sabato 28 novembre 2015

Una finestra per Thasie

Trovo che la parte più interessante di una casa siano le finestre. Mi piacciono grandi, tante, luminose, a più vetrate. La mia cameretta da adolescente ne aveva una: alta e larga, quadrata perché a tre vetrate, che dava sulla strada interna con gli alberi, il marciapiede e i passanti, era come un quadro in continuo movimento.

Ho visitato come ospite case sfarzose e lussuose, con infissi pregiati, marmi, quadri dalle cornici d'argento, tende in broccato, ma in cui bisognava accendere la lampada presto per rischiarare, per poter leggere o semplicemente vederci, così, per la mia personale idea di “casa ricca”, quelle case non erano sufficientemente ricche, perché non avevano la cosa più importante: la luce naturale, il poter vivere fino all'ultimo raggio di sole che inonda le stanze di calore.
Finché si vive in famiglia ci si adegua all'abitazione che scelgono i genitori: non ho mai potuto esprimermi sulla scelta della casa, dare opinioni ed avere gusti. Solo quando cercai un posto dove andare a vivere da sola, mi resi conto di quanto il numero delle finestre fosse un requisito importante per me, stava in cima alla lista, assieme a “parcheggio”, “affitto basso”, “vasca da bagno” e “vicinanza mamma”, ne volevo tante e magari stare all'ultimo piano, per ricevere più luce possibile.

Anche prima di allora, ricordo però, avevo una mia particolare abitudine: fin da piccolina, mi è sempre piaciuto osservare le case e le finestre da fuori. Mi attirano le tende, le luci, mi piace intravedere pezzi di arredamento, lampade e a volte scorgerne gli abitanti. Forse perché in estate le finestre stanno aperte e non si accende la lampada per quasi tutto il giorno, credo che osservarle sia affascinante soprattutto in inverno. Col freddo pungente ed il buio di fuori, con la voglia di tepore e quiete intima e domestica, capitava che quando portavo a passeggiare il cane, mi ritrovavo a fantasticare storie che potevano succedere dietro a quei vetri. Sicuramente, in quelle case c'era un bel tepore, si sorseggiava una deliziosa minestra fumante e ci si coccolava sul divano avvolti da una morbida e calda coperta.
Quando però poi tornavo a casa, che era la villetta dei miei, non mi sentivo propriamente nel mio ambiente: arrivano momenti nella vita in cui ci si sente pronti per cercare una casa con più finestre.

Nonostante io abbia sempre visto le case degli altri da fuori, con le finestre illuminate, le tende drappeggiate e le storie fantastiche di vita sconosciuta e familiare all'interno, mi capitò per lunghi mesi, per oltre un anno invece, di non vedere mai il mio appartamento allo stesso modo. Alcune cose banali saltano all'occhio quando le si vivono: se si vive da soli e si spengono le luci quando si esce, non succede mai di vedere la propria casa dall'esterno con le finestre illuminate: in quel momento all'interno è vuota, non c'è nessuna vita.

Una sera d'estate, tornando e volgendo il naso all'insù, guardai le altre case e le tante luci calde accese, ma la mia casa era buia, con le tapparelle abbassate o le tende tirate. Potevo inventare le storie per gli altri ma non per me.

Un'altra sera, mentre finivo di riordinare la cucina, spazzare, pulire e rendere la semplicità un posto accogliente, mentre preparavo il sacchetto dello sporco, mi si formò un pensiero in testa. Andai a buttare la spazzatura ma decisi di lasciare le luci accese apposta.
Fu una strana sensazione, la prima volta, guardare l'ultimo piano e vedere una casa mai vista. Ecco quello che vedeva la gente, quello che io non avevo mai notato, quando tranquillamente vivevo la mia vita e la mia casa era una stanza illuminata con l'aria che entrava: si vedeva quello scorcio del mobile chiaro, la lampada bianca, le tende e i muri bianchi, la chitarra appesa e magari io stessa che gironzolavo fra i fornelli o imbracciavo una scopa, con una maglietta comoda e i capelli raccolti.
Era una bella sensazione di ordine e di leggerezza.

“E' la mia casetta” pensai con stupore, senso di novità e scoperta, quiete e piccola conquista “sono le mie finestre”.

Da allora, ogni volta che mi assento pochi minuti, di solito la sera per andare a buttare la spazzatura, lascio accese le luci apposta, per poi guardale e fantasticare storie su di me. Ora sono anch'io una delle protagoniste della mia testa con una trama tutta per me. Piccoli e misteriosi quadri di una vita di sogni, romanzi, musica e speranze passate ad osservare il soffitto di un nido che accoglie un pianoforte.
E' tuttavia bella, la mia storia strana.

Quando nella vita si hanno delle finestre con le tende, e nel buio dell'inverno queste si accendono di calore e quiete, non si hanno più ragioni di sentirsi spaesati. Sono come dei fari nella notte, ti indicano che sei vicino, che stai tornando, finalmente, a casa.


martedì 10 novembre 2015

Perchè

Apro, mi distraggo. Pagina vuota, butto giù qualcosa.
Cancello. Seguo il flusso zoppicante.
Non mi piace, rifaccio. Un'onda d'ansia.
Silenzio che esplode.
Troppe parole non so dire.
Ricordo. Ricordo.
Ma non è più lo stesso.
Avevo tanto da dire, ora non so cosa fare.
Fisso il vuoto.
Avevo tante storie, ma sono invecchiata.
Progetti che mi passano accanto.
Siamo sicuri di avere quello che ci serve?
Non capisco.
E non so più se c'è da capire.
Ma è l'unica strada per trovare un senso.

Boh.

Allora. Chiudo in questo battito muto.
Non parlo. Di nuovo.


venerdì 6 novembre 2015

Un abbraccio

Una coperta di calore contro il freddo
Un ombrello di sole che ripara dalla pioggia
Un fazzoletto di fiori e borotalco per asciugare le lacrime
Un emozionante giro in altalena per raggiungere il cielo
Un sorriso per sciogliere il silenzio
Un fiore nei capelli, un bacio sulla fronte
Una risata cristallina per sciogliere il cuore
I colori dell'arcobaleno nella stanza, sulle mani, lo stupore   
Un pupazzetto, un ricordo d'infanzia, un orsetto
Un "Ti voglio bene", ma senza parole
Una passeggiata, mano nella mano, insieme verso l'alba.

giovedì 15 ottobre 2015

sabato 10 ottobre 2015

Inside Out (recensione)

Una sera ho letto per caso la recensione di un film animato su internet. Una mamma-professoressa ne parlava malissimo, diceva che i sentimenti non sono solo cinque, che la protagonista non sapeva dominare le emozioni e che era ineducativo. Io questo film non l'avevo visto ma mi faceva sorridere tutto questo livore per una storia non gradita. Metri di pensieri per denigrare. A me di solito quando non piace un film, a meno che non me lo chiedano, mi limito a dimenticarlo.
Ieri sera mi sono ritrovata ad andare al cinema per fare compagnia alla mia amica. E' inusuale, quando ci vado, che sia io a scegliere il titolo, un po' perché lascio scegliere agli altri, per sperimentare argomenti e generi nuovi che, quando sono io a scegliermi i dvd per me stessa, tendono ad essere ripetitivi, un po' perché mi piace la sorpresa. 
Solo all'ingresso, col biglietto in mano, ho scoperto cosa stavo andando a vedere.

Man mano che guardavo le scene, sono riuscita a collegare la trama alla recensione colta e stizzosa di qualche sera prima.

A me il film è piaciuto, tanto, secondo me chi ne parla male è perché non ha colto la profondità delle cose apparentemente semplici. E proprio solo per bilanciare le opinioni e spezzare una lancia in suo favore, ho deciso di recensirlo pure io.

La trama è semplice: la protagonista è una ragazzina di nome Riley che, insieme ai genitori, lascia il Minnesota per trasferirsi a San Francisco a causa del lavoro del padre. Il cambiamento è traumatico, tenterà di fuggire di casa, per poi ripensarci e tornare. Un anno dopo, viene mostrata la sua nuova vita serena, oramai adattata a San Francisco. All'interno della sua testa, vengono rappresentate Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto sotto forma di buffi personaggi, e sono loro il centro di comando in cui avvengono le emozioni e le reazioni di Riley.

Secondo me, le cinque emozioni rappresentate sono giuste e sufficienti per rappresentare l'ampio spettro delle emozioni umane, basta combinarle fra loro, e bisogna essere molto nella norma per non capire che la storia buffa dei personaggi interni sono piene di metafore molto sottili.

Fino ai dieci anni la vita di Riley è dominata dalla gioia, i suoi ricordi base sono rappresentati per la maggior parte dal colore giallo. Le altre emozioni non capiscono a cosa serva la presenza di Tristezza e, Gioia soprattutto, cerca sempre di non lasciare che agisca, per permettere che Riley viva solo felice.
Infatti Riley, nonostante i momenti di lieve malinconia, quelli in cui Tristezza si fa un po' sentire, si presenta come una bambina sempre positiva e sorridente.

La scena in cui, davanti alla nuova classe, racconta di sè e del Minnesota, del pattinaggio sul ghiaccio e della sua vita felice, è all'inizio raggiante e piena di felicità. Nel frattempo però, al suo interno, la sfera di questi ricordi viene toccata da Tristezza. Gli stessi ricordi non sono più gioiosi perché Riley si rende conto che fanno oramai parte del passato e lei vive a San Francisco. Inizia a piangere. Quando Gioia si accorge che Tristezza ha rovinato i ricordi felici, tenta di intervenire. Accade così che le due emozioni opposte entrino letteralmente in conflitto e vengano risucchiate e sparite dalla centrale. Rimangono in Riley la paura, la rabbia e il disgusto. Senza provare tristezza e gioia diventa apatica.

E' Rabbia, dalla centrale, che decide di intervenire e farle prendere la decisione di tornare nel Minnesota e scappare così di casa. E' sempre l'intervento di Rabbia che fa crollare l'amicizia, la famiglia, l'onestà di Riley, come a dire che, quando è la Rabbia che decide per noi, commettiamo azioni che ci fanno poi pentire, quando recuperiamo il nostro normale equilibrio e ci sentiamo sereni.

