venerdì 24 giugno 2016

I soldi

Mi piace molto quella frase che dice lui, quasi alla fine del film: "I segreti di Brokeback Mountain".


"Se non hai niente, non perdi niente".

In questo contesto non si riferisce ai soldi. Ma il pensiero si addice molto bene anche alle cose più materiali.

I miei genitori provengono dai due poli opposti della classe sociale, e fin da piccola ho osservato, ascoltato, vissuto e imparato molto dalle storie altrui.

Nessuno delle mie conoscenze ha una madre che è cresciuta in una famiglia di quattro fratelli, ognuno dei quali aveva la cameriera e l'autista personale, del personale di servizio che viveva nella stessa, enorme e vasta casa a più piani, nella Saigon di allora, quando ancora aveva rapporti con la Francia e gli Stati Uniti. La sua famiglia possedeva diverse automobili Peugeot e Renault, le macchine francesi le avevano solo i ricchi. Anzi, avere un'automobile era già di per sé un lusso. Quando in seguito crebbero, i fratelli cavalcavano moto Honda, Suzuki, Yamaha e Kawasaki. Mangiavano prodotti e latticini francesi, in un contesto in cui la maggior parte della società non possedeva un congelatore. Studiavano in scuole e collegi privati francesi e ne parlavano bene la lingua.

Ebbene. Un giorno scoppiò la guerra. Si perse tutto. Si persero figli, padri, mariti e amati in guerra. Intere famiglie vennero distrutte. E dopo la sconfitta, lo Stato chiuse le banche e si impossessò del denaro, di tutti i conti correnti. Il dittatore decise che le famiglie con una casa troppo grande ne dovevano cedere un pezzo. Il cibo veniva centellinato e non si poteva più mangiare quando si aveva voglia. 
Diverse famiglie prepararono quella che era l'ultima cena, con il veleno per i topi nei piatti. E morirono tutti insieme. I nonni e i genitori si suicidarono portando via con sé anche i figli e i nipoti, per evitare loro una vita di umiliazione, sopportazione e sacrifici.

C'est la vie! 
Il giorno prima si era signori, serviti e riveriti, un attimo dopo dei pezzenti.

Cosa ho imparato da lei?
Mi diceva, mi dice sempre:


"I soldi sono cose che vanno e vengono".
"Sono le maniere che ti fanno rispettare, le buone maniere non te le possono portare via nessuno".
"Studia, perché le nozioni e le cose che impari te le porti in qualsiasi nazione, i soldi, le case, le ricchezze, no".



Quando il mio nonno paterno, che manteneva la numerosa famiglia facendo il taxista, morì, lasciando la moglie giovane sola con quattro figli piccoli, mia nonna, piccola e quasi analfabeta, si ritrovò ad ogni alba a vendere pesce alla sua bancarella, al mercato. Stava tutto il giorno fuori. Il suo sogno era di dare un'istruzione migliore, rispetto a lei, ai suoi figli, perché potessero riscattarsi e conquistare una vita dignitosa.
Per vivere una vita dignitosa, lei sapeva che dovevano andare avanti con la scuola e fare un buon lavoro, un lavoro che venisse rispettato.
Mio padre crebbe con molta privazione. Ricordo ancora oggi quando raccontava, a noi bambini che non finivamo le cose nel piatto, che lui doveva dividere un solo uovo sodo in cinque, e per rendere più saporita la piccola ciotola di riso in bianco e bollito, ci metteva su tanta salsa di pesce.
Raccontava pure che aveva solo due camicie di ricambio e che ogni sera ne lavava una e la metteva asciugare. I soldi della nonna, guadagnati con tanta fatica,  non dovevano essere spesi in cose frivole e vestiti, ma per lo studio, mio padre aveva tanto rispetto e devozione per lei, e si impegnò per raggiungere lo scopo.

Fu lui a guidare la fuga e a trascinare intere famiglie e a portarle in salvo. Affrontò pure gli squali, quando il motore non funzionò e si tuffò nel mare per controllare. I pirati che ci assalirono, desistettero alla violenza quando mia madre supplicò di non gettare in mare me, che avevo un anno, e uccidere lei. Forse i bambini piccoli fanno tenerezza... si limitarono a portare via tutte le ricchezze - cavarono via persino i denti d'oro dalle bocche - e se ne andarono. Non vi era più nessun oro e moneta. Solo la vita intatta di tutti.

Mio padre da solo, senza sapere una parola di italiano, senza aiuti, conoscenze, amici, parenti, nulla, riuscì a mantenerci e a farci studiare tutti e quattro. Ad acquistare una casa. A riprendere a studiare a più di quarant'anni, mentre lavorava, per risostenere gli esami dell'ultimo anno di università e riprendere la laurea.
Pure mia madre, non potendo più esercitare la sua attività di insegnante di lettere, scese in campo e tornò con umiltà a scuola: si iscrisse alle medie serali per conoscere la storia e la letteratura italiana. Me la ricordo, l'anno in cui lei e mia sorella fecero l'esame di terza media, nello stesso istituto. Una al corso serale e l'altra a quello del mattino. In seguito prese pure il diploma triennale per segretaria ed operatore d'ufficio. Era entusiasta di imparare cose nuove.


"E' più importante avere la capacità di produrre i soldi, che ereditarli e basta". 
"Se hai il cervello e le capacità, ti sentirai sempre al sicuro".
"I figli di papà che si adagiano non si sentiranno mai al sicuro, non sono capaci di fare da soli".



La gente spesso si stupisce della mia serenità riguardo il lavoro e l'economia, perché non ho un lavoro "fisso".
Io sono tranquilla in questo perché "ho le capacità di fare i soldi". Piuttosto, mi sento più fortunata di quelli che ogni mattina si alzano e vanno a fare una cosa che magari odiano e dipendono dalle apparenze e dai vizi. Loro potrebbero comunque essere lasciati a casa da un giorno all'altro e ritrovarsi in condizioni peggiori delle mie, che almeno sono felice con poco: mi basta un pensiero gentile, una bella compagnia, un giorno di pioggia o di sole. Una passeggiata. Un bacio.


"I soldi sono cose che vanno e vengono".
"Se hai il cervello e le capacità, ti sentirai sempre al sicuro".


