giovedì 22 dicembre 2016

Il lavoro

A volte mi stupisco di come il mondo sia vario e strano: oggi rifletto sulle persone che vivono il lavoro come se gli fosse cucito addosso. Si arrabbiano e stanno male per qualsiasi cosa, come se ogni iniziativa o opinione e battuta fosse rivolta a loro. Un esempio? Maestre che credono che le professoresse li considerino inferiori, commesse che si attaccano fra di loro, colleghi in generale che sparlano. Donne e uomini che accantonano famiglie e amicizie per la carriera (ho parlato di carriera, non di soldi). Persone che si ammazzano per mantenere un ruolo di prestigio che magari non gli piace.
Ma il lavoro non è quella cosa pallosa e obbligata, da cui non ci si può sottrarre e bisogna farlo per un certo numero di ore al giorno per avere i soldi, che ti fanno comprare da mangiare e fare un sacco di cose interessanti?
E' una cosa dovuta così noiosa, che per lo meno, se ci si diverte con gli altri simili, si passa il momento giornaliero in maniera meno pesante, penso io. Cosa me ne frega di competere ed arrivare ai vertici per la gloria? Mica mi diverto a stare lì in cima, a litigare, a pensare. Lo faccio solo perché mi pagano, ma se mi diverto meglio...
E' molto meglio andare a dormire senza responsabilità e preoccupazioni, andare alla Spa con un'amica, prendere la macchina e guidare fino al mare, passeggiare o bighellonare in bicicletta. Prendere una cioccolata al bar o un gelato e stendersi sotto le stelle in un parco. Leggere un libro, indossare tanti bei vestiti e fare l'amore o suonare un valzer.

Poi mica il lavoro ti identifica. Io ero operaia, commessa, telefonista, baby-sitter, intervistatrice, segretaria, maestra, professoressa, barista, cameriera, impiegata, musicista. A volte più cose assieme.
Alla domanda: "Che lavoro fai?" rispondo: "Adesso faccio...". Non ho mai risposto: "Sono". Perché io non sono quel lavoro, lo faccio. Si diventa competenti per un certo tipo di impiego, ma non è che si rimane a vita in quel ruolo. Ogni volta mi toglievogli abiti del momento e da nuda rimanevo di nuovo io.

Poi nel mio piccolo non volevo neppure fare l'insegnante. Volevo fare qualcosa per cui tutti dicessero: "Oooh! Com'è bella! Che bel vestito!" il che comprendeva un sacco di attività e nulla. 
Siccome non so ancora cosa voglio fare, cerco i vestiti carini e mi diverto a suonare e a farlo fare agli altri.
Il lavoro di "profe" tutto sommato non è male: poche ore, vacanze lunghe. Si strimpella con i ragazzini per tutto il tempo. Si possono mettere dei bei abitini e delle graziose gonnelline.

Fra qualche ora sarò pure una "profe" in vacanza. Qui chi finisce prima se ne sta andando col sorriso largo e un sacco di: "Buone feste! Buon Natale! Buon anno!" e baci e abbracci.

Io per due settimane smetterò di fare la profe e mi metterò a fare la musicante, soffierò nel mio magico piffero-sax-clarinetto riflettendo sulle strane persone che mi circondano e magari riuscirò ad imparare quel bel brano al pianoforte che parla di un ragazzo che chiede in prestito la scala per raggiungere la luna. 

Che lavoro fai? Mi chiederanno, e dirò: "La pifferaia. per ora. Adesso vado a cercarmi una camicia in seta che mi accarezzi la pelle e non mi pizzichi come fa la lana. Ma poi dovrò tornare a scuola". 

La vita è una camicia di seta.


domenica 18 dicembre 2016

La scuola

Quand'ero piccola avevo la convinzione che i vestiti "moderni" fossero osceni (non a torto, sono cresciuta negli anni Ottanta) e che la mia epoca ideale in fatto di moda fosse l'Ottocento, con tutte quelle gonne, strati, trine, merletti, nastri e corsetti femminili.

Poi ad un certo punto ho iniziato pure a pensare che la scuola fosse inutile, ma non capivo il perché, visto che è il luogo dove si imparano le cose. Oggi mi si è chiarito un pensiero e ora comprendo il mio scetticismo nei confronti della scuola: io sono nata nell'epoca sbagliata e, se si potesse, ritornerei ai tempi dell'istitutrice privata a domicilio, delle lezioni di musica e dell'insegnante che veniva a controllare il linguaggio e le buone maniere a tavola. Dell'istruzione fatta di biblioteche in casa, teatri e concerti la sera. Certo, così si cresce un po' asociali, ma di fatto lo sono, e non dover interagire con persone che non hanno voglia di istruirsi e mi fanno perdere tempo sarebbe paradisiaco.

Secondo me la scuola necessita di così tante ore di presenza, perché per insegnare tutto il programma a così tante persone con un solo docente, ce n'è bisogno. Invece se si avesse il professore tutto per sè si farebbe molto più velocemente e si potrebbe dedicare del tempo perso in classe per fare cose più interessanti, come giocare o viaggiare, che farebbe imparare la geografia in maniera più interessante, oltretutto. Infatti, quando a scuola non si sta al passo, il genitore sovente assume un insegnante a domicilio che faccia recuperare, ciò che faceva quindi in passato l'istitutore.

Un altro vantaggio è che se a scuola un professore non ti piace te lo devi tenere, rischiando così di reprimere veri talenti e sviluppi, mentre uno privato lo puoi scegliere. Pure il testo scolastico bisogna farsi andare bene.
Non abolirei la scuola, è più economica ed è un diritto per tutti, e poi certi genitori hanno bisogno di "parcheggiare" i ragazzi da qualche parte, solo non capisco perché sia obbligatorio frequentarla. Non si potrebbe solo imporre l'obbligo di avere un minimo di titolo di studio, un esame annuale comune che ne attesti il livello d'istruzione? L'importante è il risultato, no?

Invece una volta ho letto su un giornale di una coppia che aveva scelto di istruire i figli in casa senza mandarli a scuola. Si trattava di un docente universitario e di un'insegnante, insomma non proprio gli ultimi arrivati... Questi bambini imparavano tutto il programma scolastico e facevano un sacco di attività e vita sociale, come sport e musica, giocavano con i loro coetanei nelle ore di svago e avevano comunque amici. 
Tale scelta era criticata da tantissime persone. 

Io sono entro certi limiti per il "vivere e lascia vivere" e secondo me, dovrebbe essere una buona alternativa. Come il fatto di scegliere fra scuola privata e scuola statale, oppure serale, si dovrebbe pure mettere l'opzione dell'istruzione "self-service". Ma con l'obbligo appunto dell'esame statale uguale per tutti a giugno, per avere il titolo di studio.
Sono troppo avanti io, o non so stare al passo con i tempi?

Ho parlato con un'allieva indiana che mi ha raccontato che al suo paese si fanno tutte le materie tutti i giorni, con scuole di nove ore al giorno (ma ogni "ora" è di circa mezz'ora), diversamente che qui in Italia, dove si è ritrovata materie di due o tre ore a settimana in un'unica volta, e poi più nulla per sei giorni.
Non so quale sia il metodo migliore, ma questo mi fa riflettere: l'apprendimento è diverso per ciascuno. 
Per sempio: io quando mi sveglio alle sette e alle otto e devo ficcarmi in testa tanto rumore, tante informazioni e reagire, rendo molto di meno, invece alle nove o alle dieci recepisco ed inizio a parlare. Ad un orario in cui gli altri hanno bisogno di staccare, io mi sono appena svegliata mentalmente e riesco ancora a studiare e sono pure più comunicativa. Perciò, se dovessi assumere un istitutore, lo farei venire dopo le dieci del mattino. Se lo scopo della giornata è di assimilare regole grammaticali o formule matematiche, non è necessario costringersi a farlo alle otto.

La scuola non appiattisce, in questo senso, tutti quanti? Per giustificare ciò, mi veniva detto che nella società si convive e si impara anche da questo, ma io non ne vedo l'utilità e soprattutto osservo che non è affatto così: non tutti i lavori iniziano e finiscono ad una certa ora. C'è chi lavora la sera, la domenica, chi preferisce in determinati giorni, chi la notte, chi al mattino... mi pare che ci sia molta più richiesta di varietà che di uguaglianza. Se svegliarsi e andare a dormire presto fosse l'unica cosa giusta universalmente e se tutti fossimo uguali, chi farebbe il medico e l'infermiere di notte, il sabato e la domenica? Chi farebbe la parrucchiera e l'estetista dopo l'orario d'ufficio? Chi suonerebbe per intrattenere il pubblico la sera, per poi andare a dormire a notte fonda?

Vedendo inoltre con i miei stessi occhi realtà di maleducazione, bullismo, lo stato che lascia per mesi intere classi senza docenti, che magari arrivano solo a dicembre ad insegnare la loro materia, le tante inutili ore buche, i compagni prevaricatori, il disagio, i diversi ragazzini intimiditi chiusi in sè stessi che vorrebbero dirti qualcosa ma non ne hanno il coraggio e tu che non puoi rimanere a lungo per indagare perché devi correre in un'altra classe... Non sono sicura che tutto quello che sia stato evoluzione lo sia per davvero.
Ma, essendoci dentro, sia in questa istituzione che in questo secolo e millennio, proverò a fare del mio meglio.



giovedì 15 dicembre 2016

Sott'acqua

Morgan fluttua sotto l'acqua fingendo di essere morta, ma per riuscirci deve usare una mascherina speciale, che le consente di respirare, perché è una creatura di terra e non un pesce, e necessita di ossigeno per vivere. L'acqua non è profonda e la temperatura sembra piacevole.
La gente la cerca e si domanda dov'è, ma lei da sotto vede, sente, ascolta, si nasconde e rimane in silenzio. 


***


C'è una stanza. Una stanza con un divano, sembra un arredamento di buon gusto e costoso, anche se c'è solo quel divano. La stanza ha quattro pareti, una delle quali non è del colore giusto. Ha colori sul rosa, rosso e nero ma non dovrebbe essere così... dovrebbe essere in tinta unita e sul panna o tortora. Lei dipinge e cerca di coprire, ma non trova la vernice giusta, la tonalità che vorrebbe. E' così difficile.


