mercoledì 30 luglio 2014

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E' come se non avessi niente da dire, succede così quando la testa scoppia di pensieri. Non so cosa scrivere eppure sono stata quasi un'ora a battere e battere sulla tastiera, per poi decidere di non pubblicare nulla.
E' come se fosse più facile descrivere una stanza vuota che parlare di tante cose che l'arredano.

Come vorrei andare via e chiudere gli occhi contro il cielo. In un posto libero, via da qui.

martedì 29 luglio 2014

Qualcosa

Successe qualcosa in primavera, di remoto o forse no, e io attutii il colpo e mi rialzai. Ma qualcosa si era sfracellato dentro e non me ne accorsi, continuai la mia vita dicendo: "Sono forte. Come sono forte".
Passarono anni e continuai a credermi forte. Ma c'era qualcosa di cui andavo orgogliosa, al di fuori dal mio controllo, che si lasciò andare. All'inizio pensai ad un capriccio, ma quel problema ritornava. Anche se dopo anni e anni. Mi spiegarono: 

"La mente cerca di affrontarlo, quando non ce la fa, è il corpo che ti manda dei messaggi".

Dimmi che cosa cerchi di farmi capire. Mi arrendo.



venerdì 25 luglio 2014

Io e gli altri

Mi piace quella storiella che parla di due cani, uno allegro e fiducioso, l'altro ringhioso e diffidente. Li fanno entrare a turni in una casa degli specchi, il primo cane ne esce felice e contento, l'altro ancora più cupo e torvo. Cosa è successo nella stessa casa?

Entrambi i cani hanno solo visto la loro immagine riflessa, ma il primo ha creduto di trovare tanti altri amici simpatici e contenti di vederlo, mentre il secondo si è sentito attaccare da un branco di cani ringhiosi.

Mi piace anche un'altra storiella che parla di una donna che ogni giorno vede la dirimpettaia stendere i panni, e ogni giorno ne parla al marito, criticando e non capendo perché fossero sempre sporchi. Le sue critiche sono anche derisorie, perché la vicina non è pulita, non sa lavare i panni, non si vergogna ecc... finché un mattino, per la prima volta, vede finalmente dei panni candidi e puliti e lo comunica stupita al marito. Questi le risponde semplicemente di aver pulito i vetri sporchi delle finestre della loro casa. Non erano i panni altrui ad essere sporchi. Erano i vetri della donna che criticava.

Entrambe le storielle riassumono un concetto semplice: noi vediamo negli altri noi stessi.

Il più delle volte i difetti che maggiormente ci danno fastidio negli altri, sono i nostri che non sappiamo gestire. Più facciamo fatica a riconoscerli in noi e ad accettarli, maggiormente ci danno fastidio quando li riconosciamo in un'altra persona. Il mondo attorno a noi, le persone che incontriamo sono il nostro specchio, ed è fastidioso che qualcuno ci ricordi le nostre debolezze.

Questo non accade quando riconosciamo i nostri limiti e ci accettiamo, allora accettiamo anche gli stessi difetti negli altri e li osserviamo con più indulgenza, esattamente come lo siamo con noi stessi.

Ho fatto un esperimento in questi giorni, provando a mettere in pratica il detto che se vuoi ottenere qualcosa dagli altri, devi essere tu per primo a darlo. Ecco, io odio fare le file per uffici e, avendone fatte troppe nell'ultimo periodo ed avendo incontrato anche personale scortese e stressato, ho deciso che per lo meno volevo incontrare tutte persone gentili.

Il primo mattino della settimana mi sono recata presso un ufficio, non sapendo esattamente in quale stanza andare. Riconosco che a volte, quando sono presa dalle mille corse e dai cartelli poco chiari, dalle scadenze burocratiche, dimentico di salutare. Ma sapete che è una parolina che cambia l'approccio? Bisogna essere gentile con tutti, questo lo so. Ma prima era solo una regola, da oggi voglio che sia il mio modo di essere e non di fare, ed esserne più cosciente.

Interrompere le bidelle che stanno chiacchierando non sempre è piacevole per loro, specialmente se vedono una straniera girovagare persa per l'istituto. "Buongiorno, mi scusi, mi sono persa, cerco l'ufficio, sa dirmi, grazie!".

Salii per le scale pensando: "Ma come sono gentili le bidelle di questa scuola!"