Gioia e Tristezza nel frattempo viaggiano all'interno della mente di Riley cercando di tornare alla centrale, attraversando i suoi ricordi lieti e dimenticati, le sue paure, i suoi sogni. Durante il tragitto, Gioia capisce che ha sbagliato a volere sempre delimitare la presenza di Tristezza per fare sentire felice Riley in qualunque momento. Da una sfera di ricordi, riconosce che sono stati i momenti in cui Tristezza si era manifestata e Riley piangeva, che ha permesso ai suoi genitori di aiutarla e confortarla.

Finalmente riescono a tornare alla centrale. Gioia lascia a Tristezza il compito di toglierle la decisione di scappare di casa, cosa che Paura, Disgusto e Rabbia non erano riusciti. Riley si riscuote dall'apatia e torna dai genitori. Qui scoppia in un pianto a dirotto, finalmente libera di non mostrarsi sempre felice, e confida che le manca la sua vecchia vita, il Minnesota, le amicizie e i luoghi cari. Anche il padre le confida che ha tanta nostalgia della casa e della vita passata ed entrambi i genitori l'abbracciano. Questa scena di debolezza e forza, comprensione e aiuto è molto commuovente.

I ricordi base del passato di Riley ora vengono archiviati, ma non sono più solo del colore giallo della gioia, hanno invece sfumature gialle e azzurre della tristezza. Perché anche noi abbiamo i ricordi del passato felici, e al tempo stesso malinconici. Si cresce, si va avanti. Anche le altre sfere hanno più sfumature di colore, così come ogni nostro ricordo può avere il colore della rabbia e della tristezza, o della paura con la gioia... vi è mai successo di essere felici per qualcosa e provare una punta di paura di perderla, mista a tristezza?

Riley cresce, per questo le sue sfere hanno colori e sfumature più complesse di quando era bambina.

Riguardo alla recensione della signora, che disapprovava che Riley si lasciasse dominare dalle emozioni e che senza Gioia non sapesse più come comportarsi, io credo che i buffi personaggi interni raccontassero semplicemente cose stesse accadendo al suo interno, e non che dentro di noi ci siano veramente omini che ci dominano. E che è vero che quando perdiamo la gioia di vivere, un po' perdiamo tutto. 

Io ho capito che Riley era diventata apatica proprio perché cercava sempre di essere gioiosa e non dava lo spazio di cui aveva bisogno la tristezza di manifestarsi, questo suo conflitto ha fatto sì che le emozioni si annullassero e "sparissero". Quando invece la malinconia si è sentita libera di mostrarsi, ciò le ha permesso di comunicare il suo dolore e permettere di farsi ascoltare e aiutare.

Un film molto bello che riguarderei, lo consiglio ai bambini, ma con la presenza di un adulto per spiegarne la profondità e i messaggi chiave. E in realtà, consigliatissimo anche agli adulti, a me ha fatto piangere.
Spero che  vi piaccia altrettanto!



venerdì 2 ottobre 2015

Fede

Tu lo sai chi sono gli angeli?
Io... non lo so.

E lo sai dove stanno?
Io... non ne ho mai visto uno.

Perché, tu invece sì? Ne hai mai visto uno?
Come fai, a credere in qualcosa che non hai mai visto?

Cosa fanno gli angeli?
Da me... non sono mai venuti.

Come fai a dire che esistono e sono vicino?
Non capisco...

Che cos'è un angelo, rispondi.
Qualcosa di perfetto?..

Non mi piace l'angelo che dici tu.
Preferisco un angelo caduto dal cielo.
Un angelo nero.
Piume dissolte...

L'ho visto, l'angelo nero.
Abbracciava strette le ginocchia, col volto in giù e i capelli che coprivano le braccia.
A piedi nudi, stava.
Correva, correva. Poi si è innalzato, ma per buttarsi giù.
Aveva preso la rincorsa. 
Si è frantumato in mille pezzi di diamanti color del corvo, come una enorme bolla d'acqua liquida, che tocca il suolo e si scompone in atomi neri e si diffonde da tutte le parti.


L'angelo con le ginocchia al petto e le braccia strette.
Sono rimasta imprigionata nel frammento di quello specchio esploso.
Sono qui che guardo e chiamo aiuto, ma nessuno mi sente.

Anche se piango e grido. 
Si ode solo un celestiale, muto, paradisiaco silenzio.



lunedì 28 settembre 2015

Ridere

Scriverò  un post sui clown, mi ha sempre coinvolto questa maschera. 
Coinvolta nel senso, che mi fa tanta paura.



domenica 27 settembre 2015

I miei difetti perfetti

Oggi ero a pranzo da mia madre, e c'erano anche le mie nipotine gemelle, di quattro anni. Una non ne voleva assolutamente sapere di mangiare la carne. Dopo aver insistito un paio di volte, io ero dell'idea di lasciare stare, ma mia madre ferrea: "Deve imparare a mangiare tutto!"

Mi è venuto un déjà vu. Anch'io da piccola ho patito spesso a tavola perché mia madre insisteva che mangiassimo tutto. Risultato? Mia sorella maggiore non sopporta pomodori e formaggi, perciò odia tutti i primi e gran parte della cucina italiana, mangia tantissima carne cruda, rossa e solo riso.
Mio fratello mangia insalata e verdura solo sotto tortura. Io sono diventata vegetariana, e mia sorella minore l'unica carne che mangia è il pollo, e forse qualche volta gli affettati. 

Non voglio dire che sia sbagliato il pensiero di mia madre, ma che alla fine non è servito a nulla. Proprio a nulla. Tutti, e tutti gli adulti che conosco, non mangiano tutto, hanno diversi gusti a tavola e vivono normalmente.

Per me certe cose che si impongono ai bambini sono una perdita di tempo. Io con mia nipote ho pensato: "Non le piace la carne bovina, sostituiamo con altre proteine e ferro", perché alla fine ci alimentiamo per questo: per introdurre nell'organismo carboidrati, proteine, lipidi, vitamine, sali minerali, e per il piacere del palato, non per farci violenza. 
Oltretutto poverina, con l'esempio della zia che non tocca nessun tipo di carne e tira fuori dal frigo un uovo, mi sembrava molto confusa. Per fortuna sono abbastanza autoritaria in alcune cose e oggi mia madre mi dà retta, pur brontolando un po', alla fine le ho dato un po' di uova, ed era tutta contenta. 
Capriccio? A dire il vero, se ad un bambino piace mangiare qualcosa, non gli viene proprio in mente di dire di no. Quando le si mette il pollo in tavola, bisogna addirittura imporle dei divieti per fermarla.
E' così importante riuscire a mangiare carne bovina nel corso della vita? Influenza sul rendimento scolastico, sportivo, lavorativo, sentimentale?
Direi di no.

Le persone sono tutte diverse fra di loro e ci sono gusti innati e predisposizioni biologiche che si rivelano perfette per la loro natura. Per esempio, io sono stata spesso sgridata e ripresa, e sentita sbagliata, per l'orario del mio sonno: fin da bambina ero predisposta a fare tardi, più tardi degli altri bimbi, e a dormire al mattino.
E non era assolutamente abitudine: nonostante i tredici anni scolastici più uno di università, io non mi sono mai abituata. Andavo a scuola ma iniziavo a capire cosa stava succedendo molto dopo, la mia mente non è mai stata lucida e presente fino ad un certo orario, mentre sono in grado di leggere e fare giochi logici di diabolica difficoltà mentale, senza problemi fino a notte fonda.
Mia madre invece, è una che si sveglia al mattino presto e la sera crolla, così: naturalmente, mentre mio padre, me lo ricordo: stava alzato di notte per progettare e al mattino dormiva.

Si dice sempre che sia abitudine, ma non è vero: le gemelle sono l'una come mia madre e l'altra come mio padre, fin dai primi mesi di vita.
A volte riesco a svegliarmi presto ed ammetto che è bellissimo avere la mattina più lunga, ma se vivessi senza sveglie, il mio risveglio naturale è attorno alle otto e mezza, nove e mezza del mattino circa, e rendo subito e molto di più.

Altra mia caratteristica è essere predisposti a mangiare e a dormire ad orari indefiniti, quando invece si dice che bisogna seguire la routine.

In verità, io sono perfetta. Sono perfetta perché essere musicisti non vuol dire solo suonare, ma fare spesso tardi la sera, andare a dormire tardi e in alcuni giorni, mangiare quello che capita nei ritagli di tempo, fra una prova e l'altra. A volte un panino, altre un sontuoso rinfresco. O un lauto banchetto. Mi adatto senza problemi, gusto e godo i pasti, in un ristorante a cinque stelle o su di una panchina con una pizza al taglio senza problemi. Mi piace mangiare in compagnia, questo è l'importante.

Quando la gente mi stressa e mi dice che fatico a lasciare il letto la mattina, anzi mi critica come se fossi una fannullona, io mi giustifico che faccio tardi la sera perché ho le prove, perciò per dormire otto ore devo spostare tutto, ma lo dico per essere lasciata in pace, in verità è esattamente il contrario: proprio perché non ho difficoltà a fare tardi la sera e mi piace crogiolarmi fra le lenzuola al mattino, quello che faccio è su misura per me.

Venivo anche ripresa perché mi pavoneggiavo davanti allo specchio, criticata perché ero una bimbetta vanitosa, come se la vanità fosse un peccato terribile. Una volta, ricordo, feci impazzire mia madre prima di uscire, perché mi aveva fatto i codini e io insistevo che non erano alla stessa altezza: un codino era più alto, e volevo che lo rifacesse. Lei perse la pazienza e mi lasciò andare in giro disperata e a disagio, perché avere i codini di altezza differente mi faceva sentire insicura.

Anche da adolescente venivo sgridata perché mi truccavo per stare in casa. Forse truccarsi era esagerato, ma il fatto era che io avevo questa innata mia esigenza di sentirmi sempre carina in ogni circostanza. Ce l'ho anche oggi, e per fortuna, perché mi viene da sorridere ogni volta che leggo dei consigli per le donne sulle riviste femminili: consigliano di prendersi cura del proprio aspetto fisico anche in casa e di non apparire mai o troppo spesso sciatte per non allontanare fidanzati o mariti. Ecco, penso, l'ho sempre fatto per non allontanare il mio specchio, e venivo sgridata!

