La vita è un concetto strano: si nasce e poi si muore. L’uomo
ha da sempre cercato il senso in tutto ciò. Ha cercato di capire da dove
proveniamo, dove finiremo quando moriremo, e perché alcuni nascono più
fortunati e altri disgraziati. Sono nate le religioni nel tentativo di
spiegare. C’è la scienza che ci riesce fino ad un certo punto. Ognuno di noi ha
una vita, un dna genetico e un percorso che non sarà mai uguale a quello di
nessun altro.
Siamo talmente unici e diversi che nessuno potrebbe insegnare
nulla a nessuno, perché le esperienze di una persona non saranno mai identiche
a quelle di qualcun altro, ma proprio perché diverse, possiamo arricchirci
cogliendone le diversità, questo sì.
Ma c’è una cosa che ci accomuna tutti quanti: neonati,
anziani, donne, uomini, bianchi o neri… noi cerchiamo la felicità.
Vorremmo stare bene, vorremmo stare meglio. Vorremmo essere
sereni, vorremmo poter chiamare vita quella cosa che ci passa accanto giorno
dopo giorno.
Ma la felicità cos’è? Tanti la cercano senza sapere cos’è.
Io non so cosa sia la felicità, non lo so. Di solito si
pensa che se le cose andassero come vorremmo noi, allora saremo felici. Perciò
se stiamo bene di salute, se siamo belli, ricchi, se abbiamo successo, amore,
allora saremo felici. Se tutto gira per il verso giusto. Se non ci
affatichiamo, se vinciamo. Allora saremo felici.
Però, c’è gente che ha tutte queste cose e non è felice, e
chi non ha nulla e invece lo è.
Ma allora cos’è? Sono felice io? Non lo so. E’ una domanda
difficile.
Da piccola non ero felice, non saprei dire esattamente il
perché. Mi sembrava di guardare la vita e di non essere quella bambina che
stava in quella casa, in quella famiglia. Io ero come un qualche adulto che precedentemente
si era suicidato sotto un cielo nebuloso, in un giorno di disperazione, di solitudine
e di pazzia, e che aveva poi scelto di tornare in quella specifica famiglia, con
quelle persone, per apprendere le lezioni che mi ero rifiutato di affrontare ed
imparare nel percorso precedente.
Dovevo apprendere il significato dell’essere diversi, il razzismo
e l’emarginazione in prima persona. Dovevo convivere con persone disabili
fisicamente e mentalmente, e superarne la vergogna. Dovevo capire, amare anche
le loro difficoltà. Vivere con loro significava anche rinunciare a tante cose,
dall’affetto ai beni materiali, al tempo. Dovevo imparare a cavarmela da sola
presto.
Mi hanno raccontato delle ferite di guerra, dei
bombardamenti e dei morti, dei cari persi e più visti. Dei cari dispersi senza
averne più notizie. Delle malattie, dei coprifuoco. Sentivo queste storie come
fossero vicende di un libro di storia inventato. Le sentivo mentre vivevo in
questo paese ricco e civile. E le sentivo solo in famiglia, non c’era la
maestra a scuola che mi confermasse e desse una realtà storica a quelle
leggende.
E non so perché, nonostante i molti documentari, i molti
film sull’argomento, non ho mai voluto guardare niente che ne parlasse. Non ho
mai visto un film sul mio paese.
Lingua diversa, religione diversa, storia diversa. Faccia
diversa. Cittadinanza diversa. Diritti diversi. Ecco.
Beh, non ero felice.
Ho sempre sentito come un vuoto da colmare. Con il cibo, con
le mille cose da fare, con la presenza di persone, perché quando tutti andavano
via e le luci si spegnevano su di me, ero al buio, ero dentro quel vuoto. Sentivo
il vuoto così forte, come una sensazione di ansia, che qualunque stanza o
spazio occupassi, dovevo riempirla di oggetti, e le pareti di quadri.
Quand’ero piccola non ero come ora. Ora cerco le luci e
spalanco le finestre, ora sto bene anche con una parete bianca, ma ricordo
chiaramente della mia antica fobia di serrare le ante, di assicurarmi che le
porte fossero chiuse a chiave e che “gli altri” non potessero entrare. Avevo
forse otto anni e temevo che entrasse qualcuno in casa. La mamma mi chiedeva
sempre perché chiudessi tutte le ante, quando lei le voleva aperte.