***

- Lui non te lo dice, ma non stanno così le cose. Lui non è felice e le cose non vanno bene.
Anche se non lo spiego esplicitamente, intuisce e capisce al volo la situazione, che è così sospetta, anzi, palese.
- Mi dispiace per lui - risponde. Forse le dispiace anche per me. Mi è simpatica.
Andiamo a trovarla e sembra meno sgradevole di quel che credevo. Ci sono tutti. La madre alta. strane persone. Anzi no, mancano Lui e il primo.
Ma io che ci faccio con queste due donne?



mercoledì 14 dicembre 2016

Sono bilingue

Siamo in una generazione multietnica e, da quando faccio la professoressa, ho spesso a che fare con il dilemma della lingua. Ascolto vari dibattiti fra docenti contrari al fatto che questi bimbi stranieri non parlino l'italiano in casa, ho ascoltato l'esempio di un'insegnante, che riteneva negativo che un bimbo di tre anni parlasse metà italiano e metà nella sua lingua in una stessa frase, che "facesse confusione".
Temono che non possano mai più apprendere nulla a scuola.

Essendo io bilingue ed avendo vissuto in prima persona questo processo, ci tengo a scrivere qui la mia idea a riguardo: i bambini stranieri non devono parlare italiano in casa! Per tante ragioni che elenco in ordine di ciò che mi viene in mente per prima e non di importanza:

1- Provate voi, genitori stranieri, adulti, ad arrivare in un paese sconosciuto, ed essere obbligati ad esprimervi con i propri figli in una lingua innaturale e difficile: si perde la vera comunicazione, fatta di parole e sfumature che solo la lingua madre può trasmettere. Si rischia di comunicare le informazioni base e non di chiacchierare ed ascoltare veramente i figli, e viceversa.
Per semplificare l'idea: provate a costringere un bresciano doc a parlare solo in italiano e non una parola di dialetto in famiglia!

2- Questi genitori stranieri, arrivati a circa trent'anni in Italia, non parleranno mai perfettamente l'italiano e parlandolo con i figli, trasmetterebbero una grammatica scorretta. L'italiano è una lingua difficile ed è meglio che un bambino lo impari a scuola da professori italiani. Dai genitori imparerà invece a parlare correttamente la sua lingua natìa.

3- E' perfettamente normale che fino ad una certa età un bambino mescoli le lingue che sente e, in una frase, dica i primi vocaboli che gli vengono in mente. Lo facevo pure io con i miei e con le maestre. Ebbene sì: ero la bambina straniera che parlava un po' in italiano e un po' in vietnamita, e le maestre non capivano. Anche mia madre a volte corrugava la fronte nello sforzo di indovinare cosa volesse dire quella parola italiana inserita nel discorso, quando la capiva, me la insegnava in vietnamita. Crescendo, si impara a distinguere quando usare un certo gruppo di suoni e a raggrupparli, delineando così le due diverse lingue.

4- Non si vivono traumi a convivere con persone che parlano più lingue: a me dispiace essere solo bilingue e non multilingue: secondo me quando si è piccoli si assimila tutto facilmente senza fare domande. Non ho mai sofferto di problemi di comunicazione.

Detto ciò, credo che, piuttosto che consigliare ai genitori di sforzarsi di parlare in italiano (voi lo fareste al loro posto?), sia più proficuo suggerire attività pomeridiane, come sport o corsi musicali, di modo da creare situazioni di dialogo con italiani al di fuori della scuola, oltre che coltivare passioni. E soprattutto: libri!
Leggere è il modo migliore per imparare una lingua correttamente, perché il linguaggio parlato, prendo come esempio il bresciano, è spaventosamente sgrammaticato... 

Mi ricordo ancora oggi tutti i miei venerdì, alle elementari e alle medie, quando mia madre ci portava in biblioteca: era un appuntamento fisso. Si potevano prendere due libri per volta; per me era come se ci portasse a vedere un film al cinema... insomma, il concetto era quello: storie nuove, personaggi nuovi, paesaggi nuovi, con la differenza che qui dovevo immaginarmeli io e c'era perciò più libertà.

Non sceglievo a caso: spesso cercavo "il libro intero" di qualche estratto che avevo sull'antologia a scuola. Poi quando mi piaceva un autore, mi prefissavo di leggere tutti i suoi romanzi. 

Integrazione vuol dire altro, non questo. Io che sono a favore di "vivere secondo le regole del paese che ci ospita", ritengo però che non vadano fatte violenze sulla lingua e sulla religione, cercando di convertire e imponendo una strada, e questo vale da entrambe le parti. Queste sono proprio le cose su cui è bello arricchirsi e saperne di più.



lunedì 14 novembre 2016

Novembre

È bello rientrare in casa dopo giorni di lavoro e stanchezza e ritrovarla gelida e con le cose fuori posto... Ti togli scarpe e calze per metterti comoda ma il pavimento è ghiacciato.
Ci vuole poco. Oggi è il mio pomeriggio libero.
Accendo la pompa di calore che in pochi istanti sprigiona una piacevole temperatura, mi infilo i morbidi calzettoni imbottiti dai colori vivaci, mi cambio con abiti comodi che mi coccolano e rimetto le cose al loro posto.
Ora la casa è pronta ad accogliermi.
Posso riposarmi, suonare il pianoforte, leggere o sognare ad occhi aperti.
E non lo so... È bello tutto ciò.
Sono contenta di questo caldo attimo sereno della mia vita, che scorre fuori dalla realtà.


mercoledì 9 novembre 2016

Sbandata

Questo silenzio.
Non ho mai comunicato così tanto in questo blog, come in questi giorni di silenzio. Perché io quando non ho nulla di rilevante da dire, parlo tanto.

lunedì 7 novembre 2016

C'erano una volta i fiati

Fra i tanti, svariati progetti che mi stanno impegnando in questo denso anno lavorativo, sono contenta di presentare un nuovo libro didattico scritto dai miei amici, con cui mi sono divertita ad incidere il cd la primavera passata insieme ad altri musicisti.
Il progetto ha avuto successo... ed eccolo qui! 



Conchiglie, mare, luna, musica e sirene... una bellissima fiaba... e io ho avuto la fortuna di conoscerla e suonarla prima che venga pubblicata!
Anche se scritta per i bambini, piacerà pure agli adulti che hanno ancora voglia di sognare e non solo di imparare la musica... Non vedo l'ora di iniziare a presentarlo attivamente e di suonarlo in giro col gruppo.

Buona musica!



mercoledì 28 settembre 2016

Lezioni di sax e clarinetto 2016 - Brescia!


Come ogni anno le mie ferie finiscono e ricomincio la mia attività di insegnante.

Consiglio un percorso ricco nelle accademie e nelle scuole delle bande dove tengo i corsi, che, oltre alla consueta lezione settimanale privata con il docente, offre, compresa nella retta mensile, anche altre attività interessanti come orchestra, formazioni di diverso genere e concerti e saggi durante l'anno (dove si conosce gente, si mangia e si beve gratis!)

Essendo il sax e il clarinetto strumenti per cui è necessario e più divertente suonare con altre persone, è meglio non limitarsi allo studio solitario per troppo tempo, ma "buttarsi" e fare musica con altri musicisti anche senza essere ancora dei virtuosi. Si possono già fare canzoni e brani suonando note semplici, che deciderò io a seconda della preparazione dell'allievo. Nell'insieme sarà piacevole e stimolerà la voglia di imparare e andare avanti.

Ho ancora possibilità di prendere delle iscrizioni nelle sedi di Castel Mella e di Brescia, in centro.
Vi è inoltre la possibilità di avere in comodato d'uso lo strumento, a seconda ovviamente di quanti ne sono rimasti.

Per qualsiasi informazione, senza impegno, contattatemi al seguente indirizzo.
thasala@libero.it

Iscrivetevi! Suonare il sax è divertente e molto fico! Impartisco lezioni a tutti i livelli e a tutte le età!



venerdì 2 settembre 2016

In quella settimana di agosto

Spesso le cose non sono come appaiono, per esempio: non è detto che chi in apparenza viva una situazione valutata socialmente più fortunata, sia più felice di chi passa un momento più "sfortunato".
Vogliamo fare un esempio? Ora che l'estate volge al termine, parliamo di vacanze.
Ci sono persone che valutano una vacanza meritevole solo se passata in ferie in posti meritevoli di essere citati. Ovvero posti costosi e di moda.
Quando ripenso alle mie estati più belle, ce ne sono alcune in vacanza, ma se dovessi elencare quelle fatte attorno ai vent'anni, racconto, di solito, quell'estate passata a lavorare al bar.

In realtà, quell'anno a luglio, feci pure una settimana in Sardegna, ma quella non fu la parte bella, anzi... la parte per cui mi si illuminano gli occhi al ricordo, sono proprio quei giorni in cui ho più faticato al lavoro. 

Perché? 

Non sono masochista e tanto meno amo sgobbare, caso mai il contrario, ma in quei giorni ho riso tanto, tanto, ma davvero tanto...

Premetto che dai quindici ai ventidue anni ho vissuto in regime accademico e fra i miei rimpianti, vivo ancora la sensazione di essermi persa l'adolescenza: giorni in estate passati al caldo rinchiusa in casa a studiare, ad esercitarmi con la musica, come per il resto dell'anno, per tanti anni, mentre avrei voluto fare esperienze diverse... come, non so, passare un'intera stagione sul lago lontana dai miei, a fare la cameriera con vitto e alloggio! Sentirmi indipendente!
Oppure uscire, divertirmi. Specifico pure che nessuno mi obbligava, era la mia caparbietà e l'incapacità di distinguere le vie di mezzo, il giusto dallo sbagliato, il considerare quel che dicevano gli insegnanti del conservatorio come Bibbia sacra, a farmi pensare che non avevo diritto di perdere ore preziose perché la cosa più importante era suonare, suonare, suonare. Quindici anni, ancora pochi per ribellarsi senza far casino per nulla. Oppure ero io troppo immatura e debole per vivere la mia personalità senza ferirmi con gli scontri. Mi ero piegata al loro sistema.

Ricordo perfettamente le parole di un insegnante: "La cosa più importante è il conservatorio!!!"
Dicevano che suonare era l'unica cosa che contava nella vita, tanti ragazzini snobbavano la scuola, un diploma e una laurea per esercitarsi otto ore al giorno e diventare musicisti.
E io da quindicenne con lavaggio del cervello subìto, credevo davvero che tutti quelli che non riuscivano a sopravvivere al conservatorio non valessero niente. Credevo di essere uno zero perché, a detta del Maestro, ero superficiale, avevo un modo di fare arioso e leggero che non era permesso. Allora ero diventata cupa e depressa. Non sorridevo mai.

Oggi non è più così per me.

