Brescia, 10 marzo 2013
E’ notte fonda mentre percorro le strade del centro: le vie sono ancora bagnate dalla pioggia di qualche ora fa. Gente nottambula che va e viene e magari per un secondo i nostri sguardi si incrociano per poi proseguire ognuno per la propria strada.
E’ notte fonda mentre percorro le strade del centro: le vie sono ancora bagnate dalla pioggia di qualche ora fa. Gente nottambula che va e viene e magari per un secondo i nostri sguardi si incrociano per poi proseguire ognuno per la propria strada.

E’ tanto tempo che non vengo in centro, mi sorprendo di come le cose cambino, di come i negozi aprano e chiudano nel giro di pochi mesi. Non era così tanti anni fa. Poi mi fermo davanti ad ampie vetrine familiari con scritte cubitali “AFFITTASI”. E la tristezza mi assale. Nella mia mente.
Ricordi e voci del passato legati a luoghi che ora non ci sono più. Tutto è cambiato, anch’io lo sono. Io che sono sempre stata per il progresso, che non mi spiego questo turbine di nostalgie e di volti del passato che ora tornano a galla davanti ad un cartello bianco in una vetrina oramai spenta.
"Qui ci venivo a mangiare con la mia migliore amica di quando avevo sedici anni. Eravamo entrambe squattrinate, ma suo padre ci dava i buoni pasto del lavoro e ci sentivamo molto grandi ad uscire la sera e poi cenare in centro. Sceglievamo i posti più economici, ma per noi era come se fossimo in un ristorante, e invece era un self-service…”
E' la mia mente che mi sussurra.
Anni Novanta.
Ero un topo di campagna trapiantata in una grande città. Le strade erano costeggiate di case ed edifici e le macchine scorrevano velocemente, sorpassandosi e strombazzando facendosi largo fra pullman, pulmini, macchine della polizia, ambulanze, pedoni, ciclisti, motorini, auto e furgoni parcheggiati sui marciapiedi e sulle piste ciclabili: tutto in un unico caos condito da lampioni e negozi sempre illuminati e notti mai veramente buie e silenziose.
Abitavamo appena fuori dal centro storico, sulla via principale per l’ospedale dove sentivamo l’ambulanza a tutte le ore del giorno. Io e mia sorella imparammo presto ad arrangiarci e a conoscere a memoria tutti gli orari e le fermate dei pulmini, tutte le vie e i bar. Eravamo in grado di spostarci da sole senza aver bisogno dei nostri genitori ed eravamo orgogliose di essere così ben informate e tanto cittadine.
A quei tempi frequentavo un istituto di sole ragazze al mattino in cui si studiava arte e moda, e al pomeriggio una scuola mista che formava musicisti. Passavo dalla scuola del mattino a quella del pomeriggio senza tornare a casa a pranzare: per tutta la settimana uscivo di casa alle sette e mezza del mattino per tornarvi dieci o dodici ore dopo.
Avevo sempre fame, con poche lire in tasca e riuscivo rare volte a consumare un pranzo completo. Forse anche per questo, da adolescente la mia vera ossessione era il cibo: io pensavo sempre a quello. Facevo periodi di digiuno ferreo in cui non mi reggevo in piedi alternati a quelli di grande abbuffate e, in tutto questo casino alimentare, ero ossessionata dal peso che non volevo superasse i quaranta chilogrammi.
Avevo preso l'insana abitudine di passare al supermercato sotterraneo che c’era in piazza per comprarmi le palle di lattuga, che poi mangiavo staccando le foglie e lavandole sotto la fontana zampillante davanti alla scuola, prima di entrare a studiare musica. Non esistevano ancora le buste pronte, la gente si lavava l’insalata da sé.
“Sei pazza” mi dicevano i miei compagni di classe. E la gente si girava a guardare quella strana ragazza con in grembo una palla verde, seduta sul bordo della fontana, che pranzava con le foglie come se fossero state patatine.