Non mi andava bene qualunque cosa, per esempio, mi è rimasto impresso il grosso complesso di avere lo stemma marrone col telefono grigio cucito sul mio grembiule e su tutte le mie cose, all'asilo. I grandi me l'avevano scelto senza consultarmi e credendo che un disegno valesse l'altro, ma io invidiavo tantissimo la mia amichetta che aveva il fiorellino giallo su sfondo verde.

Sapete che dico oggi? Io ero, e sono perfetta così.
Una delle cose per cui mi piace andare in giro a fare spettacoli, è proprio il dover scegliere abiti, truccarsi, prepararsi, agghindarsi, mostrarsi al pubblico, sentire il potere della vanità e femminilità portata allo scoperto in quei momenti. Se fossi più discreta o semplice, magari mi sentirei a disagio a farmi vedere o non avrei voglia neanche di prepararmi.

Ed ero distratta, non ripetitiva, svagata.

Poi, faticavo un sacco a stare nello stesso posto tanto tempo, come a scuola, seduta su una sedia per cinque o sei ore. Ma mi stancavo anche a stare in piedi, volevo vivere in modo da sedermi e alzarmi, camminare o poltreggiare quando volevo, non quando me lo dicevano gli altri. E allora mi dicevano che avrei dovuto imparare e sopportare, perché qualsiasi lavoro obbligava a stare seduti a lungo o in piedi. Avrei anche dovuto adattarmi alla quotidianità, che comportava le stesse persone tutti i giorni. Lo stesso luogo tutti i giorni. Gli stessi orari tutti i giorni, tutto quello che cioè, mi avrebbe fatto scoppiare, perché contro la mia natura incostante.
Insomma ero incostante, fannullona, ed incapace a sottostare alle regole, che brutto destino avrei avuto!

Tutti quelli che erano miei difetti, come quello di essere più tranquilla in privato e più esibizionista quando c'erano persone, come quello di trascurare la scuola e i doveri per suonare (musica, cioè passatempo, non roba seria), erano solo indizi di quello che era giusto per me: non avrei potuto fare altro di quello che sto facendo oggi. 

Oggi cambio luogo di lavoro ogni giorno. Dopo otto o nove mesi, quando non ne posso più delle abitudini e delle stesse facce, si interrompe per forza il lavoro e per qualche periodo mi allontano, giusto il tempo che mi ci vuole per non farmi venire la fantasia di cercare nuovi lidi, cosa che farei se fossi un'impiegata...

Quando insegno mi siedo o sto in piedi, o parlo guardando la finestra, quando lo voglio io. I giorni in cui ho più voglia di suonare e non di parlare, faccio un sacco di duetti e musica d'insieme con i miei allievi. Quelli in cui mi sento più loquace spiego. Le lezioni inziano dopo pranzo e la mattina ho tutto il tempo di esercitarmi senza dover per forza rivolgere la parola a qualcuno e di riconnettermi con la realtà, senza violenze quotidiane.

Ho fatto un sacco di lavori nella mia vita: barista al mattino, barista e/o cameriera la sera e notte. Baby sitter, segretaria, telefonista, impiegata, commessa, operaia. Ho cambiato un sacco di posti e datori di lavoro, colleghi. Mi sentivo sempre sbagliata e in errore.

Ma lo sbaglio non ero io: ero troppo tonda per adattarmi ad un quadrato, dovevo ricrearmi attorno il mondo rotondo.
Sarebbe lo stesso disagio di un quadrato che cerca di essere tondo: non si può... obbligare per esempio mia madre a stare in giro quando fa buio la madrebbe in crisi e soffrirebbe molto. Lei quando cala il sole si sente protetta in casa. Punto. Non potrebbe mai andare in giro a fare concerti e guidare da sola lontano.

Mi ci è voluto tanto per conoscermi e capire che tutto quello per cui venivo rimproverata e giudicata sbagliata, da "aggiustare", erano caratteristiche giuste per fare il mio attuale lavoro.
Per questo, dopo aver sofferto per buona parte della mia vita, oggi osservo i bambini, i ragazzini e cerco di capire le loro predisposizioni, che non significa solo valutare le loro materie preferite, ma anche caratteriali. Nessuna caratteristica caratteriale è veramente un difetto, se si cresce con la morale. Anche un bambino con "troppa" energia e tendenze "manesche", potrebbe essere un futuro lottatore e finire alle Olimpiadi... 

Ogni pregio potrebbe essere un difetto. Ogni difetto potrebbe essere un pregio. Mi piace questa frase.
Come le due facce della medaglia.
E' bellissimo per me oggi, iniziare la mia giornata e sentire che le cose si sono modellate attorno a me.
E mi sento giusta, sono io che sono arrivata da sola a sentirmi così. Una grande e dura conquista.

Voi vi sentite giusti?


martedì 22 settembre 2015

L'antagonista

Perché non la invitarono alla festa (il motivo ai bambini non venne mai spiegato) ma fu per questo che si arrabbiò tanto, la fata cattiva nella fiaba de' "La bella addormentata nel bosco". Mentre i grandi narravano la storia, distinguendo nettamente il bene dal male, i buoni dai cattivi, a me, sinceramente, faceva tenerezza: la vedevo originale, ma abbondonata ed emarginata da tutto il regno, ed etichettata come cattiva. Il fatto è, che se ti considerano cattiva, o diversa, perché ti isoli o sei selvatica, poi diventi cattiva per davvero.

Già.

Ma solo io la pensavo così. Le antagoniste mi erano sempre simpatiche, come Milady, per esempio.
La sapete la storia? In breve: lei era la bionda, bellissima e adorata moglie di Athos, un giorno cadendo da cavallo, lui la soccorse e scoprì il marchio del fiore di giglio sul braccio... devo aprire una parentesi a questo punto del romanzo: io mi chiedevo come un marito potesse solo in quel frangente vedere la pelle nuda della moglie, in un posto mica tanto nascosto. Vabbeh che andavo alle medie quando lessi per la prima volta "I tre moschettieri", e di sesso non ne sapevo tanto, ma questa curiosità me la sono sempre portata dentro... come facevano l'amore ai tempi di D'Artagnan in Francia???
Chiusa questa parentesi, quando quindi Athos scoprì il marchio della moglie, adorata fino a cinque secondi prima, sapete che fece? 
Come farebbe un uomo innamorato? Beh io chiederei la motivazione, vorrei farmi spiegare, poi capire se la donna si è redenta: tutti possono commettere errori ed avere una seconda possibilità, e cosa più importante: se ti ama. Non c'è mai scritto se Milady avesse amato Athos veramente o no. 
Ma lui non fece nulla di quello che farei io, se fossi un marito innamorato e scoprissi la fedina penale sporca di mia moglie che amo tanto. 
Lui la ripudiò immediatamente. Forse che lo scrittore Alexandre Dumas era a corto di idee e non si inventò una storia plausibile nella storia, per spiegare l'origine del marchio? Io non ricordo di averla letta, raccontata da Milady, ma solo che dalla delusione, il nobile conte, o duca, quello che era Athos prima di arruolarsi insomma, la cacciò via. Senza rimorsi e rimpianti. 
Ricordo poi in qualche punto del libro, dove venne spiegato brevemente che lei aveva raggirato un prete per i suoi vantaggi, tuttavia, nessuna scusa mi parve abbastanza plausibile per la reazione di Athos. Quasi come se nei romanzi di fantasia, il cattivo è sempre cattivo, e il buono sempre buono. Senza tonalità grigie e complicazioni psicologiche.

Uno psicologo ai giorni nostri analizzerebbe, tramite qualche seduta, la testa del'ex consorte del moschettiere e direbbe: "Povera infanzia di Milady! Orfana, povera e cresciuta da sola, senza guida, senza affetto, senza una famiglia. Che poi era pure inglese e come mai stava in Francia? Aveva bisogno di guadagnarsi da vivere, ma voi nobili nati nella bambagia e senza problemi di sopravvivenza non capite un cavolo!"
Allora l'antagonista farebbe pena, capiremmo la sua sete di rivalsa, l'ambizione di sfruttare la bellezza per entrare a far parte della nobiltà, scalare la società e diventare un qualcuno, sentirsi importanti, una volta nella vita! Ci commuoverebbe e diventerebbe un'eroina".

Là verità...

La verità per cui provavo empatia ed attrazione per le cattive delle storie, era che io ero sempre l'antagonista. Forse anche oggi. Gli antagonisti sono cattivi, e il male perde sempre. Infatti, le cose mi vanno sempre difficili.
Non mi sono mai sentita la protagonista della mia vita a lungo, chi ha scritto questo romanzo mi ha designata così: asociale, "piccola e scura come quelli del popolo fatato"... no, quella era Morgana. Morgan le fay era cattiva, brutta perché bassa e scura. Ginevra era la buona. Mamma mia, che donna irritante era Ginevra: bionda, bigotta, timorosa di tutto, ignorante come una capra, principessina. Che poi: lei tradiva Artù con Lancillotto, non è che fosse tutto questo stinco di santo. Però lei era buona perché cristiana (le cristiane tradiscono i mariti?) e faceva la dolce virtuosa.

Io, invece, volevo essere libera da pregiudizi e sapere fare incantesimi come Morgana, volevo conoscere le persone, vivere ed essere bella ed intelligente come Milady, non volevo leccare i piedi del re e della regina per essere la buona della storia. Il prezzo da pagare, cioè le sfide e l'emarginazione era di certo alto, ma cavolo, essere falsi, per me era molto più umiliante che vivere da antagonista.

I miei primi ricordi di diversità, risalgono ai tempi dell'asilo nido. Non che mi ricordi molto, delle mie immagini trovano oggi spiegazione e conferma grazie a quello che mi dice mia madre: cioè che per motivi di logistica, finii alla scuola materna delle suore, benchè fossi in età da asilo nido, con bambini quindi più grandi di me. 
Non potendo partecipare alle attività, io ero quella non solo straniera, ma che dormiva nella brandina anzichè giocare, portava il pannolino, doveva farsi imboccare per mangiare e avevo sempre attaccata suor Maria Rosa alle calcagna.
Anche alle recite scolastiche ero sempre truccata (neanche tanto) da straniera venuta da lontano. Nel presepe umano della scuola, alle elementari, non sapendo (o non volendo?) mettermi in camicia da notte della mamma, e mettermi nel mucchio degli angioletti assieme a tutte le altre bambine dalla pelle bianca e gli occhioni da bambola, pensarono giustamente di vestirmi da zingarella e mettermi vicino ai Re Magi. 
Le bambina più speciale faceva la Madonna: bionda, fine e spirituale, la bambina più bella della scuola. Perciò io non ero la più speciale: ero la zingarella. L'unica zingarella, con il gilet rosso, la sottana lunga da gitana, il fazzoletto scuro con i fiori in testa e la camicetta bianca.