Comunque dopo quei sette anni, vissi un anno sabbatico in cui finalmente potei rigettare tutto ciò che mi aveva soffocato, il che significava non frequentare più l'ambiente e tutti quelli che ne facevano parte, mettere via il sax e non suonare (fare esercizi e imparare brani che non digerivo per un voto) quando non ne avevo voglia. Cancellare la parola "dovere" dal vocabolario. Ne avevo subìto troppo, in troppa giovane età. Trovai lavoro come barista e cameriera in un bar del centro, di fronte al Teatro Grande.

Mi deridevano: "Sette anni di conservatorio per finire a pulire i cessi del bar?" ma io ero più serena così, allora, e mi disturbava avere a che fare con gente che valutava il valore di una persona in base al suo lavoro, come se fosse una cosa cucita addosso a vita: il lavoro si può cambiare, perdere, trovare, la stupidità, purtroppo, no.

Eravamo principalmente tre ragazze più o meno coetanee. I clienti del bar erano commessi/e dei molti negozi del centro, impiegati/e dei vari uffici e delle banche vicino, e ovviamente, il pubblico del teatro quando rappresentava qualche concerto o spettacolo e d'abitudine si consumava l'aperitivo serale da noi.

La mia vita da ventenne, che bello! Scoprii un mondo nuovo: ricordo quando c'erano le Mille Miglia e in un pomeriggio raccogliemmo ottanta euro di mance a testa grazie ai tedeschi; qualche volta capitava anche qualche vip e personaggio famoso, ma è risaputo che a Brescia si è discreti in queste cose e noi non disturbavamo nessuno, e poi capitò quella bellissima settimana in cui la titolare andò in ferie e ci lasciò la gestione del negozio.

Io e la mia collega S., avevamo preso ad uscire assieme, fra la nostra clientela di commessi, avevamo legato di più con i ragazzi della Foot Locker. Senza titolare lavoravamo più rilassate ed in perfetta sintonia, e il bar procedeva alla grande, perché quando un dipendente è felice, lavora sempre bene. 

Ricordo in particolare quel sabato quando, dopo aver lavorato tutto il giorno e chiuso il locale, alle nove di sera eravamo già preparate e pronte per uscire con i "vicini commessi".
Quella volta facemmo tardi sul lago... tipo le quattro del mattino, a sghignazzare, a ridere, a chiacchierare, mangiare, bere, a goderci l'estate giovane, poi la domenica eravamo di nuovo pronte e su di giri, alle sette, per aprire il locale. Bella la notte, bella l'aurora, bella l'alba e il sole che spunta. Noi due assonnate e pazzerelle. E io che sulla bicicletta col cestello pedalavo facendo gli slalom dal sonno.
Il giorno dopo al bar, io e S. ridacchiavamo e ci scambiavamo sguardi di intesa. Quella fu davvero una bella settimana, divertente e libera.

In quel periodo mi sentivo bella, giovane, finalmente vivente e libera, corteggiata e rimirata, guadagnavo soldi che mi permettevano di comprare belle cose. Avevo amici, potevo uscire, senza sensi di colpe, senza responsabilità, senza il pensiero di dover studiare il giorno dopo. Non dovevo pensare, non pensavo, ridevo.
Nessuno mi giudicava, anzi, ero vista come un personaggio interessante: giovane barista carina, orientale, dai lunghissimi capelli neri, e per di più musicista di uno strumento figo come il sax.

Vedete come cambiano le visioni delle cose quando le si vivono, da quando le si osservano senza conoscere? Il fatto di essere in due povere ragazzine a dover rimanere in agosto a gestire il bar, sarebbe potuta sembrare una cosa da destare compassione, ma le persone sono più importanti delle situazioni, e mi divertii di più quella settimana, che quella passata in Sardegna a luglio. 

Beh, non so perché mi è venuta voglia di parlarne. Forse perché sto invecchiando e allora mi piace parlare del passato... delle cose piacevoli.

Vivete appieno la vostra vita. La cosa più importante nella vita è ridere.


mercoledì 27 luglio 2016

Cercando la "Third Stream"



Ti svegli un mattino e senti sul petto un peso. Guardi il soffitto. Ti senti impotente, come se non potessi intervenire e cambiare nulla. Poi, decidi che hai due strade: richiudere gli occhi alla vita, tirare giù le tapparelle e rimanere nel buio totale. Dormire per non sentire nulla. Oppure alzarti e studiare prima il pianoforte, poi il sax, poi pranzare, poi cercare gli spartiti, fare le prove... esercizi, esercizi.

Troppo difficile oggi. Non so se ascoltare il cuore che grida che non ce la fa, o farmi forza e vivere.
Ma la vita cosa significa? Fare le cose normali, reagire per forza, fare il dovere? Fare l'adulta? Ma essere adulti cosa significa, ancora? Prendersi le proprie responsabilità della vita e adeguarsi alle regole?... Forse non sono sempre la stessa cosa. Qualcosa mi suggerisce di no. Sono solo due le strade? Non ce la faccio a stare chiusa in una stanza. Voglio evadere.

A volte mi accusano di essere un'eterna Peter Pan, ma forse, è questo che mi fa sopravvivere. Ultimamente sono invecchiata, troppo. Peter Pan è cresciuto, l'isola che non c'è è affondata. 

Oppure no, le mie ali atrofizzate, ancora le sento lievi.
Thasala, tu non sei così. 

Cerco la "Third Stream".

Mi piace questo termine: conobbi la "Third Stream" ad un master in conservatorio. E' il nome di una corrente musicale nè jazz, nè blues, nè pop, nè new age, nè minimalista...

Prendo il telefono. Faccio le cose come mi vengono, ad istinto.
Ti ricordi dei cari vecchi amici che ti chiedevano di vederti, che hai trascurato da mesi per i tanti impegni: ora che sei in vacanza che scuse hai?

Inizio a digitare.
Primo messaggio: Allora il gelato? Risposta: Domani sera?
Secondo messaggio: Sei a Brescia? Ci vediamo? Risposta: Torno domani! Sabato?

Ops... faccio mente locale... venerdì pomeriggio impegno con la pianista, la sera impegno con ex corsisti. Sabato sera impegno con l'attrice.
Rispondo: Sabato facciamo di pomeriggio? 
Mi fermo. Gli altri amici la settimana prossima. Non bisogna neanche esagerare.

Il blog.

Penso. Quando scrivo il blog di solito? Quando ho tempo, cioè quando ho fatto prima tutte le altre cose, o perché devo inserire un evento.
Perché? Chi l'ha deciso? L'ho deciso io, perché con tutte le cose che ho da fare, questa è la meno importante. E' meno importante perché non è lavoro e non mi fa guadagnare nulla.

Ecco, essere "normali" significa pure questo: valutare in termini di sopravvivenza la scala delle priorità. Non so se mi piace.

Oggi cambio. Magari solo per oggi. Oggi faccio quello che mi va, e mi va di scrivere al posto che studiare.

Scendo dal letto e spalanco le finestre, la luce inonda la stanza, accendo la musica. Bevo acqua e mangio un paio di albicocche. Nel frattempo sto pensando di acquistare un nuovo armadio per far spazio al guardaroba, non mi ci sta più nulla. Ah! Devo appendere le cose pulite. 
Apro l'armadio, e mi ritrovo invece a ficcare in un grosso sacco tanti vestiti che non indosso da anni, perché non mi piacciono più, o non mi vanno più bene, o si sono consumati con l'usura. Fare spazio, liberare. Ecco il bisogno che sento. Un impulso improvviso, e poi, mi dico, l'avevo letto da qualche parte, no? L'articolo diceva: Quante probabilità ci sono di indossare un capo che non porti più da almeno tre anni?

Perché ostinarsi a tenere cose vecchie solo per guardarle? Per ricordarmi che non ci entro più nei jeans? Che il seno oggi mi straripa dai top adolescenziali?  E poi c'è gente che invece magari le utilizzerebbe, io sono qui che compro nuovi abiti e nuovi armadi, per accumulare stoffe vecchie che non uso e che mi tolgono spazio. 

Una volta mia madre diede ad una sua ex collega, una giovanissima ragazza madre in difficoltà economiche, un sacco pieno di miei vestiti scartati. Lei ne fu felicissima: maglioni caldi per l'inverno, pantaloni, jeans, magliette. Fu riconoscente e a posto per molto tempo. 

Sto facendo una buona azione, mi auto convinco: porto di nuovo tutto alla mamma che sa sempre come piazzare, e se non trova nessuno, finisce alla Caritas. Anche noi, appena arrivati in Italia, siamo stati aiutati dalla Caritas. 

Mia madre ricorda che era estate quando approdammo in Italia. Una suora un giorno, la portò in una grande stanza piena di vestiti e cose smesse, usate, le disse di prendere quello che voleva per i bambini piccoli e per lei e mio padre. Lei incominciò a scegliere magliette e canottiere. La suora, quando la vide soddisfatta con solo abiti estivi, allarmata, esclamò!
- No, non va bene, qui fra qualche mese farà molto freddo! - E la obbligò a portare via maglioni, sciarpe, cappotti, cose di lana.
Mia madre era scettica e riluttante a trascinarsi appresso tutto quel peso di cose che non servivano.
- Qui - spiegò la suora - non è come da voi, qui c'è la neve! Freddo! - e mimò i brividi, per farle capire che l'inverno era terribile. 
Qualche mese dopo, mia madre conobbe l'inverno europeo, e ad oggi dice: 
- Che strano il primo anno! - l'anno in cui scese la neve e ci vestì di maglioni, calze, stivaletti e berretti caldi.
Mio padre era così esaltato, che col secondo stipendio (col primo ero corso a comprarsi una chitarra) si procurò subito una bella macchina fotografica, ci mise sulla neve, e scattò tante fotografie da mandare ai parenti laggiù per fare vedere l'inverno in Italia.

Ne viene fuori un bel borsone. Per oggi mi fermo, ma poi selezionerò ancora. Vivere con poco accumulo, via la polvere! Spazio alle cose nuove, a quelle che utilizzo e che mi fanno sentire bella e a mio agio. Magari non è più necessario acquistare un altro armadio. Che bello, è come percepire l'aria fresca che passa fra le camicie e i graziosi, nuovi vestitini.

Appeso all'anta, ve n'è uno color tortora, con dei pizzi, il nastro sotto il seno, di raso, bellissimo, a più strati. Sembra uno dei vestiti di Holly Hobbie. L'avevo trovato in un negozio di abiti usati e me ne ero innamorata subito... Romantico, frou frou e civettuolo, delizioso! 
Spesso quando faccio shopping ai mercatini di roba usata, mi chiedono se faccio l'attrice, pensando che solo in una recita una persona potrebbe essere bizzarra, e io rispondo che no, che se "mi gira", indosso normalmente vestiti che mi piacciono, anche se sono particolari. Come quegli abiti in stile "Via col vento" originali dell'800, inglesi, giapponesi e americani di San Francisco, che portai via in blocco in un pomeriggio di passeggiata all'antiquariato.

