mercoledì 2 gennaio 2019

Blog 2019 #1

A Fog City ci si annoiava, le distese bianche di brina e sporche di fango avvolgevano gli orizzonti, quando la nebbia lo permetteva. Certo che eravamo in tanti, ma gli anni di differenza fra me e i miei fratelli mi facevano sentire più sola ed "in fila di attesa" che in compagnia. Non c'era molto da fare e i compiti a scuola evitavo allegramente di farli: fu in quel periodo della mia vita che i pensieri, le fantasie e le emozioni iniziarono ad incanalarsi nei linguaggi più facili ed immediati per me: la scrittura e la musica. Leggevo così tanto da ritrovarmi a chiedere al bibliotecario del paese quando sarebbero arrivati dei nuovi libri da leggere.

Nessuno mi ascoltava veramente e mi andava bene così: scrivevo su piccoli diari storie e racconti per le mie amiche immaginarie. Scrivevo nei temi a scuola e le amiche normali cominciarono ad accorgersi della mia presenza, a girarsi verso di me quando i grandi li leggevano in classe, ad incuriosirsi di argomenti nuovi durante la ricreazione. Le maestre si domandarono fra di loro come una bambina di madrelingua differente scrivesse quelle cose in italiano, come se i bambini non riflettessero e non fossero abbastanza svegli da imparare ciò che i grandi faticano a raggiungere. Scrissi poi per dei concorsi e i miei testi di tintinnii e folletti vennero scelti, ricordo che più gente cominciò a girarsi e ad ascoltarmi e... no, non era un'italiana a essere scelta per un testo in italiano.

Il problema era che le persone si accorgevano troppo di me, e ciò mi infastidiva. Era la mia anima ad essere muta, non la mia presenza. Ero sempre al centro dell'attenzione per il mio nome e per i miei occhi, per questo volevo essere invisibile e protagonista in altre cose.
Un controsenso. Una complessità. Una nebbia fitta in cui cercare, per non perdersi e cadere nel fosso, come accadeva nella stagione del letargo a Fog City.

Quando scrivevo non ero più sola.
La gente diceva: "Io quando sto giù guardo un film e sto meglio", io invece pensavo al disordine dei pensieri e al mio bisogno di riordinarli, di vederli, di scrivere.
La gente diceva: "Io quando ho pensieri, corro e poi sto meglio", io vedevo in loro il freddo e il sonno del mattino e/o la fatica del sudore e pensavo che l'unico modo che avevo per rendermi conto della presenza di quei confusi sussurri fosse di ascoltarli, per trovare a ciascuno un nome e tradurli su carta, non di correre.
La gente beveva e faceva casino per dimenticare. Io facevo casino ma poi mi isolavo nel mio mondo per dimenticare, e per non dimenticarlo poi lo fissavo su carta.

Poi ci furono le lettere e le corripondenze. Non ero brava a parlare, ero timida ed insicura, ma nelle lettere ero divertente e interessante. Erano gli amici del mare, gli amici distanti un anno da rivedere l'estate successiva. Quando tornavo come sconosciuta bipolare.

A scuola i miei temi venivano sempre scelti per la loro originalità e profondità e io mi distanziavo regolarmente dalle mie creature, come se la realtà fosse una cosa e il momento della scrittura un'altra. 
Loro nascevano, vivevano di vita propria e se ne andavano chissà dove. Come le lettere, come i miei diari, come i miei scritti per i concorsi.

Si verificò lo spacco.

Il corpo da una parte e l'anima dall'altra. Come se chi scrivesse non sono io, non mi ci riconosco e non è da attribuire a me. Non ho mai capito del tutto questo ricercare risposte nei miei scritti: come si fa a capire una persona quando neanche questa si capisce? Ognuno dovrebbe capire sè stesso. Io lo faccio qui senza disturbare nessuno, perché voi non fate altrettanto a casa vostra, con i vostri mezzi?

Non vi succede mai di scrivere e di non ricordare come avete fatto? A me sì. Non so se sia una cosa comune però.

Gli attori quando vivono un personaggio, stanno male, gioiscono, soffrono e muoiono... come fanno poi quando ritornano nel loro corpo e abbandonano il veicolo? Come fanno quando rivedono il loro personaggio vivere di vita propria su uno schermo?