Non mi affido molto allo Stato, che continua a cambiare le carte in tavola. Non mi affido molto alla pensione che non avrò, perché continuano a spostarla più in là. Ma io da anziana, se avrò bisogno di soldi, potrò continuare a dare lezioni di pianoforte, imparerò a fare torte e a venderle. E siccome mi piace imparare, da qui ad allora, saprò fare un sacco di cose che mi faranno fruttare denaro.


"Se non hai niente, non perdi niente".



Questo invece, riguarda il mio attuale patrimonio. Non è che non ho nulla, ma mi rendo conto che quando esco di casa, la mia tranquillità è proprio il pensiero che, se mi entrassero i ladri, non troverebbero nulla da portar via. E questa sensazione di leggerezza mi porta a pensare che quasi quasi preferisco restare così: circondata da mobili modesti e cose semplici. Penso che mi dispiacerebbe perdere il pc, per le foto, i video, la musica e gli spartiti che ho dentro, più che per il suo valore.

Persino il sax che tengo in casa mia non è il più bello che ho, perché io so che, se uno sa suonare, suona bene con tutto.

Il cellulare? Lo dimentico spesso in macchina e in giro e so che nessuno lo vorrebbe rubare. Non ho la smania di mostrarmi con vestiti firmati, macchina e telefoni costosi, mi sento bella e sicura anche senza, e vivo leggera, proprio con la sensazione che non perderò niente. Non mi portano via niente.

La ricchezza di una persona è nella salute, nelle maniere educate, nella cultura, nel carattere e nella voglia di imparare. E' questo l'insegnamento che mi hanno trasmesso, con esempi di vite cadute e rialzate. Di tenacia e speranza.
Io voglio diventare ricchissima in queste cose.
Spendere i soldi in viaggi per arricchire i ricordi, in corsi per imparare. In regali per le persone a cui tengo per arricchirmi dei loro sorrisi.


"Sono le maniere che ti fanno rispettare, le buone maniere non te le possono portare via nessuno".
"Studia, perché le nozioni e le cose che impari te le porti in qualsiasi nazione, i soldi, le case, le ricchezze, no".
"I soldi sono cose che vanno e vengono".
"Se hai il cervello e le capacità, ti sentirai sempre al sicuro".


Me lo ricorderò sempre. Mamma, papà.


domenica 19 giugno 2016

Sabato 25 giugno 2016

Martedì 21 giugno 2016

La mia partecipazione all'evento del 21 giugno, dove avrei dovuto suonare alle cascate di Gaina, è stata annullata perché il fiume ha esondato.

Ci vediamo a Desenzano il 25 giugno!

giovedì 16 giugno 2016

Sabato 18 giugno 2016

Ore 11:00 palco Brend (n.13), Les Nuages 
Ore 12: Piazza Mercato (n.14), Les Nuages
Ore 19:15 palco Brend (n.13), Les Nuages
Ore 20:00 palco Brend (n.13), Trio Sax



venerdì 10 giugno 2016

Domenica 12 giugno 2016

AGGIORNAMENTO: Causa mal tempo, l'evento è stato posticipato a domenica 3 luglio.

Eccomi anche quest'anno!
Presente con i Les Nuages alla cantina Gatta.
Per info:
http://www.gussagonews.it/vie-del-gusto-viaggio-vigne-sapori-gussago-giugno-2016

Sabato 11 giugno 2016

venerdì 3 giugno 2016

L'ombrello

Non ero un'adolescente come le altre, era come se fossi caduta in volo sulla terra per sbaglio ed avessi fretta di andare via.
Qui per errore. Disagio.
Mi sentivo come se ogni giorno dovessi giustificarmi:  

Scusatemi se ci sono.

Quando piove mi vengono in mente diversi episodi.

C'era, c'è quel mio mondo privato, di fantasticare sugli sconosciuti, di immaginarmi le loro stravaganti vite che non conoscevo.

Una volta, pioveva forte e io camminavo in via Mazzini, come al solito senza ombrello, perché io lascio sempre in giro centinaia di ombrelli, sciarpe, guanti, cappelli. Ed è per questo che non ne ho mai uno.
Come al solito ero imbronciata e non vedevo dove andavo a sbattermi. Allora non portavo ancora le lenti a contatto, e mai mi sarei sognata di girare con gli occhiali, perchè da "quattrocchi" mi vedevo orribile. 
Preferivo rimanere bella e vivere in un mondo dai contorni indefiniti. Poi, non c'era nulla di bello da vedere nella realtà, tanto meglio non accorgersi.

Sedici anni, quarantun chilogrammi distribuiti su un metro e cinquantasette centimetri, sessantasette con i tacchi alti. Ma io potevo andare in giro con le microgonne, le calze a rete e le maglie aderenti che non risultavo volgare. Le magre possono mettersi tutto!

Pioveva a dirotto, dicevo, i capelli e tutto il mio corpo erano inzuppati. La camicetta scollata appiccicata alla pelle. Pure l'acqua dentro le scarpe col tacco alto. Alla fermata dell'autobus ognuno si faceva i fatti propri, sotto gli ombrelli e riparati dal paletot. Mi sembravo l'unica a curiosare quella strana gente.

Magari io col trucco colato, il rossetto abbondante e le calze provocanti sembravo una straniera da stare alla larga. Infatti: mi stavano alla larga. 

Ma c'era un ragazzo, credo mio coetaneo, che mi osservava. Gli rivolsi un'occhiata. Guardai il cielo gocciolante e guardai di nuovo lui. 
Mi sorrise, si staccò dal muro, venne verso di me, allungò il braccio sulla mia testa fradicia e divise il suo ombrello con me.

Ci parlammo? No.
Gli dissi solo: "Grazie".

Rimanemmo in silenzio sotto la pioggia, due sconosciuti qualunque sotto lo stesso ombrello ad aspettare lo stesso autobus. Mi sentii meno abbandonata, discriminata ed ignorata dal solito. 
Dal solito mio essere adolescente sbagliato, rimproverato e invisibile di tutti i giorni. 
Mi sentii protetta. Non mi capitò più di sentirmi così per molto, molto, troppo tempo.

Scesi io prima di lui.
Poi, non ci rivedemmo più.

Fine della storia.

Sono passati tanti anni. Spesso mi ritorna in mente questo episodio.
Quel giorno non ero stata sulla terra per disturbo, perchè qualcuno mi aveva notata e non per qualcosa di brutto o sbagliato in me. Solo per ripararmi dalla pioggia.

