giovedì 10 luglio 2014

La felicità cos'è?

La vita è un concetto strano: si nasce e poi si muore. L’uomo ha da sempre cercato il senso in tutto ciò. Ha cercato di capire da dove proveniamo, dove finiremo quando moriremo, e perché alcuni nascono più fortunati e altri disgraziati. Sono nate le religioni nel tentativo di spiegare. C’è la scienza che ci riesce fino ad un certo punto. Ognuno di noi ha una vita, un dna genetico e un percorso che non sarà mai uguale a quello di nessun altro.
Siamo talmente unici e diversi che nessuno potrebbe insegnare nulla a nessuno, perché le esperienze di una persona non saranno mai identiche a quelle di qualcun altro, ma proprio perché diverse, possiamo arricchirci cogliendone le diversità, questo sì.
Ma c’è una cosa che ci accomuna tutti quanti: neonati, anziani, donne, uomini, bianchi o neri… noi cerchiamo la felicità.

Vorremmo stare bene, vorremmo stare meglio. Vorremmo essere sereni, vorremmo poter chiamare vita quella cosa che ci passa accanto giorno dopo giorno.

Ma la felicità cos’è? Tanti la cercano senza sapere cos’è.

Io non so cosa sia la felicità, non lo so. Di solito si pensa che se le cose andassero come vorremmo noi, allora saremo felici. Perciò se stiamo bene di salute, se siamo belli, ricchi, se abbiamo successo, amore, allora saremo felici. Se tutto gira per il verso giusto. Se non ci affatichiamo, se vinciamo. Allora saremo felici.
Però, c’è gente che ha tutte queste cose e non è felice, e chi non ha nulla e invece lo è.

Ma allora cos’è? Sono felice io? Non lo so. E’ una domanda difficile.

Da piccola non ero felice, non saprei dire esattamente il perché. Mi sembrava di guardare la vita e di non essere quella bambina che stava in quella casa, in quella famiglia. Io ero come un qualche adulto che precedentemente si era suicidato sotto un cielo nebuloso, in un giorno di disperazione, di solitudine e di pazzia, e che aveva poi scelto di tornare in quella specifica famiglia, con quelle persone, per apprendere le lezioni che mi ero rifiutato di affrontare ed imparare nel percorso precedente.

Dovevo apprendere il significato dell’essere diversi, il razzismo e l’emarginazione in prima persona. Dovevo convivere con persone disabili fisicamente e mentalmente, e superarne la vergogna. Dovevo capire, amare anche le loro difficoltà. Vivere con loro significava anche rinunciare a tante cose, dall’affetto ai beni materiali, al tempo. Dovevo imparare a cavarmela da sola presto.

Mi hanno raccontato delle ferite di guerra, dei bombardamenti e dei morti, dei cari persi e più visti. Dei cari dispersi senza averne più notizie. Delle malattie, dei coprifuoco. Sentivo queste storie come fossero vicende di un libro di storia inventato. Le sentivo mentre vivevo in questo paese ricco e civile. E le sentivo solo in famiglia, non c’era la maestra a scuola che mi confermasse e desse una realtà storica a quelle leggende.
E non so perché, nonostante i molti documentari, i molti film sull’argomento, non ho mai voluto guardare niente che ne parlasse. Non ho mai visto un film sul mio paese.

Lingua diversa, religione diversa, storia diversa. Faccia diversa. Cittadinanza diversa. Diritti diversi. Ecco.
Beh, non ero felice.

Ho sempre sentito come un vuoto da colmare. Con il cibo, con le mille cose da fare, con la presenza di persone, perché quando tutti andavano via e le luci si spegnevano su di me, ero al buio, ero dentro quel vuoto. Sentivo il vuoto così forte, come una sensazione di ansia, che qualunque stanza o spazio occupassi, dovevo riempirla di oggetti, e le pareti di quadri.

Quand’ero piccola non ero come ora. Ora cerco le luci e spalanco le finestre, ora sto bene anche con una parete bianca, ma ricordo chiaramente della mia antica fobia di serrare le ante, di assicurarmi che le porte fossero chiuse a chiave e che “gli altri” non potessero entrare. Avevo forse otto anni e temevo che entrasse qualcuno in casa. La mamma mi chiedeva sempre perché chiudessi tutte le ante, quando lei le voleva aperte.