Da mesi se ne stava lì appeso e inutilizzato, perché aveva una balza un po' scucita. Tutte le volte mi ripromettevo di rimetterla a posto e poi non lo facevo mai. E' passata tutta la primavera... e l'abito che ti piace tanto non hai mai potuto metterlo, a causa della tua pigrizia!

Oggi lo rimetto a posto. Mi riprometto richiudendo l'anta. Oggi? Adesso, decido. Balzo sulla sedia per tirare giù dalla mensola in alto la scatola rosa, rotonda e francese, frou frou pure quella; tiro fuori ago e filo color tortora, e lo faccio. Lo sto facendo. Ho già finito. 
Dopo mezz'ora il vestitino è appeso "normalmente" nell'armadio insieme agli altri e non più solitario sull'anta, per continuare a ricordarmi che è "difettato", che non posso mettermelo e che sono tanto svogliata.
Strano, ma l'essere riuscita ad occuparmi di una cosa semplice che rimandavo sempre, mi dà una sorta di piccola autostima.

E' la volta dei capelli. 
Cos'hanno che non va? 
Non hanno senso, ecco! E' un difetto dell'estate: bello asciugarseli all'aria, ma spesso mi dimentico pure del pettine e sono disordinati, con ciocche lunghe e corte allo sbaraglio. Prendo le forbici e mi sistemo la frangia di un centimetro. Dopo la doccia li asciugo con pettine e aria tiepida del phon. Adesso mi scendono lucenti e vaporosi, le ciocche ancora lunghe ma più leggere sul volto, ho un aspetto più curato e allo specchio mi piaccio più di prima.

Oggi sarà una piacevole giornata, riesco a riconoscere, mentre a piedi  mi trascino il borsone dei vestiti e cinque litri di acqua demineralizzata da portare alla mamma. Avevo preso quell'acqua un anno fa, per farmi ai capelli il trattamento all'hennè, in casa. La ricetta prevedeva un paio di bicchieri da mescolare insieme alla polvere. Ma dopo un anno, a parte quei due primi bicchieri, la grande boccia era rimasta inutilizzata. Lo farò ancora il trattamento, mi riprometto, mi aveva fatto venire dei capelli più lucidi e corposi, ma quando avrò bisogno andrò a prendere i due bicchieri dalla mamma... lei almeno la userà per stirare. Io sono una lazzarona... no, non è vero! Non devo ripetermelo sempre: sono brava e mi impegno. Non ho solo molto tempo. E poi ho già dei capelli bellissimi senza hennè.

Nella borsa ho messo un libro di facile lettura ma di impegno mentale, come piace a me: ovvero un giallo. In estate mi piaceva prendere la bicicletta, pedalare fino al parco vicino a casa mia, stendermi nell'erba sopra un telo, all'ombra fresca di un albero e leggere. Non l'ho ancora fatto questa estate. Può darsi che mi piaccia anche quest'anno... Bisogna rimediare.
Appena conclusi i miei impegni di insegnante, con ancora in ballo riunioni, saggi, prove quasi tutte le sere e concerti su concerti, mi ero dedicata anima e corpo ad un corso di contabilità aziendale: volevo apprendere cose nuove, diventare un po' più istruita, ma mi occupava otto ore al giorno. Le soddisfazioni dopo un mese e mezzo arrivarono, assieme alla casa dismessa, un pizzico di nervosismo e tanta stanchezza accumulata. La prima cosa che feci da "donna libera", fu di ribaltare la casa per pulirla e riordinarla. 
Il primo giorno di pulizie fu persino bello e riposante. 

Appena fuori dal parco vi è un piccolo ma fornito chiosco a conduzione familiare, dove il mio stomaco mi dirige quando ho fame: ci si trovano panini, focacce, pizze, patatine fritte, gelati, angurie, meloni, pezzi di cocco, bibite e acqua. Una bottiglietta d'acqua in borsa e qualche moneta nel portafoglio sarà sufficiente per la merenda.

Oggi va così. Mi sento già meglio, a volte mi devo ricordare che non devo tarpare le mie ali di Peter Pan.
E' un problema degli altri se vedono dei difetti dove ci sono cose belle. Non sono pigra, sono rilassata. Non sono matta, ho il coraggio di sperimentare. Non sono un'incosciente, ho solo fiducia. Qualsiasi adulto dovrebbe mettere da parte i propri doveri e per un giorno alla settimana volare senza colpe. Suonare, sarà ancora più piacevole, dopo. Dovrebbero fare tutti come me, anziché volermi cambiare e dirmi che dovrei fare io come gli altri... gli altri zombie!

Siamo in grado di essere forti e felici con le nostre forze, bisogna però impegnarsi e ricordarsi che da piccoli eravamo contenti con poco e sempre curiosi e sorpresi della vita, e bisogna volerlo. 

Ho scritto questo post e sono contenta di aver "perso" una mattinata di studio. Perderò altro tempo, perché ora non posso lavorare, devo uscire all'aperto.

Buona estate!




venerdì 8 luglio 2016

Foto "Le vie del gusto"

E anche l'ultima fatica in programma dei Les nuages è andata!
Eccoci in versione duo presso la deliziosa e simpaticissima cantina Arici.

lunedì 4 luglio 2016

Foto in Conca

Qualche foto della serata di mercoledì 29, Les nuages live in Conca d'oro lido di Salò!



martedì 28 giugno 2016

Domenica 3 luglio 2016

Presente con i Les Nuages presso la cantina Arici!

Mercoledì 29 giugno 2016

- Concerto aperitivo di Live in Conca -

Grigio Rizzo - fisarmonica
Thasala Phan - clarinetto
Matteo Maggini - fagotto


Il repertorio si inserisce all’interno della musica d’autore francese del primo ‘900 con sfumature folk.
Attraverso l’esaltazione del virtuosismo strumentale e del ritmo vorticoso tipico delle ballate popolari, vengono presentati brani di Edith Piaf e della memoria tradizionale con quel sapore romantico francese d’oltre tempo.


Conca d'oro Lido
Via Pietro da Salò 125, Salò. Brescia



domenica 26 giugno 2016

Les nuages - foto 25 giugno

Eccovi le fotografie dell'evento: "Risveglio all'alba", organizzato il 25 giugno dal comune di Desenzano del Garda.
Le immagini sono prese tutte dalla loro pagina Facebook:















venerdì 24 giugno 2016

I soldi

Mi piace molto quella frase che dice lui, quasi alla fine del film: "I segreti di Brokeback Mountain".


"Se non hai niente, non perdi niente".

In questo contesto non si riferisce ai soldi. Ma il pensiero si addice molto bene anche alle cose più materiali.

I miei genitori provengono dai due poli opposti della classe sociale, e fin da piccola ho osservato, ascoltato, vissuto e imparato molto dalle storie altrui.

Nessuno delle mie conoscenze ha una madre che è cresciuta in una famiglia di quattro fratelli, ognuno dei quali aveva la cameriera e l'autista personale, del personale di servizio che viveva nella stessa, enorme e vasta casa a più piani, nella Saigon di allora, quando ancora aveva rapporti con la Francia e gli Stati Uniti. La sua famiglia possedeva diverse automobili Peugeot e Renault, le macchine francesi le avevano solo i ricchi. Anzi, avere un'automobile era già di per sé un lusso. Quando in seguito crebbero, i fratelli cavalcavano moto Honda, Suzuki, Yamaha e Kawasaki. Mangiavano prodotti e latticini francesi, in un contesto in cui la maggior parte della società non possedeva un congelatore. Studiavano in scuole e collegi privati francesi e ne parlavano bene la lingua.

Ebbene. Un giorno scoppiò la guerra. Si perse tutto. Si persero figli, padri, mariti e amati in guerra. Intere famiglie vennero distrutte. E dopo la sconfitta, lo Stato chiuse le banche e si impossessò del denaro, di tutti i conti correnti. Il dittatore decise che le famiglie con una casa troppo grande ne dovevano cedere un pezzo. Il cibo veniva centellinato e non si poteva più mangiare quando si aveva voglia. 
Diverse famiglie prepararono quella che era l'ultima cena, con il veleno per i topi nei piatti. E morirono tutti insieme. I nonni e i genitori si suicidarono portando via con sé anche i figli e i nipoti, per evitare loro una vita di umiliazione, sopportazione e sacrifici.

C'est la vie! 
Il giorno prima si era signori, serviti e riveriti, un attimo dopo dei pezzenti.

Cosa ho imparato da lei?
Mi diceva, mi dice sempre:


"I soldi sono cose che vanno e vengono".
"Sono le maniere che ti fanno rispettare, le buone maniere non te le possono portare via nessuno".
"Studia, perché le nozioni e le cose che impari te le porti in qualsiasi nazione, i soldi, le case, le ricchezze, no".



Quando il mio nonno paterno, che manteneva la numerosa famiglia facendo il taxista, morì, lasciando la moglie giovane sola con quattro figli piccoli, mia nonna, piccola e quasi analfabeta, si ritrovò ad ogni alba a vendere pesce alla sua bancarella, al mercato. Stava tutto il giorno fuori. Il suo sogno era di dare un'istruzione migliore, rispetto a lei, ai suoi figli, perché potessero riscattarsi e conquistare una vita dignitosa.
Per vivere una vita dignitosa, lei sapeva che dovevano andare avanti con la scuola e fare un buon lavoro, un lavoro che venisse rispettato.
Mio padre crebbe con molta privazione. Ricordo ancora oggi quando raccontava, a noi bambini che non finivamo le cose nel piatto, che lui doveva dividere un solo uovo sodo in cinque, e per rendere più saporita la piccola ciotola di riso in bianco e bollito, ci metteva su tanta salsa di pesce.
Raccontava pure che aveva solo due camicie di ricambio e che ogni sera ne lavava una e la metteva asciugare. I soldi della nonna, guadagnati con tanta fatica,  non dovevano essere spesi in cose frivole e vestiti, ma per lo studio, mio padre aveva tanto rispetto e devozione per lei, e si impegnò per raggiungere lo scopo.

Fu lui a guidare la fuga e a trascinare intere famiglie e a portarle in salvo. Affrontò pure gli squali, quando il motore non funzionò e si tuffò nel mare per controllare. I pirati che ci assalirono, desistettero alla violenza quando mia madre supplicò di non gettare in mare me, che avevo un anno, e uccidere lei. Forse i bambini piccoli fanno tenerezza... si limitarono a portare via tutte le ricchezze - cavarono via persino i denti d'oro dalle bocche - e se ne andarono. Non vi era più nessun oro e moneta. Solo la vita intatta di tutti.