Allora mi dicevano che ero indecente anche per il mio istinto primario di dire le cose che pensavo e non quello che la gente voleva sentirsi dire, attirandomi grandi antipatie, perché mangiavo tutto quello che mi pareva in strada o alle fermate dell’autobus, perché mi vestivo in modo bizzarro.
“Ma non ti vergogni?”
Sono passati tanti anni da allora.
Passo davanti alle fontane. Ora sono spente e l’acqua stantia è scura sullo fondo. Non sento più la musica dell’acqua che scorre. Ascolto questo silenzio.
“Oramai le tengono sempre spente. C’è crisi, bisogna risparmiare su tutto. Ora nessun’altra ragazza pazza o indecente può più venire qui a bere, a rinfrescarsi in estate o… a mangiare palle di lattuga”.
Mi stringo nella mia giacca e mi dirigo sotto i portici per ripararmi dal vento. Questa sera fa freddo. Davanti al Teatro Grande, un cartellone riporta tutte le date della stagione lirica e concertistica e mi soffermo a leggere, in cerca di qualcosa che possa interessarmi.
Mi stacco per proseguire il mio cammino, ma qualcuno mi dice:
“Cos’è quello? Cosa suoni?”
Mi volto a guardare le scalinate all’ingresso del teatro ma non c’è nessuno.
Nessuno mi parla, sono sola in questa notte. E’ la mia mente che mi perseguita, e sono ancora ricordi, solo ricordi.
Una volta, su questi gradini c’erano tanti ragazzi con dei cani, che si trovavano per chiacchierare e osservare i passanti. Erano mal visti dal buon costume e considerati giovani debosciati, senza speranze, senza futuro, senza rispetto, senza istruzione, senza famiglia. Se ti soffermavi a parlare con loro o peggio li conoscevi, eri una cattiva ragazza dalle brutte compagnie. Ma io so che a loro modo avevano dei sogni e dei progetti.
“Cos’è quello? Cosa suoni?” mi chiese una voce fra tanti.
Guardai verso quella direzione e risposi al ragazzo:
“Un sax”.
Osservai alcune ragazze con le calze a rete e i collant neri strappati e gli anfibi, il trucco pesante, la pelle sbiancata e gli occhi cerchiati di nero. I capelli unti e spettinati.
Lui si illuminò tutto:
“Davvero? Ci fai sentire? Sei capace?”.
Esitai qualche istante, ma poi decisi di fare sentire.
“Ragazzi, ragazzi, fate largo alla musicista!” disse il ragazzo.
Furono gentili con me. Quel pomeriggio mi ritrovai in mezzo a loro a chiacchierare del più e del meno. Fumavano come ciminiere, mi dicevano che volevano andare a Bologna perché “Qui fa schifo”.
Alcuni vivevano lontano da casa in luoghi di comunità ed altri seguivano una particolare filosofia in cui la regola era il rifiuto di tutto ciò che non fosse natura: dai cibi, alla tecnologia, addirittura non si lavavano con acqua e sapone e sotto la doccia, perché secondo il loro punto di vista in natura gli animali non lo facevano.
In tanti avevano litigato con la propria famiglia e non volevano tornare. Altri erano semplicemente dei ragazzi della buona borghesia che andavano a scuola al mattino, e che non avevano meglio da fare che passare il pomeriggio sulle scalinate del teatro per avere un po’ di compagnia.
Suonai ancora qualcosa, ma proprio in quel momento passò il mio insegnante di musica che mi disse:
“Guarda che non li fai i soldi a suonare qui”.
Così dopo qualche minuto li salutai e ripresi la mia strada.
“Tu, quando vuoi, puoi sempre tornare qui da noi” mi disse il ragazzo.
Fisso i bianchi gradini vuoti e l’imponente portone scuro del teatro: questa sera è chiuso perché non ci sono eventi in programma.
Non c’è più nessuno, da anni il comune ha dato il divieto di sedersi ed occupare l’entrata per una questione di decoro pubblico.
“Mi dispiace”.
