giovedì 22 dicembre 2016

Il lavoro

A volte mi stupisco di come il mondo sia vario e strano: oggi rifletto sulle persone che vivono il lavoro come se gli fosse cucito addosso. Si arrabbiano e stanno male per qualsiasi cosa, come se ogni iniziativa o opinione e battuta fosse rivolta a loro. Un esempio? Maestre che credono che le professoresse li considerino inferiori, commesse che si attaccano fra di loro, colleghi in generale che sparlano. Donne e uomini che accantonano famiglie e amicizie per la carriera (ho parlato di carriera, non di soldi). Persone che si ammazzano per mantenere un ruolo di prestigio che magari non gli piace.
Ma il lavoro non è quella cosa pallosa e obbligata, da cui non ci si può sottrarre e bisogna farlo per un certo numero di ore al giorno per avere i soldi, che ti fanno comprare da mangiare e fare un sacco di cose interessanti?
E' una cosa dovuta così noiosa, che per lo meno, se ci si diverte con gli altri simili, si passa il momento giornaliero in maniera meno pesante, penso io. Cosa me ne frega di competere ed arrivare ai vertici per la gloria? Mica mi diverto a stare lì in cima, a litigare, a pensare. Lo faccio solo perché mi pagano, ma se mi diverto meglio...
E' molto meglio andare a dormire senza responsabilità e preoccupazioni, andare alla Spa con un'amica, prendere la macchina e guidare fino al mare, passeggiare o bighellonare in bicicletta. Prendere una cioccolata al bar o un gelato e stendersi sotto le stelle in un parco. Leggere un libro, indossare tanti bei vestiti e fare l'amore o suonare un valzer.

Poi mica il lavoro ti identifica. Io ero operaia, commessa, telefonista, baby-sitter, intervistatrice, segretaria, maestra, professoressa, barista, cameriera, impiegata, musicista. A volte più cose assieme.
Alla domanda: "Che lavoro fai?" rispondo: "Adesso faccio...". Non ho mai risposto: "Sono". Perché io non sono quel lavoro, lo faccio. Si diventa competenti per un certo tipo di impiego, ma non è che si rimane a vita in quel ruolo. Ogni volta mi toglievogli abiti del momento e da nuda rimanevo di nuovo io.

Poi nel mio piccolo non volevo neppure fare l'insegnante. Volevo fare qualcosa per cui tutti dicessero: "Oooh! Com'è bella! Che bel vestito!" il che comprendeva un sacco di attività e nulla. 
Siccome non so ancora cosa voglio fare, cerco i vestiti carini e mi diverto a suonare e a farlo fare agli altri.
Il lavoro di "profe" tutto sommato non è male: poche ore, vacanze lunghe. Si strimpella con i ragazzini per tutto il tempo. Si possono mettere dei bei abitini e delle graziose gonnelline.

Fra qualche ora sarò pure una "profe" in vacanza. Qui chi finisce prima se ne sta andando col sorriso largo e un sacco di: "Buone feste! Buon Natale! Buon anno!" e baci e abbracci.

Io per due settimane smetterò di fare la profe e mi metterò a fare la musicante, soffierò nel mio magico piffero-sax-clarinetto riflettendo sulle strane persone che mi circondano e magari riuscirò ad imparare quel bel brano al pianoforte che parla di un ragazzo che chiede in prestito la scala per raggiungere la luna. 

Che lavoro fai? Mi chiederanno, e dirò: "La pifferaia. per ora. Adesso vado a cercarmi una camicia in seta che mi accarezzi la pelle e non mi pizzichi come fa la lana. Ma poi dovrò tornare a scuola". 

La vita è una camicia di seta.


domenica 18 dicembre 2016

La scuola

Quand'ero piccola avevo la convinzione che i vestiti "moderni" fossero osceni (non a torto, sono cresciuta negli anni Ottanta) e che la mia epoca ideale in fatto di moda fosse l'Ottocento, con tutte quelle gonne, strati, trine, merletti, nastri e corsetti femminili.

Poi ad un certo punto ho iniziato pure a pensare che la scuola fosse inutile, ma non capivo il perché, visto che è il luogo dove si imparano le cose. Oggi mi si è chiarito un pensiero e ora comprendo il mio scetticismo nei confronti della scuola: io sono nata nell'epoca sbagliata e, se si potesse, ritornerei ai tempi dell'istitutrice privata a domicilio, delle lezioni di musica e dell'insegnante che veniva a controllare il linguaggio e le buone maniere a tavola. Dell'istruzione fatta di biblioteche in casa, teatri e concerti la sera. Certo, così si cresce un po' asociali, ma di fatto lo sono, e non dover interagire con persone che non hanno voglia di istruirsi e mi fanno perdere tempo sarebbe paradisiaco.