Per anni il mio incubo era di scappare da qualcuno e di
chiudermi in qualche stanza, per proteggermi. Io cercavo di girare la chiave
nella toppa, poi tiravo giù la maniglia della porta per assicurarmi che fosse
chiusa, e invece era aperta, e rimaneva ostinatamente aperta anche se
continuavo a girare la chiave. E il pericolo si avvicinava, sempre di più.
Dovevo proteggermi. Ma non ce la facevo. Nel sonno gridavo dalla paura.
Quando
mi svegliavo, ero sola e sudata nella stanza buia. A volte scendevo per
controllare che avessero chiuso bene la porta dell’entrata. Qualche volta
osservavo il cielo di notte e mi rendevo conto di essere nel mondo reale, questo
mi calmava. Da grande imparai a chiudermi a chiave in camera per andare a dormire.
Da piccola credevo che i legami e gli affetti, le amicizie
fossero per sempre. Ma non era così. Non volevo che mi abbandonassero, ma fui
quasi sempre io ad interrompere le amicizie. Io ho abbandonato i posti di
lavoro, io ho abbandonato le amicizie, io sono quella che comincia qualcosa e
poi l’abbandona. Io faccio agli altri quello che da piccola maggiormente mi
feriva e non volevo che facessero a me.
Ho cercato tanto di capire che cos’è la felicità, del perché
sono io, con quest’anima, in questo corpo, in questa famiglia, in questa
provincia, in questa nazione, in questa storia.
Ho capito una cosa. Io sono felice quando posso essere me
stessa.
La felicità è poter essere se stessi.
Sono me stessa quando amo una persona e posso dirglielo ed
abbracciarla forte. Sono me stessa quando posso piangere o ridere senza dover
spiegare cose che non mi vanno, quando non devo giustificarmi.
Sono me stessa quando non mi importa di quello che la gente
pensa di me, quando mi vesto come piace a me, quando le cose che dico sono le
stesse che penso. Quando non devo dire bugie, quando non devo soffocare le
emozioni e i desideri. Quando le persone che amo mi amano.
Quando la parete
della stanza ha solo appesa quella vecchia chitarra che mio padre acquistò col
suo primo stipendio in Italia, perché gli mancava tanto di suonare. E mia madre
non disse nulla, anche se impiegò quasi tutti i soldi per l’acquisto ed eravamo
in cinque, noi fratelli tutti piccolini, con tutto un mese davanti, con solo il
suo stipendio e con tutto ancora da ricostruire.
Sono me stessa quando faccio quello che mi piace, quando
suono e quando posso chiamare “casa” l’ambiente in cui ritorno ogni sera. Che
sia grande o piccola, semplice o sfarzosa. In città o in paese. Non importa. La
casa è quel posto che deve permetterti di essere te stesso quando torni, perché
fuori non sempre la vita te lo permette. Ma dentro le tue mura sì. Quando torni
puoi essere triste, puoi essere bambino, puoi gridare o fare le cose che ti
piacciono, e c’è qualcuno che ti ascolta e che ti capisce. Perché ti ama. E’ l’amore
che vuole che tu sia te stesso e nessun altro.
La felicità sarà questa?
Sono passati tanti anni dalle mie paure. A volte mi sembra
che non passino mai, che il tempo sia solo una scusa e che oggi come allora, quelli
che mi inseguivano tornino a cercarmi a quella porta che non riesco a chiudere.
A volte ho come la sensazione che fuori ci sia lei, la piccola Thasala. Oggi è
lei che bussa, ed io disperata, continuo a girare la chiave nella toppa, non la
voglio fare entrare nella mia vita. Piccola, scura, insolente e sgraziata. Cattiva
e brutta come quelli del popolo straniero.
Poi sento il vento freddo alla mia destra e il rumore della
pioggia. Guardo la finestra spalancata che mi inonda di luce, osservo le pareti
bianche e seminude di questa stanza, non ho fretta di riempirle, o forse non le
riempirò.
Non so niente, e non conosco le risposte, sono troppo piccola in questa immensa vita che mi chiama, ma prometto che
questa volta rimarrò, imparerò, lotterò, amerò. Non me ne andrò prima del tempo.
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