a bazzicare nei locali verso i vent'anni. Le mie prime volte da barista furono, inizialmente, solo durante le pause estive, facevo le stagioni da maggio ad ottobre, quando cioè in centro i locali mettevano i tavoli all'esterno, e serviva del personale extra in più. Per questo ho cambiato così tanti ristoranti e bar. Iniziai a lavorare la sera nelle birrerie e nei fine settimana, anche durante l'anno scolastico, solo più tardi.
Come potrei descrivere quel lavoro?
La prima cosa che ricordo, era che mentre prendevo ordini e trotterellavo avanti e indietro con boccali di birra e vassoi di patatine fritte, osservavo i miei coetanei divertirsi e mi sentivo profondamente triste e desiderosa di essere al loro posto. Le ragazze erano ben agghindate con tacchi, trucco, vestiti alla moda, capelli vaporosi e profumati. Facevano le civette con i ragazzi, ridevano e scherzavano. Io invece indossavo scarpe da ginnastica, maglietta, i miei capelli raccolti puzzavano di fumo e di odori della cucina che mi si impregnavano addosso dalle sette di sera fino le tre di notte, e i ragazzi mi si rivolgevano per farsi portare una birra o una pizza. Eppure avevo studiato anch'io tutta la settimana come loro. Anch'io avrei voluto potermi riposare e divertire come tutti!
Qualche episodio carino, comunque, ci fu. Come quella volta che, vestita da bavarese con una gonna troppo lunga per me, mi vidi in difficoltà a dover salire delle scale, con un vassoio pesante colmo di pinte. La gonna finì sotto le mie scarpe, i bicchieri traballavano e, inciampando, rovesciai l'intero contenuto, litri e litri di birra, addosso ad un povero cliente, un figlioletto di papà, che si vide fradicio dai capelli ai pantaloni. Io avrei voluto piangere, il suo amico rideva. Per fortuna, con notevole presenza di spirito, il ragazzo disse, ridente e rassicurante pure lui:
- Non ti preoccupare! E' il sogno di ogni uomo farsi fare il bagno nella birra da una ragazza così carina! - si preoccupò pure di ammansire i miei capi.
A quei tempi si poteva ancora fumare nei locali, e credo di aver rischiato di soffocare più volte. Dopo un po' di ore, la nebbia del fumo e gli occhi brucianti mi appesantivano la testa, impedivano la vista e la carenza di ossigeno mi destabilizzava. Tornavo a casa con i piedi a pezzi e il mal di schiena, ma contavo i miei guadagni e sorridevo contenta di potermi comprare il mio adocchiato e già adorato nuovo pianoforte digitale: un Yamaha di alto livello, con i tasti pesati e il timbro e il tocco di un vero pianoforte a coda: con quello avrei potuto suonare a qualunque ora del giorno! Musica di notte, quando ne avevo voglia, senza tener conto dei vicini... dovevo resistere!
Comunque per la mia salute, un giorno decisi di abbandonare i posti fumosi ed approdai nelle gelaterie, anche se qualche mese dopo uscì, per fortuna, la legge che vietava di fumare nei locali.
Dopo il conservatorio, non avendo più l'obbligo di frequenza, trovai lavoro come commessa. Per me fu un bel salto: ero nel mio ambiente in mezzo ai vestiti, adoravo fare le vetrine, allestire il negozio, battere la cassa, emettere scontrini. Ero vestita bene e non odoravo più di cucina. I locali erano freschi in estate e caldi in inverno. Mi piaceva un po' meno riordinare, pulire e servire certe clienti.
Lavorai anche in un negozio che vendeva articoli casalinghi per la clientela "signorile" di Brescia, per le signore impellicciate che pagavano con la carta di credito del marito, per intenderci. Qui scoprii un nuovo mondo che, se non avessi un certo distacco e senso dell'umorismo, farebbe piangere. Ma invece a me diverte prendere in giro.
Era sotto Natale, c'erano signore che chiedevano carta ed etichette del negozio per impacchettare i loro regalini economici acquistati altrove e farli figurare costosi. Quelle che venivano con i regali ricevuti per risalire al prezzo e sapere quanto aveva speso l'amica. Senza contare la concorrenza e la malignità fra le commesse e i vari reparti per cercare di fare carriera. Ma davvero si cercava di fare carriera come commessa, lì dentro?
Beh, a me di fare carriera per quello stipendio non interessava. Avevo capito che lì la clientela era "raffinata" e con i soldi, ma che la mia la busta paga intanto era più bassa dell'altro negozio dove avevo lavorato con meno fatica e le clienti erano ragazzine con vestiti "low cost", dove le commesse andavano tutte d'accordo. Perciò non mi sembrava intelligente accaparrarsi un posto per poter dire di lavorare nel negozio più "In" della città e di vantarsi dei soldi e delle pellicce altrui.
Iniziai la gavetta come insegnante a ventiquattro anni. Il primo impiego fu di istruire in discipline musicali degli studenti lavoratori che volevano prendere il diploma di maturità in "Dirigente di comunità". Perciò mi ritrovai allievi che avevano pure il doppio dei miei anni. Tempo dopo, ero in strada sul lago, un carabiniere mi fermò, mi chiese se mi ricordavo di lui, che era stato un mio studente a quei tempi.