"Ma che ignoranti! Io ti avrei messo in primo piano fra gli angioletti! Un angelo orientale, sai che bello? Le maestre hanno perso una così bella occasione per insegnare qualcosa di bello a dei bambini!" esclama la mia amica regista, che di lavoro "serio" è una maestra delle scuole elementari. "Che poi, la Madonna non era neppure europea, non doveva essere bionda con gli occhi azzurri!"

Ecco, dai tempi molti remoti, iniziai a vedermi come un'originale, sì, ma originale nel senso di non far parte di un gruppo, come le antagoniste, come le cattive delle fiabe. I miei capelli sono da Lucifero: avete mai visto una fatina celeste o un angiolo, un putto svolazzante nel cielo con i capelli neri e lisci?


A volte però, mi soffermo, e mi chiedo: ma chissà, come ci si sente ad essere le protagoniste delle fiabe? Quelle con il lieto e sospirato finale, quelle che incontrano il principe azzurro e sono felici, amate e buone, benvolute da tutti. Quelle dalle esperienze che finiscono bene, che quando compare la scritta. "The end", vengono fermate nello scatto sorridente. 

A volte però, non so se riuscirei ad esserlo, perché si cresce, e si tende a dare quello che si è ricevuto. Ad essere quello che si è abituati ad essere visti. Forse sì, a volte mi sento la protagonista e mi piace tanto, ma poi, credo che sia una breve novella, uno sbaglio, non un romanzo vero, perché subito le cose cambiano. Non rimango mai la protagonista a lungo.

Vorrei riprendere tutti gli antagonisti delle storie, riscrivere i romanzi dal loro punto di vista, cambiare i finali. Sarebbe bello se anche loro avessero la loro rivalsa. Una vita di lotte e di avventure che le principesse si sognano, nella loro monotona realtà.
I buoni, che di solito sono buoni per la società, perché fanno le cose giuste che garbano agli altri. Sono sempre tanto noiosi e ridicoli. 
"Sì, sì, sì..." dicono sì. Le principessine bionde, non sanno fare nulla. Sono paurose. Non si buttano.
Ma che c'è di bello a vivere così?





mercoledì 19 agosto 2015

Grido

E mi fu dato questo cuore, ma non le istruzioni per usarlo. 
E venni buttata in una vita più grande di me, senza guide e senza possibilità di rimediare agli errori.



mercoledì 29 luglio 2015

Galateo per Facebook

Ciao uomini!
Come vi comportate di solito per "rimorchiare" le donne?
Noto che di questi tempi si usa molto il virtuale per fare conoscenze, a me non interessa, ma a tanti sì. La cosa che mi turba è come mi approcciano "i maschi" tramite messaggi privati. Mi domando: ma se io incontrassi queste persone nella realtà, farebbero lo stesso?
Che poi: non ho capito del tutto le intenzioni... cosa cercano, una scopata? Una fidanzata? Una amica?
Parlo di Facebook perché è l'unico social network che seguo: a me non sembra che il mio profilo comunichi il messaggio di cercare amanti o fidanzati. Vedo profili femminili più ambigui... ma io credo di spingere abbastanza col lavoro e con i post innocenti. Le foto che carico sono con amiche e amici, momenti in cui sto suonando e di svago. E comunque, esistono siti apposta per incontri di questo tipo, perché cercare su Facebook? Sinceramente dopo anni che succede, la cosa mi infastidisce. 
Il fatto che io accetti l'amicizia di tutti senza controllare è forse un mio errore, ma lo faccio perché mi è già successo in passato che delle persone mi cercassero ed erano amici degli amici, o fossero interessati a me come artista e mi volessero avvicinare e io dubitassi. Insomma, visto che spesso mi espongo al pubblico (nel mio piccolo, molto piccolo mondo s'intende, non sono Madonna, la cantante), mi pare gentile introdurre fra le mie amicizie un po' tutti... ma si parla di Facebook! Non è la realtà, è uno spazio dove ci stanno cani e porci e chiusa la pagina, addio a tutti! Non sono amici veri.

Vi riporto un po' di quello che mi viene scritto.

Una volta, uno sconosciuto di cui avevo accettato l'amicizia qualche secondo prima, mi chiese quando sarei andata giù a Roma. Io non controllai il profilo e credetti che intendesse quando sarei andata a Roma a suonare, gli risposi che non lo sapevo ma che speravo presto.
Nei giorni avvenire, 'sto tizio proseguì con le insistenze e con qualche parola e frase "offensiva", allora andai a vedere la sua bacheca ed era piuttosto... scurrile, per dire solo una cosa: aveva scritto un post e chiedeva: "Chi di voi mi viene a fare un pompino?".
Aveva solo amicizie femminili ed immagini pornografiche, disgustata, lo cancellai e lo bloccai, perché non venisse più in alcun modo a cercarmi.

Un'altra volta: siccome mi piace sperimentare piatti fra i fornelli, capita che pubblichi e condivida la mia vita culinaria e... la mia dieta.  
Ci fu un episodio,  era mezzanotte, quando pubblicai un piatto di pasta con un commento, in cui dicevo che in quel piatto c'era più peperoncino che pasta.
Un tizio dal nome non italiano, mi scrisse in privato cose come: "Birichina, a mezzanotte hai solo voglia di pasta o hai altre voglie?", oppure: "Ah ti piacciono le cose calde e piccanti... brava, brava molto bene".
Non gli risposi, non gli ho mai risposto, neanche ai saluti.

Poi ci sono quelli che dopo il: "Ciao" e: "Ti disturbo?" mi chiedono se ho un uomo. Quando rispondo nel vago, perché fondamentalmente sono affari miei, oppure per togliermeli di torno dico che sono impegnata, la domanda successiva è: "Storia seria? Ci credi alla fedeltà?".

O mamma! Che triste mondo, non mi piace così! Comunque alla domanda sulla fedeltà, che io reputo troppo stupida per andar oltre nella conversazione, mi dileguo e i tizi scelgono loro se cancellarmi dalle loro amicizie dopo non aver trovato nulla, o di rimanere ignorati. Ultimamente, non rispondo neanche più alla domanda se ho un uomo. E' palese che hanno altri intenti.

Invece sapete come gradirei essere approcciata da gente sconosciuta su Facebook?
Innanzitutto, visto che io sono carina, intelligente, pulita e non sono così ridotta male per cercarmi un fidanzato su Facebook, almeno, se non sei abbastanza carino ed intelligente e quindi alla mia altezza, abbi la decenza di stare al tuo posto. Sono superba? Mah, sì, abbastanza, diciamo che so di potermi permettere di meglio di qualche sfigato, volgare e stupido bavoso.
Comunque, non me la tiro così tanto da non diventare amica con ragazzi conosciuti su Facebook, ci sono alcuni con cui scrivo volentieri da anni, ma hanno un modo di fare differente.

Quello che più mi da fastidio è questo: non puoi chiedermi cosa faccio nella mia vita, perché sul mio profilo ci sono i link al mio sito, al mio blog, ci sono le foto, ci sono scritti i miei titoli di studio e il mio lavoro. Sei tu che mi hai chiesto l'amicizia, abbi almeno la pazienza di interessarti, clicca un cavolo di link, leggiti due righe di me, non occorre tutto, perché veramente, in questo caso, una domanda del genere denota la realtà: totale disinteresse nei miei confronti, di me come persona.
Che poi, quando rispondo che suono, e mi viene risposto che è un bellissimo passatempo ma poi mi viene chiesto che lavoro faccio, mi cadono le braccia. Per me la conversazione è finita lì e non mi interessa andare oltre.

Altri ancora, mi chiedono se capisco e parlo l'italiano. Vuol dire che si sono soffermati solo e solamente alla foto!

Altra cosa fastidiosa, è quando non mettono mai nemmeno un "like" sulle cose che pubblico e poi ci provano in privato: ma scusa non so chi sei, se vuoi che mi interessi a te, che mi accorga che esisti, almeno interessati tu a me no? Se non te ne frega niente di me, cosa vuoi che me ne freghi di te?  

E poi ci sono pure i permalosi: quelli che se non rispondi subito ti cancellano.
Io non sempre rispondo subito agli sms dei miei amici e parenti neppure nella vita reale, neppure ai colleghi e superiori di lavoro, che sarebbe faccenda più importante, vuoi che stia tutto il giorno incollata su internet a Facebook, per rispondere a te, proprio a te, che sei uno sconosciuto fra tremila profili? Ma secondo te, uno nella vita non mangia, non cucina, non fa i mestieri, non fa la spesa, non dorme, non si lava, non guida, non esce con gli amici? E in quei momenti riesce anche a risponderti? Per favore, ridimensionate il vostro ego e le vostre insicurezze. 
E poi, visto che mi trovi così interessante, potresti anche essere in fila d'attesa con altri che stanno scrivendo le stesse cose da copione che stai scrivendo tu... non ci hai pensato?

Di recente un tizio mi ha scritto dal nulla chiedendomi di che etnia sono. Io penso che sarebbe stato più educato presentarsi e spiegarmi perchè vuole saperlo, perciò visto che non l'ha fatto, non ho voglia di dargli questa informazione.

Comunque mi piacciono i corteggiamenti classici: quelli che leggono i miei pensieri, ascoltano la mia musica e mi seguono un po' prima di farsi avanti in maniera galante, da vero uomo. Mi piace il linguaggio che si addice ad una principessa che si rispetti e l'amicizia che si protrae per mesi. Ecco.
E poi mi piace ridere, sono un tipo solare.
Il cervello dev'essere molto intelligente, perché gli uomini stupidi, proprio non li reggo. 

Per concludere, se sei troppo vecchio e brutto, non farti proprio avanti, perché io sono superficiale e me la tiro e non ho interesse ad approfondire e al limite puoi avere la mia amicizia come se fossi mio nonno o mio padre, ti porterei rispetto e ti darei del lei. Ma non farti venire in mente altro.