Secondo me la scuola necessita di così tante ore di presenza, perché per insegnare tutto il programma a così tante persone con un solo docente, ce n'è bisogno. Invece se si avesse il professore tutto per sè si farebbe molto più velocemente e si potrebbe dedicare del tempo perso in classe per fare cose più interessanti, come giocare o viaggiare, che farebbe imparare la geografia in maniera più interessante, oltretutto. Infatti, quando a scuola non si sta al passo, il genitore sovente assume un insegnante a domicilio che faccia recuperare, ciò che faceva quindi in passato l'istitutore.

Un altro vantaggio è che se a scuola un professore non ti piace te lo devi tenere, rischiando così di reprimere veri talenti e sviluppi, mentre uno privato lo puoi scegliere. Pure il testo scolastico bisogna farsi andare bene.
Non abolirei la scuola, è più economica ed è un diritto per tutti, e poi certi genitori hanno bisogno di "parcheggiare" i ragazzi da qualche parte, solo non capisco perché sia obbligatorio frequentarla. Non si potrebbe solo imporre l'obbligo di avere un minimo di titolo di studio, un esame annuale comune che ne attesti il livello d'istruzione? L'importante è il risultato, no?

Invece una volta ho letto su un giornale di una coppia che aveva scelto di istruire i figli in casa senza mandarli a scuola. Si trattava di un docente universitario e di un'insegnante, insomma non proprio gli ultimi arrivati... Questi bambini imparavano tutto il programma scolastico e facevano un sacco di attività e vita sociale, come sport e musica, giocavano con i loro coetanei nelle ore di svago e avevano comunque amici. 
Tale scelta era criticata da tantissime persone. 

Io sono entro certi limiti per il "vivere e lascia vivere" e secondo me, dovrebbe essere una buona alternativa. Come il fatto di scegliere fra scuola privata e scuola statale, oppure serale, si dovrebbe pure mettere l'opzione dell'istruzione "self-service". Ma con l'obbligo appunto dell'esame statale uguale per tutti a giugno, per avere il titolo di studio.
Sono troppo avanti io, o non so stare al passo con i tempi?

Ho parlato con un'allieva indiana che mi ha raccontato che al suo paese si fanno tutte le materie tutti i giorni, con scuole di nove ore al giorno (ma ogni "ora" è di circa mezz'ora), diversamente che qui in Italia, dove si è ritrovata materie di due o tre ore a settimana in un'unica volta, e poi più nulla per sei giorni.
Non so quale sia il metodo migliore, ma questo mi fa riflettere: l'apprendimento è diverso per ciascuno. 
Per sempio: io quando mi sveglio alle sette e alle otto e devo ficcarmi in testa tanto rumore, tante informazioni e reagire, rendo molto di meno, invece alle nove o alle dieci recepisco ed inizio a parlare. Ad un orario in cui gli altri hanno bisogno di staccare, io mi sono appena svegliata mentalmente e riesco ancora a studiare e sono pure più comunicativa. Perciò, se dovessi assumere un istitutore, lo farei venire dopo le dieci del mattino. Se lo scopo della giornata è di assimilare regole grammaticali o formule matematiche, non è necessario costringersi a farlo alle otto.

La scuola non appiattisce, in questo senso, tutti quanti? Per giustificare ciò, mi veniva detto che nella società si convive e si impara anche da questo, ma io non ne vedo l'utilità e soprattutto osservo che non è affatto così: non tutti i lavori iniziano e finiscono ad una certa ora. C'è chi lavora la sera, la domenica, chi preferisce in determinati giorni, chi la notte, chi al mattino... mi pare che ci sia molta più richiesta di varietà che di uguaglianza. Se svegliarsi e andare a dormire presto fosse l'unica cosa giusta universalmente e se tutti fossimo uguali, chi farebbe il medico e l'infermiere di notte, il sabato e la domenica? Chi farebbe la parrucchiera e l'estetista dopo l'orario d'ufficio? Chi suonerebbe per intrattenere il pubblico la sera, per poi andare a dormire a notte fonda?

Vedendo inoltre con i miei stessi occhi realtà di maleducazione, bullismo, lo stato che lascia per mesi intere classi senza docenti, che magari arrivano solo a dicembre ad insegnare la loro materia, le tante inutili ore buche, i compagni prevaricatori, il disagio, i diversi ragazzini intimiditi chiusi in sè stessi che vorrebbero dirti qualcosa ma non ne hanno il coraggio e tu che non puoi rimanere a lungo per indagare perché devi correre in un'altra classe... Non sono sicura che tutto quello che sia stato evoluzione lo sia per davvero.
Ma, essendoci dentro, sia in questa istituzione che in questo secolo e millennio, proverò a fare del mio meglio.



giovedì 15 dicembre 2016

Sott'acqua

Morgan fluttua sotto l'acqua fingendo di essere morta, ma per riuscirci deve usare una mascherina speciale, che le consente di respirare, perché è una creatura di terra e non un pesce, e necessita di ossigeno per vivere. L'acqua non è profonda e la temperatura sembra piacevole.
La gente la cerca e si domanda dov'è, ma lei da sotto vede, sente, ascolta, si nasconde e rimane in silenzio. 