In quello stesso anno, tramite amici che già insegnavano, approdai lentamente nelle scuole di musica per insegnare sax: tappavo i buchi di un insegnante che se ne stava andando. Riuscivo a lavorare circa cinque, sei ore a settimana, ma non pensavo di aver potuto fare altro: non avevo una laurea, il mio diploma in stilista mi consentiva di fare al massimo la commessa. Che lavoro avrei potuto fare? I soldi però non bastavano, e a quell'età non erano più solo per dei capricci: avevo una macchina da mantenere, le bollette in casa da pagare, avevo aperto un finanziamento per acquistarmi un box insonorizzato dove poter esercitarmi senza disturbare.
Quello fu il periodo in cui riuscivo a fare due, tre lavori contemporaneamente: commessa part time durante la settimana, insegnante nel mio pomeriggio libero e cameriera il sabato sera. La mattina mi esercitavo e ogni tanto riuscivo a farmi pagare per qualche spettacolo e matrimonio. Campai così per un bel po'.
Quando le ore di lezione e quindi i pomeriggi nelle scuole iniziarono ad essere due o tre e non potevo più essere presente in negozio, trovai lavoro come impiegata il mattino. Facevo la segretaria per uno studio di un ingegnere, ed in seguito, per oltre un anno e mezzo, presso un'azienda che si occupava di incidenti e sinistri stradali per più compagnie assicurative. In questo modo riuscivo a conciliare le cose e ad avere qualche pomeriggio libero.
La crisi del 2008 colpì diversi settori, molte aziende e studi chiusero. Fu nello stesso anno che decisi di prendere il diploma accademico di II livello: dovevo conciliare solo i due, tre pomeriggi di lezioni, senza più lo stipendio part time di impiegata, e quindi minor entrata, con lo studio, che invece richiedeva molte tasse ed acquisti. Imparai a tirare la cinghia anche in questo frangente: pensavo che per guadagnare di più, per poter lavorare di più, fosse necessario studiare e aggiungere altre capacità. In seguito, alle mie ore di insegnamento sino ad allora solo di saxofono, subentrarono anche quelle di clarinetto e pianoforte. Riuscii così a raggiungerne un numero di ore necessario per potermi mantenere da sola.
Ed eccomi qui ad oggi. Che posso dire? Non mi sono mica fermata! Il mio motto è, che se una situazione non ti soddisfa pienamente, bisogna fare qualcosa per migliorare. Studierò ancora e ancora.
Per quanto riguarda il passato, l'aver avuto diverse e disparate esperienze, mi hanno insegnato delle cose sulle persone e sulla società, che non avrei mai appreso così bene se non le avessi vissute io.
Per esempio, che il cliente ha spesso torto, che se un negozio o un locale chiude fra dieci minuti e si vuole entrare solo per guardare, bisogna astenersi e tornare il giorno dopo. Che le chiamate pubblicitarie sono seccanti, ma che basta dire che non si è interessati: non serve a nulla insultare l'operatore, a lui magari dell'azienda non gliene frega niente ed è lì solo per lavorare.
Che se si vuole fare produrre bene un operaio, bisogna dargli una condizione lavorativa non dico dignitosa, ma quanto meno umana. Che quando il cameriere la sera sbaglia, quel ragazzo che prende le comande e si confonde, magari ha la testa piena di nozioni e di malinconia, e un giorno potrebbe essere l'avvocato o il medico che tu anni fai hai maltrattato.
Il ragionamento: "E' il suo lavoro" non giustifica invece la presunzione e la mancanza di comprensione verso gli errori umani del prossimo. Che la commessa che fai trottare e incavolare con gusto perché sei "la cliente", fuori da lì è l'insegnante di tuo figlio. La stessa cosa vale per tutti quei gestori di bar e ristoranti che si divertono a far pesare il lavoro ai dipendenti. Oggi io torno spesso in quei locali, sono sicura di aver lavorato bene. Oggi io ordino e vengo servita pure da loro, quando non c'è il personale libero. Il sorriso da protocollo non serve a nulla, e sono lì solo di passaggio, perché, per conto mio, i soldi lì non ce li vorrei neppure lasciare. E' stato necessario in passato, quando ero una ragazzina, subissarmi e sfogare su di me le proprie frustrazioni a quel modo?
Ricordo una mia "padrona", in sovrappeso. Lei non riusciva proprio ad essere attraente e a dimagrire. Io avevo diciannove anni, ero snella e graziosa. A volte i clienti, allora ragazzi giovani miei coetanei, mi rivolgevano la parola, scherzando e ridendo. Lei mi zittiva davanti a tutti (facendo rimanere male e in colpa pure loro) e mi spediva nel retrobottega. La parte più divertente? Che poi lei, ultratrentenne, si sostituiva a me per chiacchierare e scherzare con loro al mio posto. Se sbagliavo erano guai, avevo seria paura. Se facevo le cose giuste, mi sentivo di avere scampato il pericolo. Era necessario farmi lavorare così? Ero troppo piccola per reagire. Persino le mie colleghe si erano accorte di questa ingiustificata antipatia.
Per quanto riguarda le capacità: so fare tante cose, ho imparato a gestire più attività, tempi e ad assimilare concetti e abilità senza difficoltà.
Io so di essere in gamba.
Questa è la mia seconda parte di curriculum (molto) informale riguardante il lavoro. Che dite: se un datore di lavoro lo leggesse, dopo le riflessioni (critiche) che ho scritto sulla sua categoria, mi assumerebbe?