All'ufficio la segretaria non mi lasciò molto il tempo di parlare e mi indirizzò immediatamente in un altro ufficio, che mi disse che no, dovevo tornare al primo. 
La prima segretaria mi disse che ero io a non essermi spiegata. Allora decisi di "sfidarla" ed ottenere quello che volevo: la sua gentilezza, e le risposi: "Mi scusi, non sono pratica in queste cose". La signora mutò immediatamente modo di fare e fu paziente e gentilissima nell'ora successiva in cui si occupò delle mie carte.
E così anche la sua collega vicina di tavolo dello stesso ufficio, che intervenne non richiesta più volte, per dare una mano.

Me ne andai pensando stupita: "Sono tutti disponibili in questa scuola?"

Non avevo ancora chiaro che il mio esperimento messo in moto per ammazzare la noia delle file, fosse una precisa tecnica della comunicazione per ottenere esattamente quello che vogliamo, ed era un concetto semplice: "Se volevo che fossero gentili con me e che mi aiutassero con i documenti, dovevo approcciarmi io per prima gentilmente con gli altri e chiederlo come se fosse un favore".

Il giorno dopo di nuovo, "Buongiorno, per cortesia, scusi il disturbo, grazie", più un bel sorriso di comprensione e gratitudine e me ne andai pensierosa: "In questi giorni incontro tutte persone disponibili".

Certo non so se questa regola funzioni sempre, certo sarà che c'è gente gentile a prescindere e non solo con me, sarà anche che mi ero presentata per fare la professoressa. Ma quello che contava è che ad essere educati e ammettendo le proprie incertezze, mi era rimasta la sensazione di benessere a me, prima che agli altri. 

Questi sono solo aneddoti insignificanti. Il discorso è molto più complesso.

Provate a pensare a quello che maggiormente vi urta negli altri. Non è che la cosa vi urta perché non avete la soluzione? Mettiamo che abbiate a che fare con una persona pessimista, che si piange addosso. Se voi foste ottimisti la cosa vi farebbe sorridere e pensereste che magari il vostro ottimismo potrebbe essere fastidioso per quella persona, il che non vi pone in un piano di superiorità e che non c'è motivo per volerla cambiare. Vi sentireste appagati, vi piacereste così e pensereste che avete visioni di vita differenti. Ma alla fine, se l'altra si piange addosso a voi cosa cambia? Fate voi semplicemente quella che l'altra non vuole e migliorate la situazione, se siete coinvolti, oppure prendete le distanze. Nessuno ha il diritto di volere cambiare nessuno.

Ho notato invece, che spesso quelli che si prendono l'incarico di indottrinare e di migliorare la vita altrui, sono loro stessi a non avere la vita serena e vanno alla ricerca di persone con problemi per riordinarle. Invece quelle serene o appagate se ne stanno al loro posto a godersi quello che hanno e sono gli altri a cercarle, a chiedere consiglio e compagnia.

Per questo anche quando riceviamo critiche, e sappiamo più o meno inconsciamente che è vero o temiamo che lo sia, ci sentiamo urtati, perché viene toccata una corda scoperta, mentre quando siamo sicuri delle nostre capacità e dei nostri meriti, le stesse critiche ci scivolano, come se non fossero rivolte a noi ma a qualcun altro. Io per esempio, so di parlare perfettamente l'italiano e non mi urtano quando mi chiedono: "Capisci l'italiano?" o mi apostrofano in malo modo, per il mio nome e il mio aspetto, penso semplicemente che devono ancora conoscermi.

Si sono versati fiumi di inchiostro e spese ore e ore di studio su come ottenere e vincere nella vita, e tutti riportano ad uno stesso, unico concetto: 

Se non credi tu per prima in quello che vuoi e puoi, come puoi pensare che ci credano gli altri.
Se non sei felice tu per primo, come credi di trasmettere felicità agli altri.
Se non ti importa degli altri, come puoi pensare che agli altri importi di te.
Se non dai tu l'esempio per prima, come puoi pretendere che prendano seriamente in conto i tuoi consigli.
Se non ami, come puoi pensare che ti amino.
Se se marcio tu, vedrai negli altri il marcio.
Se sei ricco dentro, vedrai negli altri la ricchezza.
Se sei cattivo, crederai che tutti sono cattivi.
Se sei buono, crederai che tutti sono buoni.
Se sei entusiasta della vita, la vita ti sorprenderà.