E' dura la vita on line... Che giungla!


lunedì 20 luglio 2015

Un po' di me

Vivo senza adsl, senza televisione, non ascolto la radio, non conosco le pubblicità e non mangio carne e pesce.
No, non sono un'eremita.
Sono stata una bambina cresciuta a merendine e cartoni animati e, da adolescente, ero una fanatica dei fast-food, MTV, le riviste di moda. Avevamo una televisione per ogni stanza.
Ho sempre vissuto con la connessione veloce e mi scaricavo il mondo, chattavo, conoscevo tutti i social network e vi ero pure iscritta. Oggi non ho bisogno, non ho voglia di avere tutto questo.

Non sono cambiata, ho solo ritrovato me stessa e sto meglio così. Sono sempre stata così, ma in un'altra forma.

Oggi vi racconto e spiego questi aspetti di me che fanno incuriosire le persone.

Se scavo e ricordo bene nel mio passato, a scuola, durante la ricreazione, preferivo farmi gli affari miei al mio banco anzichè aggregarmi ai gruppi. Ci fu un mio compagno alle elementari che in un compito in cui bisognava descrivere la classe, parlò proprio di me sotto questo aspetto: "Mi è simpatica Thasala perché quando c'è ricreazione se ne sta da sola al suo banco, non va a fare merenda con le altre bambine, si fa sempre gli affari suoi".
Mi è rimasta impressa la frase di questo suo tema, perché io non mi rendevo conto di farmi gli affari miei.

In gita scolastica alle superiori, l'unica che durò quattro giorni, divenni insofferente al secondo giorno perché mi mancava di starmene per conto mio. Eravamo sole ragazze e questo mi indusse ad essere ancora più scocciata dalla compagnia, perché tante femmine messe assieme provocano un viperaio.

Una volta mi persi perché anzichè seguire la classe, rimasi ferma, ammirata, a guardare la lavorazione di una chitarra in un negozio del centro storico di Volterra che costruiva artigianalmente strumenti musicali. Quando mi accorsi di essere rimasta sola, me ne ritornai beatamente all'albergo ad aspettarli, mentre gli insegnanti, preoccupatissimi, avevano disseminato la classe a cercarmi. 

Adesso che ci penso, io mi perdevo spesso quando si andava da qualche parte con tante persone, o meglio, gli altri perdevano me, fin da piccolissima. Oggi che sono adulta, capisco perché mia madre mi raccomandava sempre di non giocare ed inseguire i piccioni delle piazze di Venezia. Nonostante fosse una specie di vigilessa con quattro figli, riusciva sempre a perdermi di vista: fra le corsie del supermercato, a Gardaland, al pic nic, alle fiere...

Io non riuscivo proprio a stare attenta a cosa facessero e dove andassero gli altri.

Credevo che essere distratti o meglio, menefreghisti, fosse un difetto, oggi, che lo sia o meno, so solo che non sento di dovermi giustificare a nessuno quando ho voglia di starmene per conto mio.
Ho imparato che qualsiasi cosa si faccia, qualunque persona si sia, c'è sempre qualcuno a cui piaccio o non piaccio: almeno se mi comporto in modo naturale, fatico di meno e piaccio anche a  me stessa.
E poi siamo nel 2015, se ci si perde, ci sono i cellulari per ritrovarsi.

Mi sembra facile vivere senza televisione, si possono comunque avere notizie da tutto il mondo tramite internet (sul telefono) senza dover dipendere dal telegiornale o quotidiani, e si possono pure scegliere gli argomenti e le fonti. Se mi interessa un film mi cerco il dvd e lo guardo dal pc. I programmi sono diventati degli show dove tutti gridano e litigano e sinceramente posso pure farne a meno. Non mi interessano più i telefilm o le storie a puntate, preferisco gestire i miei tempi seguendo le storie sui libri, senza la dipendenza di dover essere a casa ad una determinata ora o registrare una puntata per non perderla. Il libro invece posso portarlo con me e decidere io quando voglio o posso continuare a seguire "quello che succede". 
Guardavo solo i cartoni animati da bambina, tanti, tutti, perché erano un mondo innocente e mi piaceva ammirare i disegni dei giapponesi. Ora guardo solo qualche brutto cartone disegnato con il computer per fare compagnia alle nipotine, quando vado a trovarle a casa dei miei.

Non conosco le pubblicità e non so nulla di quello che succede sullo schermo. Esattamente come quando a scuola non avevo idea dei pettegolezzi in classe. Non mi sono mai sentita interessata e abbastanza "difesa" per partecipare e far entrare nel mio mondo questo aspetto competitivo della vita, perché per me stare al passo con tutto quello che mi succede attorno è molto impegnativo e bisogna essere un po' prevenuti per sopravvivere.

Per quanto riguarda la carne, non la mangio perché non mi piace. E' una cosa così semplice, tuttavia le persone mi guardano con compassione, come se rinunciassi a chissà quale piacere della vita, mentre io per educazione evito di spiattellare che quella cosa nel piatto mi fa schifo e mi fa venire in mente pezzi di cadaveri che dovrebbero essere putrefatti.

Avete presente quando da piccoli, la mamma ti obbligava a mangiare qualcosa e finchè non finivi non potevi alzarti? Nel mio piatto c'era sempre un pezzo di carne, non ricordo di aver mai faticato con la verdura o un piatto di pastasciutta. De gustibus!

Poi ci fu quella storiella che mi traumatizzò per anni e non mi facilitò a superare questo blocco.

Gli adulti spesso parlano fra di loro non dando molta importanza alla presenza dei bambini, credendo che non ascoltino o non capiscano, ma io ascoltavo e capivo benissimo, a modo mio.

Avevo forse sette, otto anni. Parlavano di una storia vera di attualità, accaduta in Cina: la storia di due fratelli che avevano un ristorante l'uno e una agenzia funebre l'altro. Venne fuori che, per risparmiare, il ristorante dava in pasto i cadaveri che finivano all'agenzia del fratello, all'insaputa dei clienti naturalmente, che diventavano senza saperlo dei cannibali.
Bene, io dopo quel racconto, non riuscii più ad ingoiare nessun pezzo di carne, sospettando che nel piatto ci fossero delle persone morte.

Crescendo, mi dissero che la carne contiene tante proteine e fa diventare alti, allora solo per quello mi sforzai di mangiarla, ma mi piacevano solo gli affettati e i pezzi impanati e fritti, oppure le polpette e gli hamburger con tanta salsa, che non avessero la forma del cadavere, tipo il pollo, che invece aveva fin troppo bene le sembianze di una gallina ghigliottinata. La bistecca non mi piaceva, le frattaglie non le ho mai neppure guardate.
Riuscivo a mangiare il pesce, se così si può chiamare, solo il tonno in scatola e i bastoncini impanati.
Tuttavia decisi di diventare vegetariana più volte in vita mia, per non uccidere animali e non mangiare della violenza, diventando sempre stanca e anemica.

La mia famiglia è tutta onnivora, vivere in casa con altre persone e non potendo decidere la spesa e il menù, significava per me mangiare solo i primi e la verdura. Solo quando ho iniziato a lavorare e a farmi la spesa, ho potuto seguire un regime senza carne e senza subirne le carenze, comprando e cucinandomi da sola i piatti completi. Sono vegetariana da quasi cinque anni e sto bene, anche se la gente mi guarda ancora e mi dice: "Non sai cosa ti perdi". Io sono ben contenta invece di "perdermi" una cosa che invece so benissimo cos'è.


Come facevano i ragazzini di una volta senza internet e cellulare? Io e la mia amica ci sentivano velocemente al telefono di casa, perché se la bolletta era alta, i nostri padri ci sgridavano, ci mettevamo d'accordo e poi ci trovavamo in centro a chiacchierare, davanti ad una cioccolata o distese sul prato del castello. 
Le ricerche scolastiche si facevano in biblioteca, c'erano gli amici di penna, quelli che mettevano inserzioni sui giornali indicando i gusti e cercando persone, amiche affini, per conversare, raccontare, parlare da lontano. Per avere notizie, si aspettavano anche quattro, dieci giorni il postino. 
Per cercare qualche negozio si usavano le pagine gialle e per farsi un pecorso stradale si consultavano le cartine. 
Per i timidi era sempre un ostacolo alzare la cornetta, affrontare la mamma o chi rispondesse al telefono per farsi passare l'interessato e parlargli. Meno male che hanno inventato gli sms e le e-mail. 

Non sono contro la tecnologia, anzi, a me il progresso piace, ma ricordo le ore passate a chattare in quei mesi in  cui da ventenne mi ero fatta prendere e, paragonate alle uscite goliardiche in compagnia sul lago, mi rendo conto che spesso si è soli in casa propria a mandare sms, non c'è più necessità di vedersi per dire le cose. Mi manca invece uscire per incontrarsi. 
Preferisco ridere, piangere, litigare o scherzare "in diretta", in compagnia, abbracciarsi, bere qualcosa insieme. Tanti hanno l'adsl e passano le serate a scaricare, fare i giochi on line e a chattare. Comunicano col mondo in pigiama e una birra solitaria. 
Io ho una casella di posta elettronica e i giga che servono al mese sul telefono, per leggere e rispondere ai messaggi di lavoro, seguire un po' il mondo, conversare con qualche amico e poco altro. Vi starete chiedendo come faccio a scrivere un blog senza poter navigare dal computer: ogni tanto uso il telefono come modem e aggiorno dal pc: ecco fatto.
Per questo ho scelto di non avere una vera connessione, preferisco stare fuori da questi meccanismi di surrogata conversazione, sentirmi libera di essere irraggiungibile quando ne ho voglia e non avere dipendenze.

Io preferisco il mondo semplice, osservare dove il vento porta le mie nuvolette.


mercoledì 15 luglio 2015

Osservazioni

Le persone credono di essere tolleranti, dicendo che siamo tutti uguali. E' facile accettare gli altri quando sono "uguali" a noi, ma la vera tolleranza è invece accettare ciò che riteniamo "diverso".
Pensavo ai gay in questi giorni e alle immagini arcobaleno che hanno messo tanti utenti su Facebook: io non l'ho messa.