E' bello l'ombrello, quando si cammina sotto in due e quello più alto lo tiene per riparare entrambi.
Per questo, non lo porto mai. Sono anche, sempre, la più bassa.




giovedì 2 giugno 2016

Eventi di giugno

Questa sarà un'estate riccamente artistica!
Intanto annotatevi le date (per ora confermate) di giugno.
Finchè non avrò le locandine ve le scrivo così, ma poi le pubblicherò per ogni evento, tenetevi liberi e seguitemi per le vie di Brescia!

11 giugno: Gran Galà, Brescia centro
12 giugno: Le vie del gusto, Gussago (BS)
18 giugno: Festa della musica, Brescia centro
21 giugno: Concerto alle cascate di Gaina, Monticelli Brusati (BS)
25 giugno: Concerto al castello di Desenzano (lago di Garda, Brescia)
29 giugno: Evento da definire in corso...

In cantiere un nuovo spettacolo con la mia amica, socia e attrice Maria Antonietta Belotti del fantastico Duo Medea: www.facebook.com/duomedea

Ciao!

domenica 29 maggio 2016

Quesiti domenicali

Che cosa pensate al mattino appena svegli?
E cosa programmate la sera per il giorno successivo?

Rispondendo alle due domande, al risveglio di solito penso: "Che strumento comincio? Oggi ho pranzo quindi studio mezz'ora al piano, tecnica adesso e brani mezz'ora dopo...",  "Tutti allievi in si bemolle oggi, allora studio contralto stamattina e mi porto il clari a scuola, così ci soffio dentro un po'", oppure: "Stasera libera, dunque, faccio sax questa mattina e piano in cuffia a casa quando torno, tanto non disturba", o anche: "Non c'è tempo! Vado subito a scuola, mi chiudo dentro col tenore e mi esercito due ore prima che arrivino (gli allievi)".

La sera, quando programmo, faccio velocemente mente locale: "Domani inizio alle 15, ho tempo due ore, se studio al mattino clari mi porto il sax per fare lezione", "Ah domani ho un'ora buca e c'è il piano, prendo su i libri", "Domani vado a pilates, poi studio piano e sax dopo pranzo..."

Quando invece ho del tempo libero penso: potrei imparare a suonare il flauto, la chitarra, l'ukulele, la melodica, la fisarmonica. Andare a lezione di canto!

Penso sempre a cosa, quando e con chi suonare. Forse sono ripetitiva in questo.
Però non riuscirei a dedicarmi ad un solo strumento: hanno delle caratteristiche differenti e avere a che fare con uno solo poi mi annoia: sono un'incostante nell'essere costante. 

Penso che non tutti vivano con questi pensieri. 
Io al lavoro non ci penso... improvviso alla giornata, cioè: se mi venisse in mente, il mio pensiero è: "Non ho voglia, voglio stare a casa!"
A volte mi domando se non è regolare la mia testa e cosa invece programma la gente "non-Thasala".

Mia madre, so che pensa alla lista della spesa, che deve andare a prendere le nipoti all'asilo, cosa cucinare, a fare andare la lavatrice, stendere. Che mamma indaffarata!

Non idea di cosa pensa mio padre, per esempio, da quando è in pensione: ascolta musica classica tutto il giorno...

Ma tutti gli altri a cosa pensano?
Chissà di cosa vi preoccupate di fare la sera prima,  quando pensate al giorno dopo, mi è venuto di punto in bianco questo quesito domenicale piovoso.

Ora vado a suonare.


Culla

Apro gli occhi in una domenica mattina di fine maggio, fra lenzuola rosse ed una finestra affacciata al mondo esterno.
Mi accoglie il tintinnare della pioggia sopra il tetto, il suono del vento e un colore tenue del cielo nuvoloso al di là delle tende. Un cinguettio fra i rami.

Per qualche arcaico motivo da me rimosso nei ricordi, da sempre la tempesta mi ha dato un senso di rassicurazione, come due braccia che mi dicono: "Va tutto bene, è tempo di riposare i tuoi pensieri, non devi esporti".
Gocce e ancora gocce. Lavano e portano via tutto. Portano via anche me.
Chiudo gli occhi e so che posso sognare, andar via di qui, ancora per un altro po'.


domenica 1 maggio 2016

Maggio

Sono in una fase della vita in cui non sento di avere nulla di rilevante da scrivere, da mettere al corrente. 
Mia madre dice sempre che quando una scatola di latta è vuota, fa molto rumore. Quando è piena non la si sente.
Ora capisco cosa intende dire.
Osservo il cielo, le persone mi appaiono troppo faticose da frequentare, mi piace una strana sensazione di isolamento. Crescono i pensieri e cresce l'incapacità di parlarne.

Dopotutto, non è più necessario riempire sempre i vuoti.


mercoledì 30 marzo 2016

Io e gli animali

Spesso mi viene consigliato di tenere un animaletto per farmi compagnia, perché vivo da sola e questa condizione sembra molto dura agli occhi di chi non è abituato. Io ne parlo poco, ma non lo tengo perché il mio rapporto con gli altri esseri viventi, animali compresi, ma soprattutto con loro, è troppo complesso. Io non mi sento adeguata a prendermi cura degli animali... cioè, no: il contrario, sono la persona più indicata, responsabilmente ed emotivamente per farlo, ma il casino che c'è in me si rifiuta di prendere a cuore (di nuovo) altri incarichi di questo tipo. Lo farei se avessi la certezza e il tempo per farlo bene; diversamente, il disordine, la pulizia, le spese che ora non sarei in grado di sostenere, mi farebbero sentire nervosa ed in colpa.

Partiamo dal fattore principale: io non ho bisogno di compagnia, quando arrivo a casa non sento l'esigenza di ricordarmi di qualcuno. Perciò se ne tenessi uno non è per risolvere qualche mia mancanza, quanto per salvare dalla strada e dal suo destino qualche bisognoso. Come quella mia amica pazza che decise di adottare un cagnolino e si informò su quale fosse il canile più brutto e più bisognoso d'Italia, poi prese la macchina e guidò da nord a sud per centinaia di chilometri per andare a salvarne uno.
Ecco, io non amo guidare e per pigrizia non lo farei, ma sicuramente andrei a prenderne uno dal canile più povero ed in difficoltà di Brescia o provincia.