Oggi mi sento serena. E questa sarà una giornata serena!


martedì 22 luglio 2014

Uomini e donne

Le bambine hanno i codini e le calzette rosse. I maschietti le ginocchia sbucciate e detestano le femmine.
Crescono e crescono e diventano donne su eleganti tacchi e uomini protettivi, che ora le femmine non detestano più.
Si incontrano, si innamorano e poi si sposano, e vissero felici e contenti.
Lui ogni mattina le porta la colazione, e lei ogni sera lo accoglie bella e con il sorriso, con la casa linda e la cena pronta, quando rincasa dal lavoro.
Ma non sempre funziona così, a volte le cose vanno storto.

Non è sempre vero che le bimbe avevano i codini e cercano il principe azzurro, non è sempre vero che gli uomini vogliono proteggerle. Non ci sono stereotipi, il bello del mondo è che è vario, variegato, variopinto. Ma a volte tutti questi colori e sapori finiscono per confondere le aspettative.

Peccato. 

Io da piccola ero la bimba con i codini e le calzette, ma avevo anche le ginocchia sbucciate ed odiavo le femminucce. Tutte troppo lagnose! Io partivo "all'avventura" in gonnella e nastri di raso che penzolavano allegramente, provati dalle mie scorribande. E mi piaceva stare con i maschietti, che prendevo a calci e strillate quando mi facevano arrabbiare, il che accadeva spesso.

Quando era la festa della donna mi era venuto in mente di scrivere un post sull'uomo e sulla donna, per poter dire che gli spogliarelli maschili sono comici e le tipe che vanno là a sbavare abbastanza ridicole.
Un anno mi ci portarono, e ricordo che rimasi sorpresa a vedere signore di mezza età, apprezzare sul serio muscolosi ventenni che si toglievano i vestiti per una folla femminile che gridava coinvolta. Io credevo che scherzassero, ma loro facevano veramente. Al momento mi misi a ridere, ma poi chiesi di andar via e per un po' pensai con tristezza alla tenerezza del principe che coccola e salva la principessa.

Sono cresciuta in mezzo a due culture opposte, e non mi riferisco a quella del mio paese di origine e quella del paese in cui vivo. Parlo dei miei stessi genitori, che sono agli antipodi delle idee e della visione della vita. E poi dicono: "Mogli e buoi dei paesi tuoi"... a volte vanno più d'accordo due menti di continenti diversi che persone cresciute nella stessa nazione.

Nella famiglia di mia madre, di stampo militare e occidentale, l'uomo è colui che cede il passo alla donna, le apre la portiera, la protegge e la venera come una regina. Mia madre era cresciuta con una cameriera e un autista personale per ogni componente. Le donne erano quelle colte e un po' altezzose, che non alzavano un dito, dovevano essere fini, pulite, vestite raffinate e tenute a conoscere e a praticare le regole del galateo e delle buone maniere.

Nella famiglia di mio padre, di stampo tradizionale e orientale, l'uomo è colui che prende le decisioni e comanda, la donna è il focolaio domestico che serve il marito e gli cede il passo, che ubbidisce docilmente. Dev'essere anche un po' meno colta per non correre il rischio di rispondergli, ed è tenuta a imparare i lavori domestici per fare bene la casalinga, la moglie e la madre. In casa di mio padre, gli uomini prendevano tutte le decisioni e studiavano. Le donne invece, non era necessario neppure che andassero a scuola: non serviva.

Questo è solo un esempio di pensieri opposti dei miei. Le loro teste si scontrano praticamente in tutti in campi, a parte la politica. Come mia madre e mio padre siano riusciti a sposarsi e a creare una famiglia è un gioco un po' sadico del destino. Noi figli avevamo due possibilità: soccombere nel nulla o sopravvivere nel tutto. In una prima fase della mia vita scelsi la prima possibilità, comportandomi nei fatti come un uomo che non ha bisogno di un altro uomo, ma fragile e insicura come una donna che non può essere donna, poi resuscitai e divenni il tutto, quando accettai la mia femminilità e intuii che anche se sembravano visioni opposte, potevano completarsi anzichè scontrarsi.

Se si prende il meglio da entrambe le culture e si scartano le cose peggiori, ne escono due immagini di un uomo e di una donna migliori. 

Io credo che se due persone si amano o almeno si piacciono, le cose vengono da se, non è che l'uomo serve una donna perché è il suo ruolo, ma perché le vuole bene e cerca di fare le cose per cui il suo fisico e la sua posizione possono fare per coccolarla e prendersi cura di lei. E non è che la donna serve l'uomo perché è il suo padrone e lei una schiava, ma perché gli vuole bene, e si prende cura di lui nelle attività femminili che le vengono spontanee, per ricambiarlo delle sue premure.