Il mio motto è: "Vivi e lascia vivere", se quello che fa una persona non è nocivo alla società e soprattutto non cambia la mia vita, per me può fare quello che vuole. Per me i gay possono sposarsi e adottare pure figli se lo vogliono. Ho visto tanti bambini crescere felici e sereni dove l'ambiente è amorevole e sereno e altri turbati o con visioni distorte dell'amore, in famiglie cosidette "tradizionali", perciò non credo proprio che un bambino venga traumatizzato da due persone dello stesso sesso che si vogliono bene, piuttosto che vedere il papà che picchia la mamma, genitori ubriachi, violenti, mamma e papà che si insultano o non si parlano. Senza contare che non tutte le mamme sono amorevoli e comunicative e non tutti i padri sviluppano istinto paterno.

Però, non sono d'accordo che venga considerato nella norma l'amore omosessuale. E' particolare, ma non "normale". Uno dei miei film preferiti è "I segreti di Brokeback mountain" e parla di due cow-boy e del loro amore in una America puritana. Lo trovo sofferto e poetico, lo trovo bellissimo, ho pianto, sono corsa a comprarmi il libro il giorno dopo averlo visto al cinema e poi il dvd, ma sarebbe ipocrita affermare che non ci sia nulla di strano in due uomini o due donne che si amano.

Sto rileggendo un libro interessante che avevo letto dieci anni fa: "Perché le donne non sanno leggere le cartine e gli uomini non si fermano mai a chiedere?" di Allan & Barbara Pease. John Gray già anni prima si era cimentato, da psicologo, a studiare le differenze di comunicazione fra uomo e donna, ma questo libro va oltre: vi sono alla base esperimenti, ipotesi e tesi. Con un linguaggio leggero e di facile comprensione, viene spiegata la struttura del cervello femminile e maschile dal punto di vista scientifico.

Per esempio, la visuale maschile e femminile: l'uomo vede un raggio meno ampio, ma più lontano. La donna vede meno lontano ma ha visione più ampia degli spazi vicini. E' la natura, così come di solito gli uomini sono più alti, hanno le spalle più ampie, la voce più grave e le donne sono più basse, con le spalle più strette e la voce più acuta: certo ci sono le eccezioni, ma avreste da obiettare su queste affermazioni?

Questo esempio delle diverse visuali, comportava più facilità all'uomo, in passato, di cacciare, e ad oggi di pilotare, guidare, scorgere in lontananza il pericolo. La donna invece trova tutto, riesce a occuparsi dei figli, a fare anche più cose contemporaneamente. Gli uomini aprono il frigo e non trovano quello che è sotto il loro naso, e quando gli si chiede: "Ma non hai visto che, non ti sei accorto che?" di qualcosa che qualsiasi donna ha notato, rispondono sorpresi di no.

Perciò non è per maschilismo e discriminazione che certi lavori siano più scelti dalle donne e altri da uomini, nonostante la parità dei sessi consenta di svolgere qualsiasi cosa, sono poche le donne che sognano di diventare piloti d'aereo e uomini che scelgono la carriera di stilista di moda.

Il libro spiega che ciò dipende dagli ormoni, dalla quantità di estrogeni e testosteroni. Li abbiamo sin dalla nascita.

Ora non ricordo se l'ho letto su questo libro, forse sì, ma mi piace ricordare un esperimento fatto su centinaia di bambini molto piccoli: in una stanza vuota con un vetro, viene messo un bambino, che può vedere la mamma dall'altra parte attraverso la parete trasparente. Bambini così piccoli, quasi neonati, non sono ancora stati influenzati dalla società, perciò le reazioni sono spontanee e naturali, "primitive". Quasi tutte le bambine, vedendo la mamma, hanno reagito piangendo e chiamandole, per farsi notare e venire a prendere, per essere "salvate". Quasi tutti i maschietti invece, individuata la mamma, si sono messi a gattonare e a picchiare contro il vetro per andare da lei, istintivamente hanno dovuto agire e non aspettare.

Questo dimostra che la natura ci ha programmato per essere diversi: trovo tutto ciò molto affascinante.

Naturalmente, non tutti gli uomini sono maschili e non tutte le donne femminili. Dipende dalla quantità di ormoni maschili e femminili. Stasera mi sono divertita a rifare il test: io ho ottenuto una dose molto alta di estrogeni nel mio cervello, la mia amica è risultata molto bassa. Guarda caso: questa mia amica parcheggia in un secondo ovunque, trova le strade, la scambiano per lesbica. Io preferirei non avere a che fare con i parcheggi: mai. Anche i nostri corpi fisici sono diversi, ma entrambe siamo felici di essere quello che siamo, perché siamo noi stesse.

Ci sono donne molto femminili in alcune cose e maschili in altre e viceversa per gli uomini. Ci sono lesbiche femminili e mascoline, oppure etero più mascoline di lesbiche. Lo stesso discorso vale per gli uomini. Un uomo può essere gay ma rude, l'omosessuale effeminato esiste, ma è un po' uno stereotipo. Il libro chiarisce anche questi punti.

Grazie a questa lettura, dieci anni fa, sapevo che l'essere gay o lesbiche è una cosa che si è fin dalla nascita, lo si è o non lo si è: non si "diventa", si capisce solo di esserlo, e non c'entrano nulla l'educazione, la religione, la società. I genitori la smettano di sentirsi in colpa o di voler "aggiustare" il figlio. Perché nascono i mancini? Una volta li si obbligava a scrivere con la destra, causando un sacco di problemi, finchè non si è capito che non bisogna violentare e forzare la natura. Dopotutto, è meno "grave" avere un figlio gay di uno che uccide o violenta. Il primo, alla fine, ama solamente e non fa del male a nessuno.

Ho provato a pensare che se io, donna, provassi amore per donne e proprio non riuscissi ad amare uomini, e i miei genitori, la mia famiglia, i miei amici e la società mi macchiassero e mi ripudiassero per questo, come starei? Che diritto abbiamo noi di impedire la felicità ad un'altra persona?

L'ignoranza genera cattiveria. In passato si credeva che fosse la donna a "decidere" se avere un figlio maschio o femmina. Poi la scienza ha chiarito che è l'uomo a determinarne il sesso, perché la donna può trasmettere solo il cromosoma X in ogni caso, mentre il padre ha il 50% di probabilità di trasmettere il cromosa X e generare una femmina, e il 50% di trasmettere quello Y e di avere così un maschio. Se i re del passato, quelli che arrivarono ad uccidere e a ripudiare le mogli, incolpandole di non dare a loro eredi maschi l'avessero saputo, avrebbero trattato così quelle povere vittime? La colpa, se così si piò chiamare, era loro!
Dove c'è violenza, c'è sempre ignoranza.

Però questo post lo scrivo con intenti più generici: per me il termine uguale e diverso non deve essere confuso con l'accettazione.

Sono cresciuta con disabili in famiglia e ho parenti che hanno cambiato sesso, erano uomini nati per sbaglio in corpi di donna: succede, e con enorme sofferenza hanno intrapreso il difficile cammino dell'accettazione e del cambiamento. Tanti parlano per retorica e buonismo, io invece dico le cose per vissuta e diretta esperienza.

A volte, la natura, crea dei patrimoni genetici "diversi". Non sono migliori o peggiori, sono però particolari, anzi direi schiettamente che alcuni sono dei "difetti". 
Come si trattano queste persone? Ho notato che quelli che per buonismo dicono che bisogna trattare tutti allo stesso modo, invece sono i primi a non farlo. L'ho imparato con alcuni tipi di disabilità mentali: di fronte ad un'azione grossa in cui ci sarebbe da incavolarsi e riprenderli, li perdonano e la fanno passare liscia, come a dire che, siccome sono scemi, non è il caso di sgridarli, invece è sbagliatissimo, se sbagliano vanno ripresi, sempre con gentilezza. Come noi. Loro non vogliono essere trattati da scemi. Non trattateli da scemi. 

Giorni fa ero ad una festa per bambini con mia madre per le nipotine. C'era un bambino in una carrozzella, credo fosse ritardato. Mia madre disse: "Poverino, che vita è?".
"Poverino lui?" dissi sorpresa "Mi sa che è quello più felice, guardalo".
Era beato ed innocente nel suo mondo.
"Poverini gli altri che hanno pena per lui. Magari lui non si fa tutti questi problemi e si gode la vita. Mi sa che sfigatelli siamo noi che pensiamo e ci affanniamo troppo, abbiamo un sacco di pesi e responsabilità sulle spalle" osservai.

Dalla tiritera "Tu sei uguale a noi", sono stata io per prima macchiata tante volte da persone che, mettendosi le mani avanti, volevano dimostrarmi che mi avevano "accettato" nel loro "gruppo" e sinceramente non mi piaceva l'idea di essere uguale a qualcuno, soprattutto perché non lo sono. E poi magari non mi interessava neppure essere "accettata" da quelle persone. Se io vivessi al mio paese e mi ritrovassi in classe un unico europeo, non gli direi mai che è uguale a tutta la classe, passerei per un'idiota che non ci vede, che non capisce. Lo considererei diverso, speciale, mi interesserei un casino alla sua cultura e alle sue diversità.

Non si dice che: "Il mondo è bello perché è vario"?
Teniamo distinte le variazioni, non siamo tutti uguali, per fortuna. Se lo fossimo, saremmo come una canzone su una stessa nota, un quadro con un solo colore, una poesia con una sola parola...

E' per questo, che io non considero i gay e le lesbiche "normali", nel termine generico di "comune". Sono geneticamente particolari, sono diversi. Alcuni sono simpatici e altri antipatici, altri odiosi. Ci sono quelli con cui non vorrei avere nulla a che fare, non perché sono gay, ma proprio perché sono insopportabili di loro. Ho degli amici gay e amiche lesbiche, che reputo di piacevole compagnia.

In questo senso non hanno nulla di particolare, qualsiasi persona può essere antipatica o simpatica. 
Beh, vista la cosa così, da una dimensione cosmica, lo devo dire pure io: alla fine... siamo tutti uguali!


venerdì 10 luglio 2015

Estate

Preferisci la formica o la cicala?
Io preferisco la cicala, ma ho bisogno della formica. Ho bisogno che mi sgridi, solo un po', non troppo.