Al momento non ho lo spirito giusto per farlo: ho pensieri miei per la testa, tante cose da fare, non mi sento generosa per ogni giorno portare a passeggio un cagnolino, farlo giocare, lavarlo, per tenere pulita la lettiera di un gatto, per fargli compagnia. Per cambiare l'acqua ad un pesce o per pulire la gabbia ad un criceto. Spesso ho la dispensa ed il frigo vuoto per me, che al limite me la cavo con una telefonata o una capatina dalla mamma o qualche cosa di veloce comperato di passaggio... ma se avessi un animale non potrei trattarlo così. Io sì, ma lui no. 
Diciamo che ho una certa dose di egoismo e non ho voglia di pensare agli altri.

Ho avuto tantissimi animali nella mia vita: avevamo una decina di criceti, gatti, cani, pesci, tartarughine, canarini, tortore. Mi ricordo in campagna i vari passerotti caduti e salvati dai nidi, i ricci dispersi rimessi nell'orto. Gli animali morti tragicamente: un cane fucilato dai vicini, una gatta investita nel mese di novembre, qualche giorno prima del mio compleanno, era incinta in stato avanzato e morirono anche i cuccioli in pancia. Un altro gatto disperso e mai più ritrovato.
Traumi, furono traumi improvvisi e mi ricordo il mio dolore di bambina e in seguito di ragazzina e adulta per queste perdite.

La cosa particolare è che non ero mai stata propensa a prenderne uno, non di mia iniziativa, erano sempre stati gli altri a trovarli carini e a prenderli, ma una volta avuti, ero quella a cui stava più a cuore la loro sorte: quando attorno a me, passato l'interesse iniziale si scaricavano le fatiche, rimanevo io, col freddo, il sole e la pioggia a portare in giro i cani. Combattendo stanchezza e pigrizia. Ad investire i miei risparmi per tenerli bene. Io e mia madre: donna terrorizzata dai cani e dai gatti, ma che fino alla fine si ricordava ogni giorno di come stessero e spendeva soldi e tempo per occuparsene, togliendoli a sè stessa, senza mai toccarli e nemmeno avvicinarsi, se non protetta dalla finestra chiusa, da dove li osservava e studiava con curiosità.
Le ho passate, sì, tutte queste cose. Perciò so come si fa a tenere bene un animale, e cosa significa per loro.

E ho visto anche cani regalati via come pacchi regalo perché i proprietari non potevano più occuparsene, che poi morivano di nostalgia, gatti investiti e scappati via perché era troppo alta la spesa per farli castrare o sterilizzare.

Io penso che non bisogna tenere animali per avere compagnia, per sè stessi, ma con lo spirito di prendersene cura per tutta la loro vita.

Voglio raccontare un aneddoto riguardante uno zio di mia madre: noi crediamo nel karma, e questa storiella sembra insegnare qualcosa.

Questo mio prozio amava tenere in una enorme gabbia in giardino, uccelli colorati di tutti i tipi, e nei vasi i bellissimi pesci dei climi caldi.
Ogni giorno usciva in giardino a rimirare i volatili che dovevano farsi bastare un pezzettino di aria per volare e i suoi pesci. Era una persona di buon cuore, ma aveva questa passione, oltre a quella di fare lunghe passeggiate e giri in bicicletta: era molto attivo, amava muoversi, correre, nuotare, godersi la libertà.

Un giorno fece un terribile incidente, e a quarant'anni rimase paralizzato, legato ad un letto. Quando non dormiva, lo portavano sempre un po' nel suo verdeggiante e vivace giardino a prendere aria, in quel bel paese sempre estivo, ma non potè mai più "librarsi" nell'aria e tuffarsi nei ruscelli e nel mare, proprio come i suoi meravigliosi uccelli e i suoi natanti. Osservava il cielo malinconicamente, guardava gli altri liberi di fare tutte quelle cose che lui non poteva più. Finì i suoi giorni così, in tristezza, morendo giovane.

Alla sua morte, i parenti liberarono nei fiumi e nei mari tutti i suoi pesci, da dove venivano, e aprirono le gabbie: quelle splendide e superbe piume, superata la fase di stupore e di diffidenza, cercarono di spiccare il volo, dapprima maldestramente, come se non avessero mai volato veramente nella loro vita, poi, provate le ali, volarono sempre più su, raggiungendo i loro simili, in alto, in cielo, cinguettando e cantando, senza più confini.

I parenti pensavano che così, avrebbero alleggerito il suo karma, oltre al fatto che nella sua vita avesse già comunque appreso duramente la lezione di comprensione verso gli altri (gli animali hanno un'anima quanto gli uomini) e di gioia della libertà: solo quando si perde una cosa che si ama si comprende il suo valore.

Concludo con questa frase. Alla domanda: "Che cosa significa amare?" la risposta fu:
Se ti piace un fiore lo stacchi e lo raccogli, se lo ami lo annaffi e te ne prendi cura.



giovedì 10 marzo 2016

Thasie "Prof."