Mio padre da solo, senza sapere una parola di italiano, senza aiuti, conoscenze, amici, parenti, nulla, riuscì a mantenerci e a farci studiare tutti e quattro. Ad acquistare una casa. A riprendere a studiare a più di quarant'anni, mentre lavorava, per risostenere gli esami dell'ultimo anno di università e riprendere la laurea.
Pure mia madre, non potendo più esercitare la sua attività di insegnante di lettere, scese in campo e tornò con umiltà a scuola: si iscrisse alle medie serali per conoscere la storia e la letteratura italiana. Me la ricordo, l'anno in cui lei e mia sorella fecero l'esame di terza media, nello stesso istituto. Una al corso serale e l'altra a quello del mattino. In seguito prese pure il diploma triennale per segretaria ed operatore d'ufficio. Era entusiasta di imparare cose nuove.


"E' più importante avere la capacità di produrre i soldi, che ereditarli e basta". 
"Se hai il cervello e le capacità, ti sentirai sempre al sicuro".
"I figli di papà che si adagiano non si sentiranno mai al sicuro, non sono capaci di fare da soli".



La gente spesso si stupisce della mia serenità riguardo il lavoro e l'economia, perché non ho un lavoro "fisso".
Io sono tranquilla in questo perché "ho le capacità di fare i soldi". Piuttosto, mi sento più fortunata di quelli che ogni mattina si alzano e vanno a fare una cosa che magari odiano e dipendono dalle apparenze e dai vizi. Loro potrebbero comunque essere lasciati a casa da un giorno all'altro e ritrovarsi in condizioni peggiori delle mie, che almeno sono felice con poco: mi basta un pensiero gentile, una bella compagnia, un giorno di pioggia o di sole. Una passeggiata. Un bacio.


"I soldi sono cose che vanno e vengono".
"Se hai il cervello e le capacità, ti sentirai sempre al sicuro".


Non mi affido molto allo Stato, che continua a cambiare le carte in tavola. Non mi affido molto alla pensione che non avrò, perché continuano a spostarla più in là. Ma io da anziana, se avrò bisogno di soldi, potrò continuare a dare lezioni di pianoforte, imparerò a fare torte e a venderle. E siccome mi piace imparare, da qui ad allora, saprò fare un sacco di cose che mi faranno fruttare denaro.


"Se non hai niente, non perdi niente".



Questo invece, riguarda il mio attuale patrimonio. Non è che non ho nulla, ma mi rendo conto che quando esco di casa, la mia tranquillità è proprio il pensiero che, se mi entrassero i ladri, non troverebbero nulla da portar via. E questa sensazione di leggerezza mi porta a pensare che quasi quasi preferisco restare così: circondata da mobili modesti e cose semplici. Penso che mi dispiacerebbe perdere il pc, per le foto, i video, la musica e gli spartiti che ho dentro, più che per il suo valore.

Persino il sax che tengo in casa mia non è il più bello che ho, perché io so che, se uno sa suonare, suona bene con tutto.

Il cellulare? Lo dimentico spesso in macchina e in giro e so che nessuno lo vorrebbe rubare. Non ho la smania di mostrarmi con vestiti firmati, macchina e telefoni costosi, mi sento bella e sicura anche senza, e vivo leggera, proprio con la sensazione che non perderò niente. Non mi portano via niente.

La ricchezza di una persona è nella salute, nelle maniere educate, nella cultura, nel carattere e nella voglia di imparare. E' questo l'insegnamento che mi hanno trasmesso, con esempi di vite cadute e rialzate. Di tenacia e speranza.
Io voglio diventare ricchissima in queste cose.
Spendere i soldi in viaggi per arricchire i ricordi, in corsi per imparare. In regali per le persone a cui tengo per arricchirmi dei loro sorrisi.


"Sono le maniere che ti fanno rispettare, le buone maniere non te le possono portare via nessuno".
"Studia, perché le nozioni e le cose che impari te le porti in qualsiasi nazione, i soldi, le case, le ricchezze, no".
"I soldi sono cose che vanno e vengono".
"Se hai il cervello e le capacità, ti sentirai sempre al sicuro".


Me lo ricorderò sempre. Mamma, papà.


domenica 19 giugno 2016

Sabato 25 giugno 2016

Martedì 21 giugno 2016

La mia partecipazione all'evento del 21 giugno, dove avrei dovuto suonare alle cascate di Gaina, è stata annullata perché il fiume ha esondato.

Ci vediamo a Desenzano il 25 giugno!

giovedì 16 giugno 2016

Sabato 18 giugno 2016

Ore 11:00 palco Brend (n.13), Les Nuages 
Ore 12: Piazza Mercato (n.14), Les Nuages
Ore 19:15 palco Brend (n.13), Les Nuages
Ore 20:00 palco Brend (n.13), Trio Sax



venerdì 10 giugno 2016

Domenica 12 giugno 2016

AGGIORNAMENTO: Causa mal tempo, l'evento è stato posticipato a domenica 3 luglio.

Eccomi anche quest'anno!
Presente con i Les Nuages alla cantina Gatta.
Per info:
http://www.gussagonews.it/vie-del-gusto-viaggio-vigne-sapori-gussago-giugno-2016

Sabato 11 giugno 2016

venerdì 3 giugno 2016

L'ombrello

Non ero un'adolescente come le altre, era come se fossi caduta in volo sulla terra per sbaglio ed avessi fretta di andare via.
Qui per errore. Disagio.
Mi sentivo come se ogni giorno dovessi giustificarmi:  

Scusatemi se ci sono.

Quando piove mi vengono in mente diversi episodi.

C'era, c'è quel mio mondo privato, di fantasticare sugli sconosciuti, di immaginarmi le loro stravaganti vite che non conoscevo.

Una volta, pioveva forte e io camminavo in via Mazzini, come al solito senza ombrello, perché io lascio sempre in giro centinaia di ombrelli, sciarpe, guanti, cappelli. Ed è per questo che non ne ho mai uno.
Come al solito ero imbronciata e non vedevo dove andavo a sbattermi. Allora non portavo ancora le lenti a contatto, e mai mi sarei sognata di girare con gli occhiali, perchè da "quattrocchi" mi vedevo orribile. 
Preferivo rimanere bella e vivere in un mondo dai contorni indefiniti. Poi, non c'era nulla di bello da vedere nella realtà, tanto meglio non accorgersi.

Sedici anni, quarantun chilogrammi distribuiti su un metro e cinquantasette centimetri, sessantasette con i tacchi alti. Ma io potevo andare in giro con le microgonne, le calze a rete e le maglie aderenti che non risultavo volgare. Le magre possono mettersi tutto!

Pioveva a dirotto, dicevo, i capelli e tutto il mio corpo erano inzuppati. La camicetta scollata appiccicata alla pelle. Pure l'acqua dentro le scarpe col tacco alto. Alla fermata dell'autobus ognuno si faceva i fatti propri, sotto gli ombrelli e riparati dal paletot. Mi sembravo l'unica a curiosare quella strana gente.

Magari io col trucco colato, il rossetto abbondante e le calze provocanti sembravo una straniera da stare alla larga. Infatti: mi stavano alla larga. 

Ma c'era un ragazzo, credo mio coetaneo, che mi osservava. Gli rivolsi un'occhiata. Guardai il cielo gocciolante e guardai di nuovo lui. 
Mi sorrise, si staccò dal muro, venne verso di me, allungò il braccio sulla mia testa fradicia e divise il suo ombrello con me.

Ci parlammo? No.
Gli dissi solo: "Grazie".

Rimanemmo in silenzio sotto la pioggia, due sconosciuti qualunque sotto lo stesso ombrello ad aspettare lo stesso autobus. Mi sentii meno abbandonata, discriminata ed ignorata dal solito. 
Dal solito mio essere adolescente sbagliato, rimproverato e invisibile di tutti i giorni. 
Mi sentii protetta. Non mi capitò più di sentirmi così per molto, molto, troppo tempo.

Scesi io prima di lui.
Poi, non ci rivedemmo più.

Fine della storia.

Sono passati tanti anni. Spesso mi ritorna in mente questo episodio.
Quel giorno non ero stata sulla terra per disturbo, perchè qualcuno mi aveva notata e non per qualcosa di brutto o sbagliato in me. Solo per ripararmi dalla pioggia.

E' bello l'ombrello, quando si cammina sotto in due e quello più alto lo tiene per riparare entrambi.
Per questo, non lo porto mai. Sono anche, sempre, la più bassa.




giovedì 2 giugno 2016

Eventi di giugno

Questa sarà un'estate riccamente artistica!
Intanto annotatevi le date (per ora confermate) di giugno.
Finchè non avrò le locandine ve le scrivo così, ma poi le pubblicherò per ogni evento, tenetevi liberi e seguitemi per le vie di Brescia!

11 giugno: Gran Galà, Brescia centro
12 giugno: Le vie del gusto, Gussago (BS)
18 giugno: Festa della musica, Brescia centro
21 giugno: Concerto alle cascate di Gaina, Monticelli Brusati (BS)
25 giugno: Concerto al castello di Desenzano (lago di Garda, Brescia)
29 giugno: Evento da definire in corso...

In cantiere un nuovo spettacolo con la mia amica, socia e attrice Maria Antonietta Belotti del fantastico Duo Medea: www.facebook.com/duomedea

Ciao!

domenica 29 maggio 2016

Quesiti domenicali

Che cosa pensate al mattino appena svegli?
E cosa programmate la sera per il giorno successivo?

Rispondendo alle due domande, al risveglio di solito penso: "Che strumento comincio? Oggi ho pranzo quindi studio mezz'ora al piano, tecnica adesso e brani mezz'ora dopo...",  "Tutti allievi in si bemolle oggi, allora studio contralto stamattina e mi porto il clari a scuola, così ci soffio dentro un po'", oppure: "Stasera libera, dunque, faccio sax questa mattina e piano in cuffia a casa quando torno, tanto non disturba", o anche: "Non c'è tempo! Vado subito a scuola, mi chiudo dentro col tenore e mi esercito due ore prima che arrivino (gli allievi)".

La sera, quando programmo, faccio velocemente mente locale: "Domani inizio alle 15, ho tempo due ore, se studio al mattino clari mi porto il sax per fare lezione", "Ah domani ho un'ora buca e c'è il piano, prendo su i libri", "Domani vado a pilates, poi studio piano e sax dopo pranzo..."

Quando invece ho del tempo libero penso: potrei imparare a suonare il flauto, la chitarra, l'ukulele, la melodica, la fisarmonica. Andare a lezione di canto!