Sdraiata su un grande asciugamano, mi addormento, col libro aperto accanto, le fronde che si muovono dolcemente adombrandomi, le formiche che mi fanno il solletico, l’erba che mi punzecchia le braccia.
Quanto tempo passa? Non lo so. Mi risveglio pensando: “Sono felice”.
Apro il libro e, la prima frase che leggo, dice che la consapevolezza porta alla felicità, quella vera che abbiamo dentro, indipendentemente dagli eventi esterni.

Il venticello mi fa i dispetti: sfoglia le pagine quando non dovrebbe, cerco una posizione comoda per leggere, mi giro e mi rigiro. Uff! Le formiche… uff, i capelli che mi vanno in faccia!

Vicino a me, un gruppo di ragazzi chiacchierano parlando del futuro: Erasmus, vacanze, quanti progetti, quante speranze e voglia di scoprire oltre i confini di questo paese!
Alla mia sinistra, un bambino tenta di scappare, felice, al controllo dei genitori. La mamma lo richiama e lo insegue.
Coppiette di innamorati passeggiano tenendosi per mano, personaggi sportivi che corrono attorno al parco: ma come fanno? Io scelgo  la sonnolenza e la pigrizia piacevole di starsene sdraiati nella pace estiva senza far nulla. Ci vorrebbe solo un ukulele per strimpellare e cantare canzoncine stonate.

Sono la cicala.

Poi il mio stomaco brontola. Ecco: dopo il riposo e il letto, i miei piaceri della vita sono il cibo, l’amore, la musica, la bellezza e la soddisfazione dei sensi.

Ok mi alzo e vado al chiosco. Voglio una merenda seria.


Sono sola, eppure tanto ricca. Mi guardo attorno e sono in tutt’uno con il mondo.
Se venisse la formica a farmi il sermone, le dedicherei una canzone e un paio di patatine fritte, con la maionese.
E poi ci faremmo compagnia, senza criticarci, anzi diverremo grande amiche. In questa briciola di tempo nell’universo dello spazio temporale.

Brescia, luglio 2015.


Il sole nel cuore

Sul lago di Garda, c'è un minuscolo negozietto di giocattoli per bambini lavorati col legno. Vi si possono trovare pure piccoli porta dentini da lasciare a Santa Apollonia, scatole, bambole, puzzle, libri, trenini, tessere, carillon.

La prima volta che casualmente entrai, l'anno scorso, era verso metà giugno, con un'amica, venni attratta immediatamente da una vivace esposizione di carillon, in particolare da quelli con disegnati api, fiori, ranocchiette o coccinelle.
C'erano giostre e piccole scatoline scorrevoli, con all'interno l'ingranaggio e un minuscolo pupazzo in legno che appariva ogni volta che si faceva scorrere il coperchio e si apriva la scatola. Allora si "svegliava" la bambolina e fluiva dolcemente il tintinnio della musichetta.

Trovo carini i carillon, perché si possono portare con sè, hanno il sapore dell'antico e suonano ninne nanne. Da piccoli ne avevamo tantissimi in casa: i miei ci portavano spesso a Livigno, in questo negozio di cose di legno e oggetti fuori moda, e ogni volta mia sorella se ne tornava a casa con un carillon nuovo. Se ne stavano su una mensola, io ero molto affascinata dall'ingranaggio interno e a volte rimanevo per delle mezz'ore a guardare la ruota girare e le minuscole lamelle colpite, produrre piccole e dolci melodie.

In quel negozio serviva un signore, spontaneamente e quasi subito, presi il carillon con il ranocchietto buffo e lo portai in cassa.

- Mi può fare un pacco regalo? - chiesi.
- Certamente - disse, aprendo un cassetto e depositando sul banco vari tipi di carta - è un maschietto o una femminuccia?
- Un... maschietto.
- Allora ce l'ho azzurrina... o bianca con i disegnini, anche quest'altra è carina per un bimbo - disse, scartando la carta rosa o con i fiorellini o cuoricini e lasciandomi scegliere fra i tre tipi rimasti.
- Questa - indicai.
- Quanti anni ha il bambino? - chiese, mentre faceva il pacchetto.
- Deve compiere quarantadue anni, è per il suo compleanno - risposi.
Mi guardò per un secondo sorpreso, poi sorrise divertito, mi misi a ridere.
- Non voglio indagare oltre, io mi sentirei colpito nella mia virilità - rise.

Io e la mia amica uscimmo dal negozio ridendo.
- Sono troppo felice di averlo preso! - esclamai. Pensavo che avrebbe potuto permettersi di comprare tutto quello che desiderava, se lo poteva permettere, perciò volevo donargli un pezzo di me, della mia voglia di giocare e scherzare. Cose che non avrebbe potuto ottenere pagando, neanche con tutte le ricchezze del mondo.

Era un fresco giorno estivo e spensierato, quel giorno sul lago.

Mi ricordo poi, l'8 luglio di quell'estate, il vestitino rosa acceso, le fotografie da diva, gli occhiali da sole con i bordi viola, come le scarpe e la borsa, il pranzetto vegano, la passeggiata in centro, e la sera, il temporale forte, le finestre che sbattevano, il regalino scartato, ridevo: - Io ti vedo come un bambinone! - lo prendevo in giro. A mezzanotte, volevo essere la prima a fare gli auguri.

E' passato un anno.

Quarantatre anni, quarantaquattro, cinquanta, cento anni. Non hanno importanza l'età e il tempo che avanza. Non contano le rughe, uno sguardo diverso e il volto più scavato, e non c'entra niente la virilità.
Io avevo scelto il ranocchietto e mi piaceva così, non ci tenevo che diventasse un destriero valoroso e un principe azzurro su un cavallo bianco, con obblighi e vincoli. Ero contenta di saltellare assieme a lui, libera, sulle foglie di ninfee nei laghetti sotto le stelle.

Era questo che sentivo quel giorno.
Era questo che amavo tanto del principino ranocchietto.
Ci sono bambini che crescono e diventano grandi e poi adulti. Fanno tanti compleanni, diventano importanti e invecchiano, ma conservano ancora questo cuore.
Cuore puro, cuore innocente e un po' ingenuo, cuore immenso. 
Cuore di bimbo.


domenica 5 luglio 2015

Istanti

A volte, basta poco per essere felici: un parco pubblico, polmone verde di laghetti e risa di bambini, l'ombra rinfrescante sotto un albero, una tela per sdraiarsi sull'erba e stare a piedi nudi. Un libro, o due, o tre. Ma quelli cartacei.
La fresca brezza estiva e il cicalare degli oziosi. Un gelato per merenda, un chiosco pronto a servirti.
Le persone, la pace, la natura.
Inspiro a pieni polmoni questa vita.

giovedì 2 luglio 2015

Sacro e profano

Mi è sempre piaciuto il vento sulla pelle e la pioggia estiva contro il viso.
Perché hanno inventato gli ombrelli?

Camminare scalza e sentire le vibrazioni della terra, il pavimento fresco.
Perché hanno inventato le scarpe?

E poi. L'acqua e il sole che bagnano i corpi, la sabbia in un giorno di felicità in spiaggia.
Perché hanno inventato i vestiti?

Adoro il fanciullino inconsciente ed indecente che infischiandosene della morale vuole solo cogliere il suo piacere, con il broncio dei bambini a cui viene proibito un giocattolo.
Perché hanno inventato la paura?

Mi piacciono le finestre spalancate, i vestiti fluttuanti al vento e la libertà, il cielo celeste carico di avvenire. Sono colei che profana le regole del buon vivere.
Perché ci hanno costretto al pudore?

Mi sento bene, quando sono io, con lo spirito libero dagli ombrelli, dai vestiti e dalle scarpe, giocando e canzonando, come i bimbi monelli che a scuola finiscono in punizione. 
Non cercate di vestirmi.
Voglio stare così, vicina al cielo, vicino all'amore.

Anima nuda, anima sacra.


mercoledì 24 giugno 2015

Il tempo

Volevo scrivere la mia storia stasera, ma accendo il pc e non riesco ad installare il programma per scrivere.
Non ho molto tempo.
Un dono, un pensiero, come piccoli diari di allora, colorati di pagine ed inchiostro un tempo antico. Un tempo scritto a mano, per te.
Allora i sussurri che sgorgavano velocemente nella mia mente sono rimasti qui, in un crescendo grandioso orchestrale, è un direttore davanti ai musicanti, ma sembrano bambole. Sento un doloroso silenzio. Il disco ancora non parte.
Con foga, fretta, si sbattono contro le pareti del mio cranio, come il vento impazzito di una notte fredda che vorrebbe frantumare le mie finestre e sfondare la porta per entrare in questa stanza.
Mi addormento. Se potessi volare sulla piuma e scrivere questo canto. Prima che il momento passi e non abbia ricordato nulla di noi.
Ma non posso. Per favore, aspettami.

martedì 23 giugno 2015

Sprazzi

In un universo parallelo io chiedo di amarmi ancora una volta. Mia sorella che torna da un viaggio col volto nero, con i capelli rossi e i riflessi viola. E quel che rimane di mia madre, si appiccica al mio polso e diviene una enorme farfalla gonfiabile.
Un palloncino, si sgonfierà?
Torno a casa su di una moto.
Mi fanno bere birra buona, una dolce e una amara, panna.
Una cantina o un garage, ed è lì, che io chiedo ancora per una volta, amore.
 

domenica 21 giugno 2015

Dopo uno spettacolo

Che strana che sono. O forse no.

Mi ha sempre un po' stupito il fatto che molti miei amici musicisti abbiano tra il pubblico, durante i loro concerti, i genitori e i parenti. Sono pure "grandi", cioè, gente di venti, trent'anni, pure quaranta!

Io non li ho, ma mi pare normale così.
Io non li ho avuti neppure per il mio diploma e per la mia tesi.

Mi ricordo che da piccola e da adolescente, c'erano perché essendo minorenne, non potevo spostarmi da sola, così mi accompagnavano in macchina ai miei concerti, ma io non è che ritenessi importante o normale che ci fossero. Forse più che importante, non mi sembrava "normale" che ci fossero.

Per me era normale che ci andassi da sola. Non mi ricordo se ci tenessi però che venissero a sentirmi.

Mi ricordo di quella volta, al concerto del Carmina Burana col coro del conservatorio. Ecco, quella volta era un bel concerto e volevo che venissero, al Teatro Grande di Brescia.