Mi dispiace perché dopo quella volta li ignorai. Ero ancora troppo fragile per sapere prendere una posizione convinta, senza starci male, la gente già rideva di me per i miei vestiti inusuali che disegnavo e mi creavo da sola, per la mia poca disciplina e per la mia incapacità di stare al mio posto, tutte cose gravi in un ambiente accademico. Se mi avessero vista pure là chissà che casini avrei avuto.
“Mi dispiace”.
Mi dispiace perché mi ero trovata bene quel pomeriggio ed erano stati simpatici con me. Non si meritavano il mio voltafaccia. Chissà dov’è finito quel ragazzo, se ha realizzato qualche suo progetto o ha fatto pace con i suoi. Chissà dove sono tutti.
“Mi dispiace” .
Perché ora me ne fregherei del giudizio altrui e li terrei come amici, li saluterei, ma ora non c’è più nessuno.
Non c’è più nulla di quel passato e mi dispiace.
Cammino ancora e mi ricordo di quando da piccola, sotto questi portici, osservavo rapita i pittori e gli artisti che con i gessetti ricreavano famose opere d’arte e la gente passava e lasciava qualche moneta. Solo pochi spiccioli per dei così grandi talenti.
Nella mia ingenuità di allora, sognavo un giorno di scappare di casa e di mantenermi da vivere dipingendo anch’io per le strade come facevano loro.
Mentre ricordo, penso che i bambini di ora non possono più soffermarsi incantati ad osservare gli artisti di strada. Non possono perché il comune ha vietato di “imbrattare” le strade per “decoro pubblico”. Lo ha vietato e nessuno osa più fermarsi a disegnare o a suonare, lo ha vietato però non fa nulla quando la gente butta cartacce e rifiuti in giro anziché nei cestini.
Quante cose sono cambiate in questa città, da quando lasciai Fog City e venni a viverci!
Mentre passo davanti al cinema di fronte ai portici, mi viene in mente che una volta, in città, ce n’erano quattro o cinque, o forse più, che trasmettevano pellicole diverse nella stessa serata.
Si cenava al ristorante e poi a piedi si andava a vedere il film.
Negli anni Novanta aprirono il primo multisala e i botteghini in centro chiusero uno alla volta, non reggendo la concorrenza. Anche i piccoli negozi, al sorgere dei nuovi centri commerciali, non sopravvissero e fallirono.
Anni Novanta.
“Ho dei buoni pasto che mi ha dato papà! Glieli danno sul lavoro ma lui non li usa tutti e li ha regalati a noi. Stasera usciamo a cena. Andiamo al ristorante!” gridò Alessia sventolando i biglietti. “E ne ho un po’, possiamo permetterci il primo, il secondo, il contorno, il dolce, il caffè! Come quelli che lavorano!”
Sedici anni e la convinzione di potere tutto nella vita, ma non ero che una pedina in mano agli adulti.
Qualcuno un anno dopo mi avrebbe detto: “Hai diciassette anni? Diciassette anni buttati via al vento”.
Un giorno sarei diventata più forte.
Non so dove sia Alessia, mi pare sia andata lontano e stia inseguendo la sua carriera di attrice.
Ecco, hanno pure chiuso questo self service in piazza e ora non c’è più nulla. Sono qui davanti col naso in aria, poi mi ricordo che la vita va avanti.
Io sono per il progresso, odio i rimpianti e le nostalgie, le cose vecchie. Qualche giorno fa in questa città hanno inaugurato la metropolitana, ne sono sempre stata favorevole, così come ho sempre approvato l’apertura dei nuovi centri commerciali perché sono comodi e creano nuovi posti di lavoro.
Mi incammino verso casa.
E’ notte fonda mentre percorro le strade del centro: le vie sono ancora bagnate dalla pioggia di qualche ora fa. Gente nottambula che va e viene e magari per un secondo i nostri sguardi si incrociano per poi proseguire ognuno per la propria strada.
Ma questa notte mi sento un po’ triste.
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