Ho sempre pensato che insegnare nelle scuole pubbliche non fosse il mio grande sogno, diversamente dai miei amici, dopo il diploma e la laurea, non mi sono mai informata su argomenti come: graduatorie, punteggi, e tutte le questioni legali e pratiche per procedere in tal senso. 
Sinceramente, mi stupivo e non capivo tutte queste corse e tutti i sacrifici in termini di soldi, tempo e fatiche, per accappararsi un posto come insegnante delle scuole medie. Cosa c'era di bello nel passare le mattine insieme ad un gruppo numeroso di ragazzini costretti a stare lì, costretti nel mio caso a studiare musica? 
A me non piace occuparmi di persone disinteressate a studiare la mia materia, e non ho neppure la vocazione di convertire qualcuno. 
Per quel che mi riguarda: o ti interessa, o non ti interessa, e credo pure che nella vita non sia necessario dover sapere suonare, soprattutto, penso che sapere allietare le orecchie col canto o uno strumento musicale, non sia una cosa alla portata di tutti.
Cioè: c'è chi nasce con delle capacità e chi no, chi con attitudini particolari e chi no, semplicemente. Certo, ciò non toglie che tutti abbiano la possibilità di canticchiare e strimpellare, ma dev'essere una scelta, non un'imposizione.
La scuola può e deve obbligare a conoscere materie come la lingua, la matematica... ma la musica? Io darei la possibilità di sceglierla come materia opzionale. Uno si iscrive a scuola, e può crearsi un piano di studi sin dalle medie, scegliendo fra varie materie artistiche come il teatro, la danza, la musica. 
Oltretutto, uno fa il conservatorio principalmente perché gli piace suonare il suo strumento. L'educazione musicale, come viene fatta in Italia, è frustrante per un musicista: non si può assolutamente dire che insegnare a suonare il flauto sia fare quello per cui si ha studiato. Insegnare a suonare nelle accademie il saxofono magari sì. Ma il flauto no. Per carità.
Quando chiedevo ai miei amici cosa ci trovassero di tanto bello nell'anelare a fare i "professor-fessi" nel pubblico, mi rispondevano: "Cavolo, hai il posto fisso, stipendio fisso".
Tutto qui??? Solo una minima percentuale, ma credo nessuno "per intero", mi ha mai risposto: "Oh! Io adoro insegnare, era quello che volevo fare fin da piccolo/a".

Ma ne vale la pena di fare questo lavoro per un posto fisso?
Avendo io fatto centinaia di lavori, come ho scritto nel mio "curriculum lavorativo", direi proprio di no. 
Ma no! 
Ma no! 
Ma nooo!

Ad una certa veneranda età, dopo che tutti mi chiedevano perché gli altri insegnavano alle medie e io no, e con incoraggiamento, stupore, esempi come: "Angelo insegna, prova chiedere anche tu"... come se fossi troppo ingenua e non lo sapessi, e soprattutto perché una mia amica un'estate mi aveva riempita le orecchie con argomenti che ho rimosso, con termini importanti come: documenti, CGL, punteggio, III fascia, supplenze eccetera, mi sono ritrovata inserita pure io a queste maledette graduatorie statali.

All'inizio non me ne importava, ero contenta quando una supplenza veniva assegnata a qualcun altro. Molto meglio passare le mie mattinate a suonare, a preparare spettacoli e soprattutto a non avere a che fare con bambini-ragazzini rumorosi da tenere a bada. Magari maleducati, senza senso civico: non ho pazienza, io.
Non ho scritto in fronte: "Suor missionaria".
Dopo un po' ho sperato però che toccasse pure a me, così: per spirito competitivo, perché gli altri sì e io no?
Oggi che ci sono finita dentro, a fare la supplente, posso confermare quello che razionalmente ho sempre osservato con sospetto: fare la "professo-fessa" è il lavoro più brutto che abbia mai fatto. 

Mi mancano ancora pochi giorni per finire questo mandato. Poi ne parlerò meglio, poi magari verrò qui a riflettere su argomenti filosofici e sprituali come il karma, le lezioni della vita, il ricevere dagli altri... e bla bla bla... Cose profonde, come quando si va dallo psichiatra e si parla per stabilire se si è matti.
E' una punizione divina? Di certo, la prima cosa che sono corsa a fare ieri, nel mio primo mercoledì libero dopo un mese, passato senza mal di testa, è stato di iscrivermi ad un corso di 240 ore estive per imparare ad elaborare e fare buste paga e contabilità aziendale.
Quando facevo la segretaria non c'era nessuno che mi violentava le mie sensibilissime e delicatissime orecchie, e non dovevo zittire nessuno.
In verità farò il corso ma non so se farò la segretaria, sono anni che lavoro già come insegnante di sax e clarinetto nelle accademie e vivo abbastanza dignitosamente così. 
Ho cercato il corso per esorcizzare il mio presente, per una crisi di rigetto, per punirmi ulteriormente?
Comunque questa estate avrò per quelle 240 ore una bella stanza con l'aria condizionata, cioè, nelle scuole pubbliche mica c'è!

Ci risentiamo!


domenica 14 febbraio 2016

Collettiva Arte Ba-Rocco (Video)

Ecco i video della serata di sabato tenutasi a Milano: musica, arte, libri e letture. Con la partecipazione del duo Eritha.
Il primo video direttamente dal canale Erithamusic, il secondo del cameraman Gabriel Montoneri. 
Buona visione!






sabato 6 febbraio 2016

Sabato 6 febbraio 2016

COLLETTIVA D'ARTE  "APERITIVOART - L'ARTE COME CIBO PER L'ANIMA" 



L'associazione culturale Arte Ba-Rocco di Milano, nella persona del suo Presidente Cav. (m.o.c.) Rocco Basciano,

E' LIETA 


Di pubblicare le opere degli artisti espositori c/o il locale
BARRIOS CAFE' di Milano zona Barona dall'1 al 20 febbraio con Vernissage
Sabato 6 febbraio ore 18.30.


Saranno presenti gli ospiti d'onore: Sergio Segantin, critico d'arte (critica delle opere), Antonio Paolo Pini, attore (lettura di poesie), Marilena Nocilla,
scrittrice e pittrice con il suo terzo libro "Io ritorno bambina" e due
sue opere pittoriche, il duo sonoro Eritha composto da Thasala Phan
(sassofono) ed Erica Guastoldi (pianoforte).



Seguirà rinfresco offerto dall'associazione.

INGRESSO LIBERO



venerdì 15 gennaio 2016

Sabato 23 gennaio 2016


Il 23 gennaio 2016 alle ore 20.30 presso il Teatro Comunale di Coccaglio, l'Associazione Montorfano Franciacorta propone la presentazione del libro di poesie L'America del nostro poeta bresciano Francesco Buffoli.
La serata sarà allietata dalla lettura di alcune poesie accompagnate da musiche di C. Porter, G. Gershwin, M. Ravel, E Grieg, eseguite dai musicisti M° Alessandro Guastoldi (alla chitarra), M° Erica Guastoldi (al pianoforte); M° Flavio Minelli e M° Erica Guastoldi (pianoforte a quattro mani); M° Thasala Phan (saxofono) e M° Erica Guastoldi (pianoforte) (duo Eritha).
Voce recitante: Renato Lancini.
Al termine della serata vi sarà un rinfresco per tutti.

domenica 3 gennaio 2016

Curriculum discorsivo (esperienze lavorative)

- Ho lavorato qui... e qui... Ah! E quando lavoravo lì!
- Ma tu hai lavorato in tutta Brescia???
- Beh, sì!