Per anni il mio incubo era di scappare da qualcuno e di chiudermi in qualche stanza, per proteggermi. Io cercavo di girare la chiave nella toppa, poi tiravo giù la maniglia della porta per assicurarmi che fosse chiusa, e invece era aperta, e rimaneva ostinatamente aperta anche se continuavo a girare la chiave. E il pericolo si avvicinava, sempre di più. Dovevo proteggermi. Ma non ce la facevo. Nel sonno gridavo dalla paura.

Quando mi svegliavo, ero sola e sudata nella stanza buia. A volte scendevo per controllare che avessero chiuso bene la porta dell’entrata. Qualche volta osservavo il cielo di notte e mi rendevo conto di essere nel mondo reale, questo mi calmava. Da grande imparai a chiudermi a chiave in camera per andare a dormire.

Da piccola credevo che i legami e gli affetti, le amicizie fossero per sempre. Ma non era così. Non volevo che mi abbandonassero, ma fui quasi sempre io ad interrompere le amicizie. Io ho abbandonato i posti di lavoro, io ho abbandonato le amicizie, io sono quella che comincia qualcosa e poi l’abbandona. Io faccio agli altri quello che da piccola maggiormente mi feriva e non volevo che facessero a me.

Ho cercato tanto di capire che cos’è la felicità, del perché sono io, con quest’anima, in questo corpo, in questa famiglia, in questa provincia, in questa nazione, in questa storia.
Ho capito una cosa. Io sono felice quando posso essere me stessa.

La felicità è poter essere se stessi.

Sono me stessa quando amo una persona e posso dirglielo ed abbracciarla forte. Sono me stessa quando posso piangere o ridere senza dover spiegare cose che non mi vanno, quando non devo giustificarmi.
Sono me stessa quando non mi importa di quello che la gente pensa di me, quando mi vesto come piace a me, quando le cose che dico sono le stesse che penso. Quando non devo dire bugie, quando non devo soffocare le emozioni e i desideri. Quando le persone che amo mi amano. 
Quando la parete della stanza ha solo appesa quella vecchia chitarra che mio padre acquistò col suo primo stipendio in Italia, perché gli mancava tanto di suonare. E mia madre non disse nulla, anche se impiegò quasi tutti i soldi per l’acquisto ed eravamo in cinque, noi fratelli tutti piccolini, con tutto un mese davanti, con solo il suo stipendio e con tutto ancora da ricostruire.

Sono me stessa quando faccio quello che mi piace, quando suono e quando posso chiamare “casa” l’ambiente in cui ritorno ogni sera. Che sia grande o piccola, semplice o sfarzosa. In città o in paese. Non importa. La casa è quel posto che deve permetterti di essere te stesso quando torni, perché fuori non sempre la vita te lo permette. Ma dentro le tue mura sì. Quando torni puoi essere triste, puoi essere bambino, puoi gridare o fare le cose che ti piacciono, e c’è qualcuno che ti ascolta e che ti capisce. Perché ti ama. E’ l’amore che vuole che tu sia te stesso e nessun altro.

La felicità sarà questa?

Sono passati tanti anni dalle mie paure. A volte mi sembra che non passino mai, che il tempo sia solo una scusa e che oggi come allora, quelli che mi inseguivano tornino a cercarmi a quella porta che non riesco a chiudere. A volte ho come la sensazione che fuori ci sia lei, la piccola Thasala. Oggi è lei che bussa, ed io disperata, continuo a girare la chiave nella toppa, non la voglio fare entrare nella mia vita. Piccola, scura, insolente e sgraziata. Cattiva e brutta come quelli del popolo straniero.

Poi sento il vento freddo alla mia destra e il rumore della pioggia. Guardo la finestra spalancata che mi inonda di luce, osservo le pareti bianche e seminude di questa stanza, non ho fretta di riempirle, o forse non le riempirò.


Non so niente, e non conosco le risposte, sono troppo piccola in questa immensa vita che mi chiama, ma prometto che questa volta rimarrò, imparerò, lotterò, amerò. Non me ne andrò prima del tempo.



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