mercoledì 15 ottobre 2014

Storie dell' Indocina, III parte - Mio padre

Veniva da un po’ più a nord, nel senso che c’erano dei periodi dell’anno in cui si portavano dei golfini, e faceva freddo “Come a settembre in Italia quando piove”.

Erano in quattro fratelli, mio nonno faceva il taxista. Aveva sedici anni in più di mia nonna e morì quando mio padre era un ragazzino. Ho sentito raccontare questo episodio da mio padre, ma una volta non capivo perché terminasse il racconto con una strana risata, ad alta voce. Il pubblico ascoltatore rimaneva di sasso per il finale, in un silenzioso imbarazzo, non sapendo se partecipare, se ridere con lui o dispiacersi, se fosse uno scherzo o che altro. Ma credo che se avesse detto le cose con un tono di voce contrito e con qualche lacrima, non si sarebbe percepita la stessa amara, soffocata rabbia e disperata rassegnazione.

“Litigammo, mi sgridò, io mi arrabbiai,  per ripicca andai via di casa, portai via anche lo zio. Andammo al cinema, quando tornai lui era morto”.

Mia madre si lamenta sempre che mio padre racconta le cose così… male, senza condimenti, scrive pure male, dice lei. E queste due righe sono tutto ciò che so di mio nonno, a parte che credo sia morto d’infarto o di pressione alta… di più non so. Ma c’è un’unica foto di lui in bianco e nero in casa e ritrae l’immagine di un uomo scontroso e burbero. “Come assomiglia a papà” dicevo da piccola.

Così mio nonno morì, lasciando mia nonna sola al mondo con quattro figli piccoli. Se della famiglia di mia madre so molte cose dei parenti e dell’albero genealogico, che durante il dominio francese qualche europeo si è infiltrato fra i miei avi e so pure un sacco di aneddoti e racconti di vita, di quella di mio padre non so praticamente nulla. Ho sentito raccontare che mia nonna scese da ancora più a nord, giovane e sola con una sua sorella. Ma che nella folla la perse di vista e non si rividero mai più. Non so come abbia poi conosciuto mio nonno.

A mio padre è rimasto impresso il sacrificio di suo fratello e di sua sorella maggiori, che ad un certo punto rinunciarono a studiare per aiutare la madre, per mantenere i due fratelli minori e consentire a loro di studiare e crearsi un futuro dignitoso. E racconta che la nonna si privò di tutto, di una vita, per sobbarcarsi da sola la famiglia. Ogni mattino si alzava all’alba e andava a vendere pesce al mercato. Tornava la sera tardi, stanca. Quando i figli crebbero, ci fu la guerra, poi la dittatura, poi la famiglia distrutta, ogni membro in un continente diverso. Morì con un figlio in Italia, uno in Canada e uno negli Stati Uniti. Solo la femmina era al suo capezzale. Questa fu la vita di mia nonna.

“A volte, per cena, avevamo un pugno di riso e un uovo da dividerci in cinque” ricordo che raccontò una volta mio padre.

Quello che so di lui, è che con una madre al lavoro tutto il giorno, senza padre, senza ricchezza e con molte rinunce, crebbe con troppa libertà, imparando a cavarsela da solo e con un forte desiderio di rivalsa e di ambizione.

Fu certamente la sua testa brillante, ma credo che contò molto anche la forte motivazione di rendere felice mia nonna, a spingerlo a studiare e ad impegnarsi tanto da superare il test di ammissione ed arrivare primo fra le migliaia di candidature presso l’unica università di architettura di tutto il paese, giù, nella capitale del sud, dove scese con il sogno di diventare architetto e dove conobbe mia madre.

Quando tornò a casa per comunicarlo a mia nonna, lei gli disse solo: “Bravo”. Poi andò in un’altra stanza e ritornò con dei soldi: “Questa sera esci a divertirti” gli disse. Ma era sicuramente commossa ed orgogliosa, e quei soldi erano forse una sua giornata intera di lavoro, avrebbe poi fatto economia da un’altra parte, sull’essenziale, era il modo di mia nonna di esprimergli orgoglio e affetto materno. 
Nessuna scena teatrale. 

Come quella volta che lei venne in Italia, avevo sedici anni e mi vide per la prima volta. Nessun abbraccio, ma mi tenne strette le braccia annuendo, era un po’ tremante, eppure quegli occhioni neri, rotondi e buoni, quelle rughe profonde, i capelli bianchi raccolti, il volto magro e segnato dalla sofferenza, mi penetrarono in fondo fino a farmi male.

Lo scrittore Antoine de Saint-Exupéry scrisse: “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. La mia famiglia paterna è così, non si interpreta tramite quello che si vede con gli occhi e si sente con le orecchie.

Degli anni che mio padre visse da solo come studente universitario, so qualcosa dai racconti di mia madre, altrimenti non potrei dire di conoscerlo.

So che per mantenersi, dava ripetizioni di matematica di giorno, mentre la notte rimaneva in piedi per disegnare i fumetti per un giornale. Che aveva solo due camicie e due paia di pantaloni, così doveva lavare ogni giorno e fare asciugare la notte in tempo. Cucinava e mangiava per se stesso, ma per lui era normale digiunare quando non c’era nulla, perché i soldi servivano per pagarsi gli studi, non rinunciò però a comprarsi una chitarra che imparò da autodidatta a suonare.

Di certo non poteva concedersi divertimenti, e neppure amicizie. Così la chitarra divenne il suo conforto e la sua compagnia nei troppi momenti di fatiche e di solitudine.


Nessun commento:

Posta un commento