Penso sempre a cosa, quando e con chi suonare. Forse sono ripetitiva in questo.
Però non riuscirei a dedicarmi ad un solo strumento: hanno delle caratteristiche differenti e avere a che fare con uno solo poi mi annoia: sono un'incostante nell'essere costante. 

Penso che non tutti vivano con questi pensieri. 
Io al lavoro non ci penso... improvviso alla giornata, cioè: se mi venisse in mente, il mio pensiero è: "Non ho voglia, voglio stare a casa!"
A volte mi domando se non è regolare la mia testa e cosa invece programma la gente "non-Thasala".

Mia madre, so che pensa alla lista della spesa, che deve andare a prendere le nipoti all'asilo, cosa cucinare, a fare andare la lavatrice, stendere. Che mamma indaffarata!

Non idea di cosa pensa mio padre, per esempio, da quando è in pensione: ascolta musica classica tutto il giorno...

Ma tutti gli altri a cosa pensano?
Chissà di cosa vi preoccupate di fare la sera prima,  quando pensate al giorno dopo, mi è venuto di punto in bianco questo quesito domenicale piovoso.

Ora vado a suonare.


Culla

Apro gli occhi in una domenica mattina di fine maggio, fra lenzuola rosse ed una finestra affacciata al mondo esterno.
Mi accoglie il tintinnare della pioggia sopra il tetto, il suono del vento e un colore tenue del cielo nuvoloso al di là delle tende. Un cinguettio fra i rami.

Per qualche arcaico motivo da me rimosso nei ricordi, da sempre la tempesta mi ha dato un senso di rassicurazione, come due braccia che mi dicono: "Va tutto bene, è tempo di riposare i tuoi pensieri, non devi esporti".
Gocce e ancora gocce. Lavano e portano via tutto. Portano via anche me.
Chiudo gli occhi e so che posso sognare, andar via di qui, ancora per un altro po'.


domenica 1 maggio 2016

Maggio

Sono in una fase della vita in cui non sento di avere nulla di rilevante da scrivere, da mettere al corrente. 
Mia madre dice sempre che quando una scatola di latta è vuota, fa molto rumore. Quando è piena non la si sente.
Ora capisco cosa intende dire.
Osservo il cielo, le persone mi appaiono troppo faticose da frequentare, mi piace una strana sensazione di isolamento. Crescono i pensieri e cresce l'incapacità di parlarne.

Dopotutto, non è più necessario riempire sempre i vuoti.


mercoledì 30 marzo 2016

Io e gli animali

Spesso mi viene consigliato di tenere un animaletto per farmi compagnia, perché vivo da sola e questa condizione sembra molto dura agli occhi di chi non è abituato. Io ne parlo poco, ma non lo tengo perché il mio rapporto con gli altri esseri viventi, animali compresi, ma soprattutto con loro, è troppo complesso. Io non mi sento adeguata a prendermi cura degli animali... cioè, no: il contrario, sono la persona più indicata, responsabilmente ed emotivamente per farlo, ma il casino che c'è in me si rifiuta di prendere a cuore (di nuovo) altri incarichi di questo tipo. Lo farei se avessi la certezza e il tempo per farlo bene; diversamente, il disordine, la pulizia, le spese che ora non sarei in grado di sostenere, mi farebbero sentire nervosa ed in colpa.

Partiamo dal fattore principale: io non ho bisogno di compagnia, quando arrivo a casa non sento l'esigenza di ricordarmi di qualcuno. Perciò se ne tenessi uno non è per risolvere qualche mia mancanza, quanto per salvare dalla strada e dal suo destino qualche bisognoso. Come quella mia amica pazza che decise di adottare un cagnolino e si informò su quale fosse il canile più brutto e più bisognoso d'Italia, poi prese la macchina e guidò da nord a sud per centinaia di chilometri per andare a salvarne uno.
Ecco, io non amo guidare e per pigrizia non lo farei, ma sicuramente andrei a prenderne uno dal canile più povero ed in difficoltà di Brescia o provincia.

Al momento non ho lo spirito giusto per farlo: ho pensieri miei per la testa, tante cose da fare, non mi sento generosa per ogni giorno portare a passeggio un cagnolino, farlo giocare, lavarlo, per tenere pulita la lettiera di un gatto, per fargli compagnia. Per cambiare l'acqua ad un pesce o per pulire la gabbia ad un criceto. Spesso ho la dispensa ed il frigo vuoto per me, che al limite me la cavo con una telefonata o una capatina dalla mamma o qualche cosa di veloce comperato di passaggio... ma se avessi un animale non potrei trattarlo così. Io sì, ma lui no. 
Diciamo che ho una certa dose di egoismo e non ho voglia di pensare agli altri.

Ho avuto tantissimi animali nella mia vita: avevamo una decina di criceti, gatti, cani, pesci, tartarughine, canarini, tortore. Mi ricordo in campagna i vari passerotti caduti e salvati dai nidi, i ricci dispersi rimessi nell'orto. Gli animali morti tragicamente: un cane fucilato dai vicini, una gatta investita nel mese di novembre, qualche giorno prima del mio compleanno, era incinta in stato avanzato e morirono anche i cuccioli in pancia. Un altro gatto disperso e mai più ritrovato.
Traumi, furono traumi improvvisi e mi ricordo il mio dolore di bambina e in seguito di ragazzina e adulta per queste perdite.

La cosa particolare è che non ero mai stata propensa a prenderne uno, non di mia iniziativa, erano sempre stati gli altri a trovarli carini e a prenderli, ma una volta avuti, ero quella a cui stava più a cuore la loro sorte: quando attorno a me, passato l'interesse iniziale si scaricavano le fatiche, rimanevo io, col freddo, il sole e la pioggia a portare in giro i cani. Combattendo stanchezza e pigrizia. Ad investire i miei risparmi per tenerli bene. Io e mia madre: donna terrorizzata dai cani e dai gatti, ma che fino alla fine si ricordava ogni giorno di come stessero e spendeva soldi e tempo per occuparsene, togliendoli a sè stessa, senza mai toccarli e nemmeno avvicinarsi, se non protetta dalla finestra chiusa, da dove li osservava e studiava con curiosità.
Le ho passate, sì, tutte queste cose. Perciò so come si fa a tenere bene un animale, e cosa significa per loro.

E ho visto anche cani regalati via come pacchi regalo perché i proprietari non potevano più occuparsene, che poi morivano di nostalgia, gatti investiti e scappati via perché era troppo alta la spesa per farli castrare o sterilizzare.

Io penso che non bisogna tenere animali per avere compagnia, per sè stessi, ma con lo spirito di prendersene cura per tutta la loro vita.

Voglio raccontare un aneddoto riguardante uno zio di mia madre: noi crediamo nel karma, e questa storiella sembra insegnare qualcosa.

Questo mio prozio amava tenere in una enorme gabbia in giardino, uccelli colorati di tutti i tipi, e nei vasi i bellissimi pesci dei climi caldi.
Ogni giorno usciva in giardino a rimirare i volatili che dovevano farsi bastare un pezzettino di aria per volare e i suoi pesci. Era una persona di buon cuore, ma aveva questa passione, oltre a quella di fare lunghe passeggiate e giri in bicicletta: era molto attivo, amava muoversi, correre, nuotare, godersi la libertà.

Un giorno fece un terribile incidente, e a quarant'anni rimase paralizzato, legato ad un letto. Quando non dormiva, lo portavano sempre un po' nel suo verdeggiante e vivace giardino a prendere aria, in quel bel paese sempre estivo, ma non potè mai più "librarsi" nell'aria e tuffarsi nei ruscelli e nel mare, proprio come i suoi meravigliosi uccelli e i suoi natanti. Osservava il cielo malinconicamente, guardava gli altri liberi di fare tutte quelle cose che lui non poteva più. Finì i suoi giorni così, in tristezza, morendo giovane.

Alla sua morte, i parenti liberarono nei fiumi e nei mari tutti i suoi pesci, da dove venivano, e aprirono le gabbie: quelle splendide e superbe piume, superata la fase di stupore e di diffidenza, cercarono di spiccare il volo, dapprima maldestramente, come se non avessero mai volato veramente nella loro vita, poi, provate le ali, volarono sempre più su, raggiungendo i loro simili, in alto, in cielo, cinguettando e cantando, senza più confini.

I parenti pensavano che così, avrebbero alleggerito il suo karma, oltre al fatto che nella sua vita avesse già comunque appreso duramente la lezione di comprensione verso gli altri (gli animali hanno un'anima quanto gli uomini) e di gioia della libertà: solo quando si perde una cosa che si ama si comprende il suo valore.

Concludo con questa frase. Alla domanda: "Che cosa significa amare?" la risposta fu:
Se ti piace un fiore lo stacchi e lo raccogli, se lo ami lo annaffi e te ne prendi cura.



giovedì 10 marzo 2016

Thasie "Prof."

Ho sempre pensato che insegnare nelle scuole pubbliche non fosse il mio grande sogno, diversamente dai miei amici, dopo il diploma e la laurea, non mi sono mai informata su argomenti come: graduatorie, punteggi, e tutte le questioni legali e pratiche per procedere in tal senso. 
Sinceramente, mi stupivo e non capivo tutte queste corse e tutti i sacrifici in termini di soldi, tempo e fatiche, per accappararsi un posto come insegnante delle scuole medie. Cosa c'era di bello nel passare le mattine insieme ad un gruppo numeroso di ragazzini costretti a stare lì, costretti nel mio caso a studiare musica? 
A me non piace occuparmi di persone disinteressate a studiare la mia materia, e non ho neppure la vocazione di convertire qualcuno. 
Per quel che mi riguarda: o ti interessa, o non ti interessa, e credo pure che nella vita non sia necessario dover sapere suonare, soprattutto, penso che sapere allietare le orecchie col canto o uno strumento musicale, non sia una cosa alla portata di tutti.
Cioè: c'è chi nasce con delle capacità e chi no, chi con attitudini particolari e chi no, semplicemente. Certo, ciò non toglie che tutti abbiano la possibilità di canticchiare e strimpellare, ma dev'essere una scelta, non un'imposizione.
La scuola può e deve obbligare a conoscere materie come la lingua, la matematica... ma la musica? Io darei la possibilità di sceglierla come materia opzionale. Uno si iscrive a scuola, e può crearsi un piano di studi sin dalle medie, scegliendo fra varie materie artistiche come il teatro, la danza, la musica. 
Oltretutto, uno fa il conservatorio principalmente perché gli piace suonare il suo strumento. L'educazione musicale, come viene fatta in Italia, è frustrante per un musicista: non si può assolutamente dire che insegnare a suonare il flauto sia fare quello per cui si ha studiato. Insegnare a suonare nelle accademie il saxofono magari sì. Ma il flauto no. Per carità.
Quando chiedevo ai miei amici cosa ci trovassero di tanto bello nell'anelare a fare i "professor-fessi" nel pubblico, mi rispondevano: "Cavolo, hai il posto fisso, stipendio fisso".
Tutto qui??? Solo una minima percentuale, ma credo nessuno "per intero", mi ha mai risposto: "Oh! Io adoro insegnare, era quello che volevo fare fin da piccolo/a".