Chi comanda chi? Nessuno. Lo scopo di una relazione non è delimitare il potere, ma stare bene entrambi. Se una donna vuole ottenere qualcosa può ottenerlo facendo la donna, con la dolcezza che le è innata, più che mettendosi a fare l'uomo, e se l'uomo vuole ottenere qualcosa da una donna, lo può ottenere facendola sentire compresa e amata, anzichè esercitare il proprio potere.

Ed ecco le due culture andare a braccetto, con lui che apre la portiera e accudisce la donna, fine e femminile, e lei che si sente bene e fa riferimento a lui per le decisioni importanti, perché per lei è importante e forte.

Sono fermamente convinta di questo, è per questo che quando un chichessia pretende di darmi ordini e di fare il prepotente con me, senza che io gli abbia dato il permesso, e per lo più neppure fa il galante e si sbatte un po' per me, prendo il lato peggiore di entrambe le culture e devo rispondergli per le rime e prenderlo a calci. Ora che sono consapevole di aver elaborato in conflitti, conoscere le regole del bon ton e della dolce donna e fare tutto il contrario è assai divertente. Mi sembra di essere tornata bambina, quando maschi e femmine si detestavano e io strillavo e prendevo a calci tutti, salvo poi annoiarmi con le femmine e volere stare con i maschi.

Maschilista o femminista? Maschiaccio o femminuccia? 

Che bello oggi, a distanza di anni, non dover rinunciare a nulla: prendo tutto, sono tutto, decido io quando, come e con chi essere cosa. A volte mi sento libera e menefreghista come una gatta selvatica, a volte ho voglia di essere mite e di ubbidire le regole come un cucciolo in attesa del suo migliore amico.

Come cane e gatto. Come mamma e papà. Comincio a pensare che, nonostante tutto, dovrei ringraziarli per avermi cresciuta così confusa.


venerdì 11 luglio 2014

Poesia

Quando il fuoco brucia ed è in fiamme. Distrugge, io ora aspetto. Ho già distrutto. Credevo che aspettando però, si limitassero i danni. Ma mi accorgo che incendia dentro.
Fa male lo stesso.
Non ho idea. Vorrei essere acqua, ma allora la potenza del mio essere distruggerebbe gli argini e prenderebbe con se le persone per affogarle. Non volevo.
Vorrei essere aria, ed allora sarei un ciclone irato che spazza e solleva le case per scaraventarle contro il muro. Alberi e strade sradicate.
Vorrei essere terra, ma mi agiterei fino a sposatare le zolle ed inghiottire paesi e storie, e alla fine del terremoto, morte e disperazione, solo terra desolata da ricostruire.
Ti prego vieni a me piccola e dolce nenia. Prendimi per mano e aiutami, insegnami a dormire. Cullami in te e aspetta il mio sonno. Dimmi quelle parole. Non lasciarmi questa sera.
Rimani qui. Non ho paura quando ci sei.
Ora il fuoco è una gaia fiamma di candela che rischiara e crea ombre nella stanza, l'acqua il tintinnare della pioggia estiva che rinfresca l'aria.
La terra il nutrimento di quel vaso che da vita al fiorellino. L'aria, il tuo dolce canto, l'alito lieve che sento sulle mie gote.
Non andare via, rimani qui per sempre.


giovedì 10 luglio 2014

La felicità cos'è?

La vita è un concetto strano: si nasce e poi si muore. L’uomo ha da sempre cercato il senso in tutto ciò. Ha cercato di capire da dove proveniamo, dove finiremo quando moriremo, e perché alcuni nascono più fortunati e altri disgraziati. Sono nate le religioni nel tentativo di spiegare. C’è la scienza che ci riesce fino ad un certo punto. Ognuno di noi ha una vita, un dna genetico e un percorso che non sarà mai uguale a quello di nessun altro.
Siamo talmente unici e diversi che nessuno potrebbe insegnare nulla a nessuno, perché le esperienze di una persona non saranno mai identiche a quelle di qualcun altro, ma proprio perché diverse, possiamo arricchirci cogliendone le diversità, questo sì.
Ma c’è una cosa che ci accomuna tutti quanti: neonati, anziani, donne, uomini, bianchi o neri… noi cerchiamo la felicità.