Beh, sì: di esperienze lavorative ne ho fatte tante, e mi sentivo molto in gamba a potermi comprare tutto quello che volevo senza dover tenere conto di nessuno. Lavoravo mentre studiavo e ovviamente i miei stipendi mensili non erano da considerarsi pieni, ma quando a ventun anni, mi pagai a rate il mio saxofono soprano da sei milioni di vecchie lire, facendo la cameriera il fine settimana, racimolando mance e soldi e rinunciando a tante cose, ero la ragazza più "importante" del pianeta. Correva l'anno 2000.

Il primo lavoro in assoluto però, durò una settimana nell'estate del '95: trovai un impiego da operaia in una azienda di vestiti. Cucivo a macchina e stiravo con grossi macchinari a vapore, senza aria condizionata o un minimo di ventilatore per rinfrescare il soffocante sole di agosto. Ero contenta in pausa scolastica di guadagnare dei soldi tutti miei, ma la paga era veramente misera, meno della metà di quanto prendeva una barista ai tempi, il lavoro letteralmente soffocante e snervante, e ad un certo punto mi domandai, con un pizzico di presunzione, perché mai io, figlia di architetto e professoressa di lettere, dovessi subire le angherie di quei dittatori senza scrupoli ed umanità. Io che me ne stavo lì otto ore a grondare di sudore mentre la stronza "padrona" comandava dal suo tavolo, col ventilatore puntato addosso solo su di lei.

Li mollai dopo una settimana, dopo ovviamente essermi presa i miei soldi e imparando più di tutti gli insegnamenti di una vita di mamma e papà: che studiare permetteva di poter trovare alternative.
Seriamente, mi ero chiesta in quei sette giorni, come potessero quelle persone stare lì da anni, in quel capannone, al freddo in inverno e al caldo in estate, a produrre come formiche, sotto gli ordini di una donna grossa e arrogante, per quattromila lire all'ora.

A diciotto anni, una settimana dopo aver dato gli esami di maturità, finii a fare la baby sitter. Ora, io sono un tipo sveglio, ma alle prese con una bimbetta di due anni era una impresa bizzarra per me, che di materno non avevo nulla, solo i soldi mi piacevano. Ogni giorno, non vedevo l'ora di liberarmi di lei e di volare via il pomeriggio a fare shopping e spendere in vestiti e scarpe tutto quello che guadagnavo. La cosa più difficile? Insegnarle a bere il latte con i biscottini a colazione, stare tranquilla e comportarsi da bambina "normale", come si aspettavano i suoi genitori, mentre di nascosto da lei mi preparavo pastasciutte alle dieci del mattino, mi addormentavo in piedi, mi annoiavo a morte o facevo la pazza, mettendo in radio la musica da discoteca e ballando tutta contenta, spiegandole che era un gioco nuovo. La mettevo sul puffo e le dicevo che eravamo "ragazze cubo".
Il "giretto" all'aperto nei bei giorni era una cosa che proprio la madre si aspettava e non si poteva evitare, io avrei preferito poltrire sul divano guardando un film dietro l'altro, ma la bimba avrebbe riferito, così ogni tanto mi avventuravo a scoprire il paese, fino a quando non reclamava acqua, cibo, sonno, pannolino e freddo. Per quanto riguarda il cambio, i miei amici possono testimoniare gli innumerevoli morsi sulle braccia che riportavo quell'estate: la peste non ne voleva sapere di cambiarsi, io non avevo proprio idea di come convincerla, così spesso la prendevo in braccio a forza e la portavo su per due piani di scale, con la sua strillata nell'orecchio e i denti ben conficcati a mordermi, come segno di ribellione.
Cambiare i pannolini è stata la cosa in assoluto più traumatica e violenta (per me) nelle mia vita lavorativa.
Me ne andai via pure da lì, dopo sei o sette mesi, quando non ce la feci proprio più a svegliarmi presto tutte le mattine: per Bacco! A scuola quando volevo proseguire a dormire mi bastava fare una firma sul foglio il giorno dopo, per lavorare invece, non mi era consentito neppure di saltare qualche prima ora!

Successivamente trovai un impiego di poche ore a settimana come telefonista per i sondaggi: dovevo chiamare in casa la gente e chiederle se potevo intervistarla. Le interviste erano diverse: dai sondaggi politici a quelli di mercato, da quelli più locali, come quando dovevamo chiedere chi era o meno, favorevole alla costruzione della metropolitana a Brescia e le motivazioni; a quelli nazionali, come quella della fusione di due banche e conseguente indagine di mercato.
Non ricordo perché smisi, forse perché non me ne fregava niente di sapere cosa pensava la gente del nuovo locale e dei politici e mi annoiavo ad ascoltare. E anche perché non avevo la patente e preferivo lavorare in città per spostarmi da sola. Ma forse perché, in realtà, al tempo non avevo veramente bisogno di soldi, lavoravo solo per i miei capricci.

Incominciai a bazzicare nei locali verso i vent'anni. Le mie prime volte da barista furono, inizialmente, solo durante le pause estive, facevo le stagioni da maggio ad ottobre, quando cioè in centro i locali mettevano i tavoli all'esterno, e serviva del personale extra in più. Per questo ho cambiato così tanti ristoranti e bar. Iniziai a lavorare la sera nelle birrerie e nei fine settimana, anche durante l'anno scolastico, solo più tardi.

Come potrei descrivere quel lavoro?