Ma ne vale la pena di fare questo lavoro per un posto fisso?
Avendo io fatto centinaia di lavori, come ho scritto nel mio "curriculum lavorativo", direi proprio di no. 
Ma no! 
Ma no! 
Ma nooo!

Ad una certa veneranda età, dopo che tutti mi chiedevano perché gli altri insegnavano alle medie e io no, e con incoraggiamento, stupore, esempi come: "Angelo insegna, prova chiedere anche tu"... come se fossi troppo ingenua e non lo sapessi, e soprattutto perché una mia amica un'estate mi aveva riempita le orecchie con argomenti che ho rimosso, con termini importanti come: documenti, CGL, punteggio, III fascia, supplenze eccetera, mi sono ritrovata inserita pure io a queste maledette graduatorie statali.

All'inizio non me ne importava, ero contenta quando una supplenza veniva assegnata a qualcun altro. Molto meglio passare le mie mattinate a suonare, a preparare spettacoli e soprattutto a non avere a che fare con bambini-ragazzini rumorosi da tenere a bada. Magari maleducati, senza senso civico: non ho pazienza, io.
Non ho scritto in fronte: "Suor missionaria".
Dopo un po' ho sperato però che toccasse pure a me, così: per spirito competitivo, perché gli altri sì e io no?
Oggi che ci sono finita dentro, a fare la supplente, posso confermare quello che razionalmente ho sempre osservato con sospetto: fare la "professo-fessa" è il lavoro più brutto che abbia mai fatto. 

Mi mancano ancora pochi giorni per finire questo mandato. Poi ne parlerò meglio, poi magari verrò qui a riflettere su argomenti filosofici e sprituali come il karma, le lezioni della vita, il ricevere dagli altri... e bla bla bla... Cose profonde, come quando si va dallo psichiatra e si parla per stabilire se si è matti.
E' una punizione divina? Di certo, la prima cosa che sono corsa a fare ieri, nel mio primo mercoledì libero dopo un mese, passato senza mal di testa, è stato di iscrivermi ad un corso di 240 ore estive per imparare ad elaborare e fare buste paga e contabilità aziendale.
Quando facevo la segretaria non c'era nessuno che mi violentava le mie sensibilissime e delicatissime orecchie, e non dovevo zittire nessuno.
In verità farò il corso ma non so se farò la segretaria, sono anni che lavoro già come insegnante di sax e clarinetto nelle accademie e vivo abbastanza dignitosamente così. 
Ho cercato il corso per esorcizzare il mio presente, per una crisi di rigetto, per punirmi ulteriormente?
Comunque questa estate avrò per quelle 240 ore una bella stanza con l'aria condizionata, cioè, nelle scuole pubbliche mica c'è!

Ci risentiamo!


domenica 14 febbraio 2016

Collettiva Arte Ba-Rocco (Video)

Ecco i video della serata di sabato tenutasi a Milano: musica, arte, libri e letture. Con la partecipazione del duo Eritha.
Il primo video direttamente dal canale Erithamusic, il secondo del cameraman Gabriel Montoneri. 
Buona visione!






sabato 6 febbraio 2016

Sabato 6 febbraio 2016

COLLETTIVA D'ARTE  "APERITIVOART - L'ARTE COME CIBO PER L'ANIMA" 



L'associazione culturale Arte Ba-Rocco di Milano, nella persona del suo Presidente Cav. (m.o.c.) Rocco Basciano,

E' LIETA 


Di pubblicare le opere degli artisti espositori c/o il locale
BARRIOS CAFE' di Milano zona Barona dall'1 al 20 febbraio con Vernissage
Sabato 6 febbraio ore 18.30.


Saranno presenti gli ospiti d'onore: Sergio Segantin, critico d'arte (critica delle opere), Antonio Paolo Pini, attore (lettura di poesie), Marilena Nocilla,
scrittrice e pittrice con il suo terzo libro "Io ritorno bambina" e due
sue opere pittoriche, il duo sonoro Eritha composto da Thasala Phan
(sassofono) ed Erica Guastoldi (pianoforte).



Seguirà rinfresco offerto dall'associazione.

INGRESSO LIBERO



venerdì 15 gennaio 2016

Sabato 23 gennaio 2016


Il 23 gennaio 2016 alle ore 20.30 presso il Teatro Comunale di Coccaglio, l'Associazione Montorfano Franciacorta propone la presentazione del libro di poesie L'America del nostro poeta bresciano Francesco Buffoli.
La serata sarà allietata dalla lettura di alcune poesie accompagnate da musiche di C. Porter, G. Gershwin, M. Ravel, E Grieg, eseguite dai musicisti M° Alessandro Guastoldi (alla chitarra), M° Erica Guastoldi (al pianoforte); M° Flavio Minelli e M° Erica Guastoldi (pianoforte a quattro mani); M° Thasala Phan (saxofono) e M° Erica Guastoldi (pianoforte) (duo Eritha).
Voce recitante: Renato Lancini.
Al termine della serata vi sarà un rinfresco per tutti.

domenica 3 gennaio 2016

Curriculum discorsivo (esperienze lavorative)

- Ho lavorato qui... e qui... Ah! E quando lavoravo lì!
- Ma tu hai lavorato in tutta Brescia???
- Beh, sì!


Beh, sì: di esperienze lavorative ne ho fatte tante, e mi sentivo molto in gamba a potermi comprare tutto quello che volevo senza dover tenere conto di nessuno. Lavoravo mentre studiavo e ovviamente i miei stipendi mensili non erano da considerarsi pieni, ma quando a ventun anni, mi pagai a rate il mio saxofono soprano da sei milioni di vecchie lire, facendo la cameriera il fine settimana, racimolando mance e soldi e rinunciando a tante cose, ero la ragazza più "importante" del pianeta. Correva l'anno 2000.

Il primo lavoro in assoluto però, durò una settimana nell'estate del '95: trovai un impiego da operaia in una azienda di vestiti. Cucivo a macchina e stiravo con grossi macchinari a vapore, senza aria condizionata o un minimo di ventilatore per rinfrescare il soffocante sole di agosto. Ero contenta in pausa scolastica di guadagnare dei soldi tutti miei, ma la paga era veramente misera, meno della metà di quanto prendeva una barista ai tempi, il lavoro letteralmente soffocante e snervante, e ad un certo punto mi domandai, con un pizzico di presunzione, perché mai io, figlia di architetto e professoressa di lettere, dovessi subire le angherie di quei dittatori senza scrupoli ed umanità. Io che me ne stavo lì otto ore a grondare di sudore mentre la stronza "padrona" comandava dal suo tavolo, col ventilatore puntato addosso solo su di lei.

Li mollai dopo una settimana, dopo ovviamente essermi presa i miei soldi e imparando più di tutti gli insegnamenti di una vita di mamma e papà: che studiare permetteva di poter trovare alternative.
Seriamente, mi ero chiesta in quei sette giorni, come potessero quelle persone stare lì da anni, in quel capannone, al freddo in inverno e al caldo in estate, a produrre come formiche, sotto gli ordini di una donna grossa e arrogante, per quattromila lire all'ora.

A diciotto anni, una settimana dopo aver dato gli esami di maturità, finii a fare la baby sitter. Ora, io sono un tipo sveglio, ma alle prese con una bimbetta di due anni era una impresa bizzarra per me, che di materno non avevo nulla, solo i soldi mi piacevano. Ogni giorno, non vedevo l'ora di liberarmi di lei e di volare via il pomeriggio a fare shopping e spendere in vestiti e scarpe tutto quello che guadagnavo. La cosa più difficile? Insegnarle a bere il latte con i biscottini a colazione, stare tranquilla e comportarsi da bambina "normale", come si aspettavano i suoi genitori, mentre di nascosto da lei mi preparavo pastasciutte alle dieci del mattino, mi addormentavo in piedi, mi annoiavo a morte o facevo la pazza, mettendo in radio la musica da discoteca e ballando tutta contenta, spiegandole che era un gioco nuovo. La mettevo sul puffo e le dicevo che eravamo "ragazze cubo".
Il "giretto" all'aperto nei bei giorni era una cosa che proprio la madre si aspettava e non si poteva evitare, io avrei preferito poltrire sul divano guardando un film dietro l'altro, ma la bimba avrebbe riferito, così ogni tanto mi avventuravo a scoprire il paese, fino a quando non reclamava acqua, cibo, sonno, pannolino e freddo. Per quanto riguarda il cambio, i miei amici possono testimoniare gli innumerevoli morsi sulle braccia che riportavo quell'estate: la peste non ne voleva sapere di cambiarsi, io non avevo proprio idea di come convincerla, così spesso la prendevo in braccio a forza e la portavo su per due piani di scale, con la sua strillata nell'orecchio e i denti ben conficcati a mordermi, come segno di ribellione.
Cambiare i pannolini è stata la cosa in assoluto più traumatica e violenta (per me) nelle mia vita lavorativa.
Me ne andai via pure da lì, dopo sei o sette mesi, quando non ce la feci proprio più a svegliarmi presto tutte le mattine: per Bacco! A scuola quando volevo proseguire a dormire mi bastava fare una firma sul foglio il giorno dopo, per lavorare invece, non mi era consentito neppure di saltare qualche prima ora!

Successivamente trovai un impiego di poche ore a settimana come telefonista per i sondaggi: dovevo chiamare in casa la gente e chiederle se potevo intervistarla. Le interviste erano diverse: dai sondaggi politici a quelli di mercato, da quelli più locali, come quando dovevamo chiedere chi era o meno, favorevole alla costruzione della metropolitana a Brescia e le motivazioni; a quelli nazionali, come quella della fusione di due banche e conseguente indagine di mercato.
Non ricordo perché smisi, forse perché non me ne fregava niente di sapere cosa pensava la gente del nuovo locale e dei politici e mi annoiavo ad ascoltare. E anche perché non avevo la patente e preferivo lavorare in città per spostarmi da sola. Ma forse perché, in realtà, al tempo non avevo veramente bisogno di soldi, lavoravo solo per i miei capricci.