***


C'è una stanza. Una stanza con un divano, sembra un arredamento di buon gusto e costoso, anche se c'è solo quel divano. La stanza ha quattro pareti, una delle quali non è del colore giusto. Ha colori sul rosa, rosso e nero ma non dovrebbe essere così... dovrebbe essere in tinta unita e sul panna o tortora. Lei dipinge e cerca di coprire, ma non trova la vernice giusta, la tonalità che vorrebbe. E' così difficile.


***

- Lui non te lo dice, ma non stanno così le cose. Lui non è felice e le cose non vanno bene.
Anche se non lo spiego esplicitamente, intuisce e capisce al volo la situazione, che è così sospetta, anzi, palese.
- Mi dispiace per lui - risponde. Forse le dispiace anche per me. Mi è simpatica.
Andiamo a trovarla e sembra meno sgradevole di quel che credevo. Ci sono tutti. La madre alta. strane persone. Anzi no, mancano Lui e il primo.
Ma io che ci faccio con queste due donne?



mercoledì 14 dicembre 2016

Sono bilingue

Siamo in una generazione multietnica e, da quando faccio la professoressa, ho spesso a che fare con il dilemma della lingua. Ascolto vari dibattiti fra docenti contrari al fatto che questi bimbi stranieri non parlino l'italiano in casa, ho ascoltato l'esempio di un'insegnante, che riteneva negativo che un bimbo di tre anni parlasse metà italiano e metà nella sua lingua in una stessa frase, che "facesse confusione".
Temono che non possano mai più apprendere nulla a scuola.

Essendo io bilingue ed avendo vissuto in prima persona questo processo, ci tengo a scrivere qui la mia idea a riguardo: i bambini stranieri non devono parlare italiano in casa! Per tante ragioni che elenco in ordine di ciò che mi viene in mente per prima e non di importanza:

1- Provate voi, genitori stranieri, adulti, ad arrivare in un paese sconosciuto, ed essere obbligati ad esprimervi con i propri figli in una lingua innaturale e difficile: si perde la vera comunicazione, fatta di parole e sfumature che solo la lingua madre può trasmettere. Si rischia di comunicare le informazioni base e non di chiacchierare ed ascoltare veramente i figli, e viceversa.
Per semplificare l'idea: provate a costringere un bresciano doc a parlare solo in italiano e non una parola di dialetto in famiglia!

2- Questi genitori stranieri, arrivati a circa trent'anni in Italia, non parleranno mai perfettamente l'italiano e parlandolo con i figli, trasmetterebbero una grammatica scorretta. L'italiano è una lingua difficile ed è meglio che un bambino lo impari a scuola da professori italiani. Dai genitori imparerà invece a parlare correttamente la sua lingua natìa.

3- E' perfettamente normale che fino ad una certa età un bambino mescoli le lingue che sente e, in una frase, dica i primi vocaboli che gli vengono in mente. Lo facevo pure io con i miei e con le maestre. Ebbene sì: ero la bambina straniera che parlava un po' in italiano e un po' in vietnamita, e le maestre non capivano. Anche mia madre a volte corrugava la fronte nello sforzo di indovinare cosa volesse dire quella parola italiana inserita nel discorso, quando la capiva, me la insegnava in vietnamita. Crescendo, si impara a distinguere quando usare un certo gruppo di suoni e a raggrupparli, delineando così le due diverse lingue.

4- Non si vivono traumi a convivere con persone che parlano più lingue: a me dispiace essere solo bilingue e non multilingue: secondo me quando si è piccoli si assimila tutto facilmente senza fare domande. Non ho mai sofferto di problemi di comunicazione.

Detto ciò, credo che, piuttosto che consigliare ai genitori di sforzarsi di parlare in italiano (voi lo fareste al loro posto?), sia più proficuo suggerire attività pomeridiane, come sport o corsi musicali, di modo da creare situazioni di dialogo con italiani al di fuori della scuola, oltre che coltivare passioni. E soprattutto: libri!
Leggere è il modo migliore per imparare una lingua correttamente, perché il linguaggio parlato, prendo come esempio il bresciano, è spaventosamente sgrammaticato... 

Mi ricordo ancora oggi tutti i miei venerdì, alle elementari e alle medie, quando mia madre ci portava in biblioteca: era un appuntamento fisso. Si potevano prendere due libri per volta; per me era come se ci portasse a vedere un film al cinema... insomma, il concetto era quello: storie nuove, personaggi nuovi, paesaggi nuovi, con la differenza che qui dovevo immaginarmeli io e c'era perciò più libertà.

Non sceglievo a caso: spesso cercavo "il libro intero" di qualche estratto che avevo sull'antologia a scuola. Poi quando mi piaceva un autore, mi prefissavo di leggere tutti i suoi romanzi. 

Integrazione vuol dire altro, non questo. Io che sono a favore di "vivere secondo le regole del paese che ci ospita", ritengo però che non vadano fatte violenze sulla lingua e sulla religione, cercando di convertire e imponendo una strada, e questo vale da entrambe le parti. Queste sono proprio le cose su cui è bello arricchirsi e saperne di più.