La prima cosa che ricordo, era che mentre prendevo ordini e trotterellavo avanti e indietro con boccali di birra e vassoi di patatine fritte, osservavo i miei coetanei divertirsi e mi sentivo profondamente triste e desiderosa di essere al loro posto. Le ragazze erano ben agghindate con tacchi, trucco, vestiti alla moda, capelli vaporosi e profumati. Facevano le civette con i ragazzi, ridevano e scherzavano. Io invece indossavo scarpe da ginnastica, maglietta, i miei capelli raccolti puzzavano di fumo e di odori della cucina che mi si impregnavano addosso dalle sette di sera fino le tre di notte,  e i ragazzi mi si rivolgevano per farsi portare una birra o una pizza. Eppure avevo studiato anch'io tutta la settimana come loro. Anch'io avrei voluto potermi riposare e divertire come tutti!
Qualche episodio carino, comunque, ci fu. Come quella volta che, vestita da bavarese con una gonna troppo lunga per me, mi vidi in difficoltà a dover salire delle scale, con un vassoio pesante colmo di pinte. La gonna finì sotto le mie scarpe, i bicchieri traballavano e, inciampando, rovesciai l'intero contenuto, litri e litri di birra, addosso ad un povero cliente, un figlioletto di papà, che si vide fradicio dai capelli ai pantaloni. Io avrei voluto piangere, il suo amico rideva. Per fortuna, con notevole presenza di spirito, il ragazzo disse, ridente e rassicurante pure lui:
- Non ti preoccupare! E' il sogno di ogni uomo farsi fare il bagno nella birra da una ragazza così carina! - si preoccupò pure di ammansire i miei capi.

A quei tempi si poteva ancora fumare nei locali, e credo di aver rischiato di soffocare più volte. Dopo un po' di ore, la nebbia del fumo e gli occhi brucianti mi appesantivano la testa, impedivano la vista e la carenza di ossigeno mi destabilizzava. Tornavo a casa con i piedi a pezzi e il mal di schiena, ma contavo i miei guadagni e sorridevo contenta di potermi comprare il mio adocchiato e già adorato nuovo pianoforte digitale: un Yamaha di alto livello, con i tasti pesati e il timbro e il tocco di un vero pianoforte a coda: con quello avrei potuto suonare a qualunque ora del giorno! Musica di notte, quando ne avevo voglia, senza tener conto dei vicini... dovevo resistere!
Comunque per la mia salute, un giorno decisi di abbandonare i posti fumosi ed approdai nelle gelaterie, anche se qualche mese dopo uscì, per fortuna, la legge che vietava di fumare nei locali.

Dopo il conservatorio, non avendo più l'obbligo di frequenza, trovai lavoro come commessa. Per me fu un bel salto: ero nel mio ambiente in mezzo ai vestiti, adoravo fare le vetrine, allestire il negozio, battere la cassa, emettere scontrini. Ero vestita bene e non odoravo più di cucina. I locali erano freschi in estate e caldi in inverno. Mi piaceva un po' meno riordinare, pulire e servire certe clienti.

Lavorai anche in un negozio che vendeva articoli casalinghi per la clientela "signorile" di Brescia, per le signore impellicciate che pagavano con la carta di credito del marito, per intenderci. Qui scoprii un nuovo mondo che, se non avessi un certo distacco e senso dell'umorismo, farebbe piangere. Ma invece a me diverte prendere in giro. 
Era sotto Natale, c'erano signore che chiedevano carta ed etichette del negozio per impacchettare i loro regalini economici acquistati altrove e farli figurare costosi. Quelle che venivano con i regali ricevuti per risalire al prezzo e sapere quanto aveva speso l'amica. Senza contare la concorrenza e la malignità fra le commesse e i vari reparti per cercare di fare carriera. Ma davvero si cercava di fare carriera come commessa, lì dentro?
Beh, a me di fare carriera per quello stipendio non interessava. Avevo capito che lì la clientela era "raffinata" e con i soldi, ma che la mia la busta paga intanto era più bassa dell'altro negozio dove avevo lavorato con meno fatica e le clienti erano ragazzine con vestiti "low cost", dove le commesse andavano tutte d'accordo. Perciò non mi sembrava intelligente accaparrarsi un posto per poter dire di lavorare nel negozio più "In" della città e di vantarsi dei soldi e delle pellicce altrui.

Iniziai la gavetta come insegnante a ventiquattro anni. Il primo impiego fu di istruire in discipline musicali degli studenti lavoratori che volevano prendere il diploma di maturità in "Dirigente di comunità". Perciò mi ritrovai allievi che avevano pure il doppio dei miei anni. Tempo dopo, ero in strada sul lago, un carabiniere mi fermò, mi chiese se mi ricordavo di lui, che era stato un mio studente a quei tempi.
In quello stesso anno, tramite amici che già insegnavano, approdai lentamente nelle scuole di musica per insegnare sax: tappavo i buchi di un insegnante che se ne stava andando. Riuscivo a lavorare circa cinque, sei ore a settimana, ma non pensavo di aver potuto fare altro: non avevo una laurea, il mio diploma in stilista mi consentiva di fare al massimo la commessa. Che lavoro avrei potuto fare? I soldi però non bastavano, e a quell'età non erano più solo per dei capricci: avevo una macchina da mantenere, le bollette in casa da pagare, avevo aperto un finanziamento per acquistarmi un box insonorizzato dove poter esercitarmi senza disturbare.

Quello fu il periodo in cui riuscivo a fare due, tre lavori contemporaneamente: commessa part time durante la settimana, insegnante nel mio pomeriggio libero e cameriera il sabato sera. La mattina mi esercitavo e ogni tanto riuscivo a farmi pagare per qualche spettacolo e matrimonio. Campai così per un bel po'.

Quando le ore di lezione e quindi i pomeriggi nelle scuole iniziarono ad essere due o tre e non potevo più essere presente in negozio, trovai lavoro come impiegata il mattino. Facevo la segretaria per uno studio di un ingegnere, ed in seguito, per oltre un anno e mezzo, presso un'azienda che si occupava di incidenti e sinistri stradali per più compagnie assicurative. In questo modo riuscivo a conciliare le cose e ad avere qualche pomeriggio libero.

La crisi del 2008 colpì diversi settori, molte aziende e studi chiusero. Fu nello stesso anno che decisi di prendere il diploma accademico di II livello: dovevo conciliare solo i due, tre pomeriggi di lezioni, senza più lo stipendio part time di impiegata, e quindi minor entrata, con lo studio, che invece richiedeva molte tasse ed acquisti. Imparai a tirare la cinghia anche in questo frangente: pensavo che per guadagnare di più, per poter lavorare di più, fosse necessario studiare e aggiungere altre capacità. In seguito, alle mie ore di insegnamento sino ad allora solo di saxofono, subentrarono anche quelle di clarinetto e pianoforte. Riuscii così a raggiungerne un numero di ore necessario per potermi mantenere da sola.