L'ingresso era libero, loro arrivarono giusto in orario ma era pieno e non li fecero entrare. Non c'erano cellulari al tempo per avvisarmi, così io cantai dando il meglio di me credendo che mi stessero guardando. Alla fine dello spettacolo corsi in fretta a cercarli, ma non li vidi. Ricordo che la delusione fu forte, e mi sedetti sui gradini del portone a piangere. Dopo arrivarono a prendermi, non avevano idea di quanto fosse  durato, erano dispiaciuti, purtroppo non c'era replica.

Questo è l'ultimo episodio che mi ricordo. Da allora non ho più chiesto alle persone a cui tenevo di venire, per paura di rimanerci male se non fossero riusciti.

E' abbastanza raro che io invita i miei amici, di solito se lo chiedo, lo faccio perchè ci tengo alla loro presenza, per condividere un mio momento che ritengo importante, più che per "fare pubblico". Non creo mai neppure eventi su Facebook come fanno in tanti, facendo pure spam, mi limito a postare le locandine, per chi vuole e, ultimamente, faccio poco pure quello. 
Lo dico a voce.

Magari sbaglio. E' che dentro di me non sono proprio un personaggio di mondo e di spettacolo.

Ho sempre sentito una certa solitudine nel dover esibirmi ed interagire col pubblico. Interagire? Beh, io non guardo neppure chi c'è giù, chi mi ascolta, non parlo. Non si può dire che interagisca. Lo fanno gli altri.

Ma sono serena così. Salgo, suono, sorrido, ringrazio, scendo.
Sono una solitaria, dentro. Anche con tanta gente, anche con la sala gremita, anche sopra un palco.


mercoledì 17 giugno 2015

Il colore delle mie ali

Ho tolto le lenzuola per cambiarle. Poi, non ho avuto più voglia di andare avanti, ma è arrivata la notte, fuori segna sedici gradi. Non posso dormire su un materasso nudo, per coprirlo allora, stendo una copertina rossa leggera, morbida ma calda, di quelle che si usano in inverno sul divano.
Con la schiena nuda però. Ho freddo. Starnutisco. In questa notte fredda senza vestiti.
Prendo il lembo della coperta e me la avvolgo attorno. Con le ginocchia al petto. Sembro un baco da seta rosso.
Che bizzarra immagine: un baco non sarà che un bruco, che nel suo bozzolo ancora, lotta e lotta per crescere e bucare le pareti.
Ma io non so, non so se voglio vedere fuori. Perché non posso scegliere se rimanere un baco o diventare farfalla? Non mi è concesso.
I bachi se non lottano, se non vogliono, se rifiutano di crescere e diventare farfalle, muoiono.
Ma io questa notte, non voglio volare e conoscere il colore delle mie ali.
Non sarò una farfalla, neppure una crisalide.
Qui. Nei miei fili che mi avvolgono. Solo qui. Per sempre.

mercoledì 10 giugno 2015

Festa della musica 2015

Anche quest'anno sarò presente al più grande appuntamento musicale bresciano, con l'orchestra Musical-Mente, il trio Les nuages, la Busker band e, per la prima volta, l'inedito e raffinatissimo duo acustico Eritha.
Non potete perdervi la prima!
Eritha:
www.facebook.com/Erithamusic

mercoledì 27 maggio 2015

L'amicizia

In questo ultimo anno ho dovuto rivedere molto il mio concetto sull’amicizia, mi verrebbe da scrivere quante amiche si sono rivelate inattendibili o false eccetera… ma non voglio fare la vittima, e mi metto qui invece a guardare come mi comporto di solito come amica.

Quello che fanno gli altri non lo capirò mai fino in fondo. Quello che pensano, vivono o hanno vissuto, è un percorso che non è il mio e con fatica, mi astengo dal giudicare, anche se non credo che per ciò io debba essere la figura su cui sfogare il proprio vissuto.

Partiamo da questa storiella: ci sono due persone in barca, tu sei una di queste e stai remando. Pensi: che bella l’acqua, che bella questa giornata di sole, e sono in compagnia… sono felice… compagnia? Sei molto stanco e ti riposi un attimo, e ti accorgi che se ti fermi la barca non va avanti. Attorno a te un paesaggio silenzioso, di fronte a te la persona dormiente. Andavate avanti perché tu remavi. Tu faticavi e ti illudevi che la barca e il viaggio progredisse, ma sei sempre stato solo. Se tu fossi solo veramente, almeno ci sarebbe meno peso e andresti più velocemente, l’altra persona dorme, è un’illusione.

Lessi questa storiella su un libro scritto da una psicologa americana che trattava i rapporti di coppia. Si riferisce a quelle coppie, dove uno dei due fatica tanto per far funzionare le cose, quando un giorno apre gli occhi e si sofferma a riposarsi, si accorge però che l’altra persona non c’era mai veramente stata, che viaggiava da sola.

Io oggi non voglio parlare d’amore di coppia, ma di amicizia, e questa storiella mi serve per paragonare certi rapporti d’amicizia che sembrano andare avanti a fatica. Credi di avere degli amici. Poi quando tu smetti di cercare una persona, quel rapporto si dilegua.

Ho sempre avuto delle amiche e amicizie con cui passare del tempo, chiacchierare, confidarsi. Finché si era “nella stessa barca”. Ma nell’ultimo anno mi sono ritrovata, come nella storiella, più sola che mai.

Che è successo? E’ colpa mia? Sono stronzi gli altri? Sono stronza io?

Ecco, a sorpresa.
Ecco. Onestamente, non credo di essere una grande amica. E’ il mio pensiero su di me, non so se oggettivamente poi sia così.

In amore io do tanto e vivo fino in fondo, ma le amicizie le ho sempre viste come figure “interscambiabili”.

Mi ricordo fin da piccola, non avevo la mania della “migliore amica”. Qualche volta mi venne chiesto se volevo diventare “l’amica del cuore”, con imbarazzo… non ricordo cosa risposi. Di solito legavo con la compagna di banco, ma non sentivo con trasporto quel vincolo di “fedeltà” e intensa complicità che vedevo nelle altre amicizie.

L’amore è un rapporto romantico, spirituale e fedele, l’amicizia è un concetto cameratesco, ci sono milioni di persone al mondo, posso avere più amici e amiche senza legarmi a nessuno, l’ho sempre vissuta così.

Probabilmente questi miei pensieri sono filtrati nel mio modo di fare e le mie amiche hanno percepito qualcosa, oppure ho sempre trovato amicizie con persone che la pensavano come me, di conseguenza io ho avuto la stessa importanza per loro, come loro lo erano per me. Nel momento in cui nella loro vita c’è stato qualcosa di più importante, mi hanno lasciato remare da sola.

Mi vedo così. E dalla parte opposta, mi vedo invece bimba, che ci rimanevo male quando in seconda elementare la mia compagna di banco preferì mettermi da parte per essere più amica di altre bambine con i genitori che parlavano bene l’italiano. O quando in seconda media, Francesca preferì legarsi a delle ragazze che facevano già le superiori. Io ero acerba, senza libertà di uscita, straniera, non alla moda, forse la imbarazzavo.

Mi ricordo come se non fossi io, ventenne, di Elisa che disperata mi telefonava alle tre di notte, alle cinque del mattino, io lasciavo il telefono acceso apposta perché era appena stata lasciata e magari aveva bisogno di parlare. Ero io? Così disponibile? Mi sento sempre come se fossi cattiva, non so perché.

Ero sempre io che alle superiori, troncai tutte le amicizie che mi erano state vicine e senza spiegazioni proseguii sulla mia strada, senza più loro. Non volevo più essere fragile e non riuscivo a diventare forte con tutta quella gente che non voleva che cambiassi. Credevo che essere forte equivalesse a comportarsi da stronzi, e che la debolezza fosse perdersi nei sentimenti. Per questo dovevo chiudere col passato, loro volevano che io continuassi ad essere la Thasala “debole”.

C'era Sara. Sempre presa in giro. Quella scena di lei in ginocchio alla capoclasse per farsi ridare il cerchietto. Sara era brutta e un po' ritardata, la prendevano in giro tutte. Un giorno le chiesi cosa avrebbe fatto domenica pomeriggio, per uscire insieme a giocare a bowling e per prendere un gelato. Onestamente, mi annoiai a morte quel pomeriggio, a diciassette anni non era il modo migliore di passare il tempo, ma lei era felice e a distanza di anni penso di avere fatto bene. Quando le mie compagne di classe seppero che ero uscita con la "sfigata", presero in giro pure me.

Chissà cosa avranno pensato di me: Laura, Barbara, quando alle superiori mi allontanai. Che ero un’amica falsa e cattiva. Laura, so che ci rimase così male che pianse e la sua poca autostima che aveva ripreso un po’ con la mia amicizia, crollò del tutto. Barbara mio odiò.

Nei tempi recenti pure una mia amica ha chiuso tutti i ponti con me senza spiegazioni, come ho fatto io in passato con altre persone. La differenza era che io avevo sedici anni, lei oggi trentuno. Non so darle della stronza, forse solo immatura, io oggi forse, dico forse, non so se farei così. Ma io sono immatura in tante altre cose.

Le mie amiche che nel momento del bisogno sparirono? Avevano problemi più grandi di loro probabilmente. Ho tanto riflettuto se anch’io ho fatto così. Ma onestamente, credo di no. Io nel momento del bisogno, se potevo, c’ero. Anche solo con un sms da lontano, se non subito, il giorno dopo.

Penso di essere una buona amica. Forse amo più me che gli amici, tutto qui. Forse sono un po’ troppo diretta e mi infiammo facilmente, ma non ho mai pugnalato nessuno alle spalle.

Sono passati mesi, c’è stata tanta delusione, sconforto, abbandono e solitudine. Le amicizie si sono dileguate da sole, pazienza, me ne farò altre. Altre invece, poche, sono rimaste in piedi. E poi ci sono quelle che ho chiuso io, mica solo gli altri.

Che strano quando credevo che le cose fossero per sempre, colpa delle favole e dei libri con i loro: “E vissero per sempre felici e contenti” e i film con gli idilliaci: “The End”. Mi viene da sorridere. Non voglio pensare che tutto finisca, ma semplicemente, che tutto si evolve.