Vorremmo stare bene, vorremmo stare meglio. Vorremmo essere sereni, vorremmo poter chiamare vita quella cosa che ci passa accanto giorno dopo giorno.

Ma la felicità cos’è? Tanti la cercano senza sapere cos’è.

Io non so cosa sia la felicità, non lo so. Di solito si pensa che se le cose andassero come vorremmo noi, allora saremo felici. Perciò se stiamo bene di salute, se siamo belli, ricchi, se abbiamo successo, amore, allora saremo felici. Se tutto gira per il verso giusto. Se non ci affatichiamo, se vinciamo. Allora saremo felici.
Però, c’è gente che ha tutte queste cose e non è felice, e chi non ha nulla e invece lo è.

Ma allora cos’è? Sono felice io? Non lo so. E’ una domanda difficile.

Da piccola non ero felice, non saprei dire esattamente il perché. Mi sembrava di guardare la vita e di non essere quella bambina che stava in quella casa, in quella famiglia. Io ero come un qualche adulto che precedentemente si era suicidato sotto un cielo nebuloso, in un giorno di disperazione, di solitudine e di pazzia, e che aveva poi scelto di tornare in quella specifica famiglia, con quelle persone, per apprendere le lezioni che mi ero rifiutato di affrontare ed imparare nel percorso precedente.

Dovevo apprendere il significato dell’essere diversi, il razzismo e l’emarginazione in prima persona. Dovevo convivere con persone disabili fisicamente e mentalmente, e superarne la vergogna. Dovevo capire, amare anche le loro difficoltà. Vivere con loro significava anche rinunciare a tante cose, dall’affetto ai beni materiali, al tempo. Dovevo imparare a cavarmela da sola presto.

Mi hanno raccontato delle ferite di guerra, dei bombardamenti e dei morti, dei cari persi e più visti. Dei cari dispersi senza averne più notizie. Delle malattie, dei coprifuoco. Sentivo queste storie come fossero vicende di un libro di storia inventato. Le sentivo mentre vivevo in questo paese ricco e civile. E le sentivo solo in famiglia, non c’era la maestra a scuola che mi confermasse e desse una realtà storica a quelle leggende.
E non so perché, nonostante i molti documentari, i molti film sull’argomento, non ho mai voluto guardare niente che ne parlasse. Non ho mai visto un film sul mio paese.

Lingua diversa, religione diversa, storia diversa. Faccia diversa. Cittadinanza diversa. Diritti diversi. Ecco.
Beh, non ero felice.

Ho sempre sentito come un vuoto da colmare. Con il cibo, con le mille cose da fare, con la presenza di persone, perché quando tutti andavano via e le luci si spegnevano su di me, ero al buio, ero dentro quel vuoto. Sentivo il vuoto così forte, come una sensazione di ansia, che qualunque stanza o spazio occupassi, dovevo riempirla di oggetti, e le pareti di quadri.

Quand’ero piccola non ero come ora. Ora cerco le luci e spalanco le finestre, ora sto bene anche con una parete bianca, ma ricordo chiaramente della mia antica fobia di serrare le ante, di assicurarmi che le porte fossero chiuse a chiave e che “gli altri” non potessero entrare. Avevo forse otto anni e temevo che entrasse qualcuno in casa. La mamma mi chiedeva sempre perché chiudessi tutte le ante, quando lei le voleva aperte.

Per anni il mio incubo era di scappare da qualcuno e di chiudermi in qualche stanza, per proteggermi. Io cercavo di girare la chiave nella toppa, poi tiravo giù la maniglia della porta per assicurarmi che fosse chiusa, e invece era aperta, e rimaneva ostinatamente aperta anche se continuavo a girare la chiave. E il pericolo si avvicinava, sempre di più. Dovevo proteggermi. Ma non ce la facevo. Nel sonno gridavo dalla paura.

Quando mi svegliavo, ero sola e sudata nella stanza buia. A volte scendevo per controllare che avessero chiuso bene la porta dell’entrata. Qualche volta osservavo il cielo di notte e mi rendevo conto di essere nel mondo reale, questo mi calmava. Da grande imparai a chiudermi a chiave in camera per andare a dormire.