Incominciai a bazzicare nei locali verso i vent'anni. Le mie prime volte da barista furono, inizialmente, solo durante le pause estive, facevo le stagioni da maggio ad ottobre, quando cioè in centro i locali mettevano i tavoli all'esterno, e serviva del personale extra in più. Per questo ho cambiato così tanti ristoranti e bar. Iniziai a lavorare la sera nelle birrerie e nei fine settimana, anche durante l'anno scolastico, solo più tardi.

Come potrei descrivere quel lavoro?

La prima cosa che ricordo, era che mentre prendevo ordini e trotterellavo avanti e indietro con boccali di birra e vassoi di patatine fritte, osservavo i miei coetanei divertirsi e mi sentivo profondamente triste e desiderosa di essere al loro posto. Le ragazze erano ben agghindate con tacchi, trucco, vestiti alla moda, capelli vaporosi e profumati. Facevano le civette con i ragazzi, ridevano e scherzavano. Io invece indossavo scarpe da ginnastica, maglietta, i miei capelli raccolti puzzavano di fumo e di odori della cucina che mi si impregnavano addosso dalle sette di sera fino le tre di notte,  e i ragazzi mi si rivolgevano per farsi portare una birra o una pizza. Eppure avevo studiato anch'io tutta la settimana come loro. Anch'io avrei voluto potermi riposare e divertire come tutti!
Qualche episodio carino, comunque, ci fu. Come quella volta che, vestita da bavarese con una gonna troppo lunga per me, mi vidi in difficoltà a dover salire delle scale, con un vassoio pesante colmo di pinte. La gonna finì sotto le mie scarpe, i bicchieri traballavano e, inciampando, rovesciai l'intero contenuto, litri e litri di birra, addosso ad un povero cliente, un figlioletto di papà, che si vide fradicio dai capelli ai pantaloni. Io avrei voluto piangere, il suo amico rideva. Per fortuna, con notevole presenza di spirito, il ragazzo disse, ridente e rassicurante pure lui:
- Non ti preoccupare! E' il sogno di ogni uomo farsi fare il bagno nella birra da una ragazza così carina! - si preoccupò pure di ammansire i miei capi.

A quei tempi si poteva ancora fumare nei locali, e credo di aver rischiato di soffocare più volte. Dopo un po' di ore, la nebbia del fumo e gli occhi brucianti mi appesantivano la testa, impedivano la vista e la carenza di ossigeno mi destabilizzava. Tornavo a casa con i piedi a pezzi e il mal di schiena, ma contavo i miei guadagni e sorridevo contenta di potermi comprare il mio adocchiato e già adorato nuovo pianoforte digitale: un Yamaha di alto livello, con i tasti pesati e il timbro e il tocco di un vero pianoforte a coda: con quello avrei potuto suonare a qualunque ora del giorno! Musica di notte, quando ne avevo voglia, senza tener conto dei vicini... dovevo resistere!
Comunque per la mia salute, un giorno decisi di abbandonare i posti fumosi ed approdai nelle gelaterie, anche se qualche mese dopo uscì, per fortuna, la legge che vietava di fumare nei locali.

Dopo il conservatorio, non avendo più l'obbligo di frequenza, trovai lavoro come commessa. Per me fu un bel salto: ero nel mio ambiente in mezzo ai vestiti, adoravo fare le vetrine, allestire il negozio, battere la cassa, emettere scontrini. Ero vestita bene e non odoravo più di cucina. I locali erano freschi in estate e caldi in inverno. Mi piaceva un po' meno riordinare, pulire e servire certe clienti.

Lavorai anche in un negozio che vendeva articoli casalinghi per la clientela "signorile" di Brescia, per le signore impellicciate che pagavano con la carta di credito del marito, per intenderci. Qui scoprii un nuovo mondo che, se non avessi un certo distacco e senso dell'umorismo, farebbe piangere. Ma invece a me diverte prendere in giro. 
Era sotto Natale, c'erano signore che chiedevano carta ed etichette del negozio per impacchettare i loro regalini economici acquistati altrove e farli figurare costosi. Quelle che venivano con i regali ricevuti per risalire al prezzo e sapere quanto aveva speso l'amica. Senza contare la concorrenza e la malignità fra le commesse e i vari reparti per cercare di fare carriera. Ma davvero si cercava di fare carriera come commessa, lì dentro?
Beh, a me di fare carriera per quello stipendio non interessava. Avevo capito che lì la clientela era "raffinata" e con i soldi, ma che la mia la busta paga intanto era più bassa dell'altro negozio dove avevo lavorato con meno fatica e le clienti erano ragazzine con vestiti "low cost", dove le commesse andavano tutte d'accordo. Perciò non mi sembrava intelligente accaparrarsi un posto per poter dire di lavorare nel negozio più "In" della città e di vantarsi dei soldi e delle pellicce altrui.

Iniziai la gavetta come insegnante a ventiquattro anni. Il primo impiego fu di istruire in discipline musicali degli studenti lavoratori che volevano prendere il diploma di maturità in "Dirigente di comunità". Perciò mi ritrovai allievi che avevano pure il doppio dei miei anni. Tempo dopo, ero in strada sul lago, un carabiniere mi fermò, mi chiese se mi ricordavo di lui, che era stato un mio studente a quei tempi.
In quello stesso anno, tramite amici che già insegnavano, approdai lentamente nelle scuole di musica per insegnare sax: tappavo i buchi di un insegnante che se ne stava andando. Riuscivo a lavorare circa cinque, sei ore a settimana, ma non pensavo di aver potuto fare altro: non avevo una laurea, il mio diploma in stilista mi consentiva di fare al massimo la commessa. Che lavoro avrei potuto fare? I soldi però non bastavano, e a quell'età non erano più solo per dei capricci: avevo una macchina da mantenere, le bollette in casa da pagare, avevo aperto un finanziamento per acquistarmi un box insonorizzato dove poter esercitarmi senza disturbare.

Quello fu il periodo in cui riuscivo a fare due, tre lavori contemporaneamente: commessa part time durante la settimana, insegnante nel mio pomeriggio libero e cameriera il sabato sera. La mattina mi esercitavo e ogni tanto riuscivo a farmi pagare per qualche spettacolo e matrimonio. Campai così per un bel po'.

Quando le ore di lezione e quindi i pomeriggi nelle scuole iniziarono ad essere due o tre e non potevo più essere presente in negozio, trovai lavoro come impiegata il mattino. Facevo la segretaria per uno studio di un ingegnere, ed in seguito, per oltre un anno e mezzo, presso un'azienda che si occupava di incidenti e sinistri stradali per più compagnie assicurative. In questo modo riuscivo a conciliare le cose e ad avere qualche pomeriggio libero.

La crisi del 2008 colpì diversi settori, molte aziende e studi chiusero. Fu nello stesso anno che decisi di prendere il diploma accademico di II livello: dovevo conciliare solo i due, tre pomeriggi di lezioni, senza più lo stipendio part time di impiegata, e quindi minor entrata, con lo studio, che invece richiedeva molte tasse ed acquisti. Imparai a tirare la cinghia anche in questo frangente: pensavo che per guadagnare di più, per poter lavorare di più, fosse necessario studiare e aggiungere altre capacità. In seguito, alle mie ore di insegnamento sino ad allora solo di saxofono, subentrarono anche quelle di clarinetto e pianoforte. Riuscii così a raggiungerne un numero di ore necessario per potermi mantenere da sola.

Ed eccomi qui ad oggi. Che posso dire? Non mi sono mica fermata! Il mio motto è, che se una situazione non ti soddisfa pienamente, bisogna fare qualcosa per migliorare. Studierò ancora e ancora.

Per quanto riguarda il passato, l'aver avuto diverse e disparate esperienze, mi hanno insegnato delle cose sulle persone e sulla società, che non avrei mai appreso così bene se non le avessi vissute io.
Per esempio, che il cliente ha spesso torto, che se un negozio o un locale chiude fra dieci minuti e si vuole entrare solo per guardare, bisogna astenersi e tornare il giorno dopo. Che le chiamate pubblicitarie sono seccanti, ma che basta dire che non si è interessati: non serve a nulla insultare l'operatore, a lui magari dell'azienda non gliene frega niente ed è lì solo per lavorare.
Che se si vuole fare produrre bene un operaio, bisogna dargli una condizione lavorativa non dico dignitosa, ma quanto meno umana. Che quando il cameriere la sera sbaglia, quel ragazzo che prende le comande e si confonde, magari ha la testa piena di nozioni e di malinconia, e un giorno potrebbe essere l'avvocato o il medico che tu anni fai hai maltrattato.
Il ragionamento: "E' il suo lavoro" non giustifica invece la presunzione e la mancanza di comprensione verso gli errori umani del prossimo. Che la commessa che fai trottare e incavolare con gusto perché sei "la cliente", fuori da lì è l'insegnante di tuo figlio. La stessa cosa vale per tutti quei gestori di bar e ristoranti che si divertono a far pesare il lavoro ai dipendenti. Oggi io torno spesso in quei locali, sono sicura di aver lavorato bene. Oggi io ordino e vengo servita pure da loro, quando non c'è il personale libero. Il sorriso da protocollo non serve a nulla, e sono lì solo di passaggio, perché, per conto mio, i soldi lì non ce li vorrei neppure lasciare. E' stato necessario in passato, quando ero una ragazzina, subissarmi e sfogare su di me le proprie frustrazioni a quel modo?

Ricordo una mia "padrona", in sovrappeso. Lei non riusciva proprio ad essere attraente e a dimagrire. Io avevo diciannove anni, ero snella e graziosa. A volte i clienti, allora ragazzi giovani miei coetanei,  mi rivolgevano la parola, scherzando e ridendo. Lei mi zittiva davanti a tutti (facendo rimanere male e in colpa pure loro) e mi spediva nel retrobottega. La parte più divertente? Che poi lei, ultratrentenne, si sostituiva a me per chiacchierare e scherzare con loro al mio posto. Se sbagliavo erano guai, avevo seria paura. Se facevo le cose giuste, mi sentivo di avere scampato il pericolo. Era necessario farmi lavorare così? Ero troppo piccola per reagire. Persino le mie colleghe si erano accorte di questa ingiustificata antipatia.

Per quanto riguarda le capacità: so fare tante cose, ho imparato a gestire più attività, tempi e ad assimilare concetti e abilità senza difficoltà.
Io so di essere in gamba.

Questa è la mia seconda parte di curriculum (molto) informale riguardante il lavoro. Che dite: se un datore di lavoro lo leggesse, dopo le riflessioni (critiche) che ho scritto sulla sua categoria, mi assumerebbe?