Io per esempio, quando suono un brano triste e struggente mi sento triste e cado nello sconforto. Quando passo ad un minuetto danzo con il cuore assieme al brano. Così che tolgo ed indosso le emozioni seguendo gli ordini del compositore, del direttore, del pubblico...



A scuola scelsi l'arte e la moda. Dopo la scuola vinsi un concorso e al tempo, davanti al bivio: "Scendo a Roma per lavorare sulla collezione e far sfilare i miei primi capi come stilista emergente o rimango qui e vado avanti con la musica?" scelsi la musica.

La musica era l'ordine, quello che mi riportava alla disciplina quotidiana, l'impegno, la profondità, la condivisione e il confronto. La musica era interpretazione di grandi opere di geni vissuti prima di me. Era anche la voce di antichità, il rumore che non potevo esprimere. Nel mio turbamento avevo bisogno di riferimenti. Tanti musicisti famosi sono anche scienzati e matematici, forse perché la tecnica e il ritmo necessitano di razionalità e io volevo razionalizzarmi.
La tecnica era ed è una sfida continua, è la soddisfazione dei miglioramenti, del superamento di ostacoli.
Chissà che un giorno non sia io a scrivere qualche musica?

La moda al contrario era la creatività, il successo, la parte frivola, la vanità, il mio compiacimento, il disobbedire le regole, la modernità, la psicologia che fa l'abito. Era anche la mia espressione più facile e primitiva: da piccola ho cominciato a rappresentare il mondo dapprima attraverso le immagini con i manga e figurini di moda, poi attraverso il sonoro con la musica. Più tardi con le parole. Ma per me il visivo è sempre stato imprescindibile dall'estetica e la matita la prendevo in mano per vestire bene le persone, per scimmiottare mio padre quando progettava le case e le arredava, per abbellire il brutto e colorare il triste.
Quando vedo una donna trascurata, in automatico la visualizzo nella mia mente con dei capelli diversi, con un trucco adeguato e con abiti che la valorizzino, come se la mia mente non smettesse di "aggiustare", come ai tempi della scuola. Quando vedo accostamenti di colori non armoniosi mi sento turbata. Ciò che vedo influenza l'armonia stessa dei miei sensi. 

La scrittura univa le due cose e rappresentava l'unico altro mio interesse per cui avessi voglia di approfondire e migliorare.
Nella scrittura bisogna rispettare delle regole e al contempo creare. Si parla di sè stessi e si inventa. Si descrivono veri e propri mondi paralleli, si spazia, si diventa qualcun altro, si ritorna sè stessi, si riordina e si scompiglia. Si cambiano i nomi, si chiamano le cose per come sono, si ricorda e si progetta, in un  meraviglioso gioco di futuro, passato, presente, finzione e realtà.

Ho bisogno di scrivere a briglia sciolta.

Un mio ex mi propose di pubblicare i nostri racconti su un precedente blog ed ero entusiasta di questa iniziativa. Quando fra di noi finì portai i miei post qui. Quando anche MySpace chiuse la piattaforma senza avvisare nessuno e cancellò il mio blog personale lo portai qui. Quando, invecchiando cominciai pian piano ad avere meno scontri fra le personalità e a riunirle in un unica testa, anche il mio sito lo portai qui. 
Perchè in fin dei conti, "la saxofonista", la "stilista", la "profe", la "vicina di casa", la "cliente", la "amica", la "collega", la "figlia", la "sorella"... si chiamano tutte allo stesso modo.

Sono sempre io. La psicologa dei miei ventitrè anni mi disse appunto che, il mio successo non era di rinnegare qualche parte di me, per quanto differente, ma di creare dei ponti per collegare le isole, di imparare ad usarli e di godermi la mia vita con questa nuova capacità e libertà di andare da una parte all'altra a mio piacimento.
Quindi perché avere tanti blog? Uno per ogni mio carattere? Questo è il mio meraviglioso ponte che collega le diverse isole e questo è il mio zibaldone confusionario, di cui non devo rendere conto di ciò che la gente capisce e vuole sentirsi dire o capire.

E' la mia terapia che mi accompagnerà per tutta la vita, scrivere e lasciare andare dove vogliono i miei scritti.
La medicina prescritta dal mio dottore della mente.
Come quando da piccola cominciai a crescere e a migliorare l'autostima scrivendo. 
Scrivendo, scrivendo.

2019.

Ciò che fa stare bene ME.


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