Da piccola credevo che i legami e gli affetti, le amicizie fossero per sempre. Ma non era così. Non volevo che mi abbandonassero, ma fui quasi sempre io ad interrompere le amicizie. Io ho abbandonato i posti di lavoro, io ho abbandonato le amicizie, io sono quella che comincia qualcosa e poi l’abbandona. Io faccio agli altri quello che da piccola maggiormente mi feriva e non volevo che facessero a me.

Ho cercato tanto di capire che cos’è la felicità, del perché sono io, con quest’anima, in questo corpo, in questa famiglia, in questa provincia, in questa nazione, in questa storia.
Ho capito una cosa. Io sono felice quando posso essere me stessa.

La felicità è poter essere se stessi.

Sono me stessa quando amo una persona e posso dirglielo ed abbracciarla forte. Sono me stessa quando posso piangere o ridere senza dover spiegare cose che non mi vanno, quando non devo giustificarmi.
Sono me stessa quando non mi importa di quello che la gente pensa di me, quando mi vesto come piace a me, quando le cose che dico sono le stesse che penso. Quando non devo dire bugie, quando non devo soffocare le emozioni e i desideri. Quando le persone che amo mi amano. 
Quando la parete della stanza ha solo appesa quella vecchia chitarra che mio padre acquistò col suo primo stipendio in Italia, perché gli mancava tanto di suonare. E mia madre non disse nulla, anche se impiegò quasi tutti i soldi per l’acquisto ed eravamo in cinque, noi fratelli tutti piccolini, con tutto un mese davanti, con solo il suo stipendio e con tutto ancora da ricostruire.

Sono me stessa quando faccio quello che mi piace, quando suono e quando posso chiamare “casa” l’ambiente in cui ritorno ogni sera. Che sia grande o piccola, semplice o sfarzosa. In città o in paese. Non importa. La casa è quel posto che deve permetterti di essere te stesso quando torni, perché fuori non sempre la vita te lo permette. Ma dentro le tue mura sì. Quando torni puoi essere triste, puoi essere bambino, puoi gridare o fare le cose che ti piacciono, e c’è qualcuno che ti ascolta e che ti capisce. Perché ti ama. E’ l’amore che vuole che tu sia te stesso e nessun altro.

La felicità sarà questa?

Sono passati tanti anni dalle mie paure. A volte mi sembra che non passino mai, che il tempo sia solo una scusa e che oggi come allora, quelli che mi inseguivano tornino a cercarmi a quella porta che non riesco a chiudere. A volte ho come la sensazione che fuori ci sia lei, la piccola Thasala. Oggi è lei che bussa, ed io disperata, continuo a girare la chiave nella toppa, non la voglio fare entrare nella mia vita. Piccola, scura, insolente e sgraziata. Cattiva e brutta come quelli del popolo straniero.

Poi sento il vento freddo alla mia destra e il rumore della pioggia. Guardo la finestra spalancata che mi inonda di luce, osservo le pareti bianche e seminude di questa stanza, non ho fretta di riempirle, o forse non le riempirò.


Non so niente, e non conosco le risposte, sono troppo piccola in questa immensa vita che mi chiama, ma prometto che questa volta rimarrò, imparerò, lotterò, amerò. Non me ne andrò prima del tempo.



mercoledì 9 luglio 2014

Luna rossa, Fiume di ghiaccio

Ho sempre avuto un debole per i numeri. Mia madre diceva invece che lei era portata per le materie umanistiche, ma negata per quelle matematiche, ed io essendo sua figlia e portata per le materie umanistiche, come lei, secondo la logica dell'ereditarietà, dovevo essere anch'io negata in matematica.
Attenzione a quello che inculcate ad un bambino non ancora formato, perché finisce per crederci.

Invece io ho chiaro dei momenti legati alle elementari, ricordo che mi piaceva, che riuscivo a risolvere dei problemi di matematica ragionandoci su, ancora prima che la maestra arrivasse a spiegare come fare. Ci arrivavo anche prima di tutti gli altri compagni di classe riconosciuti come "secchioni" (io invece ero definita "lazzarona").

Non credo di essere negata per i numeri come dice lei, dopotutto sono anche figlia di mio padre, e lui con i numeri e la matematica ci lavora. Riconosco invece che tendevo un po' a sognare ad occhi aperti e che faticavo a concentrarmi a lungo termine, ragione per cui spesso sbagliavo i calcoli a causa delle molte distrazioni. Per esempio, scordavo di ricopiare dei zeri, quando erano tanti ne tralasciavo qualcuno, spostavo le virgole, non vedevo i numeri riportati, confondevo il 6 con il 9 e viceversa, perché alla fine sono la stessa cifra, solo scritti capovolti... ma i concetti li capivo.

Preferisco inventare e creare, però i numeri mi piacciono. La musica si basa sui numeri. I miei giochi preferiti richiedono calcoli, previsioni e collocazioni di cifre e numeri e adoro i quiz di logica con le successioni numeriche da completare.

Ricordo le date di compleanno come ordine di numeri. Per esempio, mi è più facile ricordare una data pensandola come 09/07, che 9 luglio, e ho sempre memorizzato facilmente i numeri di telefono.

Perciò quando scrissi Luna di ghiaccio, non scelsi delle date a caso. Volevo il 9 luglio e il 26 novembre. Ma doveva essere un gioco di scatole cinesi, una presa in giro, un numero di prestigio da spiegare al momento giusto.

Decisi per Mistral, la ragazzina del regno di notte, dove il sole e la gioia non arrivano mai, il 7 novembre, e per Sophie Flare, il paese di fuoco, senza buio e senza mai sogni,  il 26 settembre. Mi piacciono questi nomi perché Mistral é il vento maestrale che proviene da nord-ovest, e Flare un'abitante del regno dei ghiacci in una storia della mia infanzia.

Novembre è il mese numero 11 dell'anno, e contiene nella parola il numero scritto nove. Settembre è invece il nono mese dell'anno, e contiene nella parola il numero scritto sette

Nella prima data ho invertito il mese e il giorno, perché 9 doveva essere il giorno e 7 il mese, ma ho mantenuto palese novembre, nella seconda data ho mantenuto il giorno 26, ma ho nascosto le cifre 9 e 7 nel mese di settembre, in una sorta di gioco labirintico a specchi, come Mistral, intrappolata nel sogno di Flare, che non aspetta una stella qualsiasi, percepisce che nel suo regno manca una stella specifica, manca il sole del regno di Flare: "Sono qui sui gradini della scuola e aspetto La stella. Ma sono ancora le stesse stelle blu lontane e non trovo lei. Nessuno sembra accorgersi che manca una stella nel cielo (...) Sento il vento... qui non è normale. Non sono sicura che questa sia la realtà, forse sto ancora dormendo. Sono ancora intrappolata." 

Come Flare, intrappolata nella palla di fuoco nell'isola del Fiume Rosso che vede riflesso nelle acque Mistral, e la sente soffiare, chiamare da lontano: "Credevo, sentivo il vento del nord provenire da ovest, al di là di questi confini come in un sonno". Come in un sonno, in un sogno di Mistral.

Ora è tutto chiaramente labirintico e voi credete di aver capito tutto, ma io da questa parte sto sorridendo perché ci ho piazzato altri segni nascosti e non li rivelo, anzi concludo perché, come scriveva Michael Ende, che nel suo cognome conteneva la parola End: "Questa è un'altra storia", e lui finì scrivendo: "La storia infinita".





Ingranaggio

Ninna nanna ninna ninna oh.
Luna d'argento bimba di seta, stretta morsa aria respiro ossigeno.

Freddo tuffo rigenera testa spegne.
Ciclico ciclico cerca soluzione bimba. Via da tutti.
...

E Ora?



martedì 8 luglio 2014

Stellina

Il sogno, vola, è di polveri lucenti e profumate. Tintinnano ridenti e si spargono su nel cielo. Mi piacciono perché hanno voci di bimbi monelli e di storie floreali. E sono tanti granelli dorati che vanno su e ancora su. Li seguo con lo sguardo fino a quando si fissano sullo sfondo blu e mi salutano dal cielo.

Non riesco più a toccarle. Sono diventate stelle.

Mi batte forte il cuore. Granelli di luce sul mio corpo, fra i capelli, dentro di me, vorrei stringere ciò che non si può stringere. Mi inginocchio ad un volere più grande di me. Una fitta, un crampo, e scivola via, non l'ho mai potuto trattenere.

Ventre di vita.
E' un senso unico. Come faccio.

E' buio se metto le mani sulle orecchie. E' vuoto se mi stringo e ascolto. E' silenzio se trattengo il respiro. Chiudo gli occhi e fluttuo nel vuoto. 

Ero polvere monella di granella che scherzava lucente, poi mi chiamarono e scesi qui. Ma prima di andar via mi scordai di dirti, che vorrei rivederti. 
Non scordarti di me. Ti aspetto, piccolina.