Ed eccomi qui ad oggi. Che posso dire? Non mi sono mica fermata! Il mio motto è, che se una situazione non ti soddisfa pienamente, bisogna fare qualcosa per migliorare. Studierò ancora e ancora.

Per quanto riguarda il passato, l'aver avuto diverse e disparate esperienze, mi hanno insegnato delle cose sulle persone e sulla società, che non avrei mai appreso così bene se non le avessi vissute io.
Per esempio, che il cliente ha spesso torto, che se un negozio o un locale chiude fra dieci minuti e si vuole entrare solo per guardare, bisogna astenersi e tornare il giorno dopo. Che le chiamate pubblicitarie sono seccanti, ma che basta dire che non si è interessati: non serve a nulla insultare l'operatore, a lui magari dell'azienda non gliene frega niente ed è lì solo per lavorare.
Che se si vuole fare produrre bene un operaio, bisogna dargli una condizione lavorativa non dico dignitosa, ma quanto meno umana. Che quando il cameriere la sera sbaglia, quel ragazzo che prende le comande e si confonde, magari ha la testa piena di nozioni e di malinconia, e un giorno potrebbe essere l'avvocato o il medico che tu anni fai hai maltrattato.
Il ragionamento: "E' il suo lavoro" non giustifica invece la presunzione e la mancanza di comprensione verso gli errori umani del prossimo. Che la commessa che fai trottare e incavolare con gusto perché sei "la cliente", fuori da lì è l'insegnante di tuo figlio. La stessa cosa vale per tutti quei gestori di bar e ristoranti che si divertono a far pesare il lavoro ai dipendenti. Oggi io torno spesso in quei locali, sono sicura di aver lavorato bene. Oggi io ordino e vengo servita pure da loro, quando non c'è il personale libero. Il sorriso da protocollo non serve a nulla, e sono lì solo di passaggio, perché, per conto mio, i soldi lì non ce li vorrei neppure lasciare. E' stato necessario in passato, quando ero una ragazzina, subissarmi e sfogare su di me le proprie frustrazioni a quel modo?

Ricordo una mia "padrona", in sovrappeso. Lei non riusciva proprio ad essere attraente e a dimagrire. Io avevo diciannove anni, ero snella e graziosa. A volte i clienti, allora ragazzi giovani miei coetanei,  mi rivolgevano la parola, scherzando e ridendo. Lei mi zittiva davanti a tutti (facendo rimanere male e in colpa pure loro) e mi spediva nel retrobottega. La parte più divertente? Che poi lei, ultratrentenne, si sostituiva a me per chiacchierare e scherzare con loro al mio posto. Se sbagliavo erano guai, avevo seria paura. Se facevo le cose giuste, mi sentivo di avere scampato il pericolo. Era necessario farmi lavorare così? Ero troppo piccola per reagire. Persino le mie colleghe si erano accorte di questa ingiustificata antipatia.

Per quanto riguarda le capacità: so fare tante cose, ho imparato a gestire più attività, tempi e ad assimilare concetti e abilità senza difficoltà.
Io so di essere in gamba.

Questa è la mia seconda parte di curriculum (molto) informale riguardante il lavoro. Che dite: se un datore di lavoro lo leggesse, dopo le riflessioni (critiche) che ho scritto sulla sua categoria, mi assumerebbe?




sabato 28 novembre 2015

Una finestra per Thasie

Trovo che la parte più interessante di una casa siano le finestre. Mi piacciono grandi, tante, luminose, a più vetrate. La mia cameretta da adolescente ne aveva una: alta e larga, quadrata perché a tre vetrate, che dava sulla strada interna con gli alberi, il marciapiede e i passanti, era come un quadro in continuo movimento.

Ho visitato come ospite case sfarzose e lussuose, con infissi pregiati, marmi, quadri dalle cornici d'argento, tende in broccato, ma in cui bisognava accendere la lampada presto per rischiarare, per poter leggere o semplicemente vederci, così, per la mia personale idea di “casa ricca”, quelle case non erano sufficientemente ricche, perché non avevano la cosa più importante: la luce naturale, il poter vivere fino all'ultimo raggio di sole che inonda le stanze di calore.
Finché si vive in famiglia ci si adegua all'abitazione che scelgono i genitori: non ho mai potuto esprimermi sulla scelta della casa, dare opinioni ed avere gusti. Solo quando cercai un posto dove andare a vivere da sola, mi resi conto di quanto il numero delle finestre fosse un requisito importante per me, stava in cima alla lista, assieme a “parcheggio”, “affitto basso”, “vasca da bagno” e “vicinanza mamma”, ne volevo tante e magari stare all'ultimo piano, per ricevere più luce possibile.

Anche prima di allora, ricordo però, avevo una mia particolare abitudine: fin da piccolina, mi è sempre piaciuto osservare le case e le finestre da fuori. Mi attirano le tende, le luci, mi piace intravedere pezzi di arredamento, lampade e a volte scorgerne gli abitanti. Forse perché in estate le finestre stanno aperte e non si accende la lampada per quasi tutto il giorno, credo che osservarle sia affascinante soprattutto in inverno. Col freddo pungente ed il buio di fuori, con la voglia di tepore e quiete intima e domestica, capitava che quando portavo a passeggiare il cane, mi ritrovavo a fantasticare storie che potevano succedere dietro a quei vetri. Sicuramente, in quelle case c'era un bel tepore, si sorseggiava una deliziosa minestra fumante e ci si coccolava sul divano avvolti da una morbida e calda coperta.
Quando però poi tornavo a casa, che era la villetta dei miei, non mi sentivo propriamente nel mio ambiente: arrivano momenti nella vita in cui ci si sente pronti per cercare una casa con più finestre.

Nonostante io abbia sempre visto le case degli altri da fuori, con le finestre illuminate, le tende drappeggiate e le storie fantastiche di vita sconosciuta e familiare all'interno, mi capitò per lunghi mesi, per oltre un anno invece, di non vedere mai il mio appartamento allo stesso modo. Alcune cose banali saltano all'occhio quando le si vivono: se si vive da soli e si spengono le luci quando si esce, non succede mai di vedere la propria casa dall'esterno con le finestre illuminate: in quel momento all'interno è vuota, non c'è nessuna vita.

Una sera d'estate, tornando e volgendo il naso all'insù, guardai le altre case e le tante luci calde accese, ma la mia casa era buia, con le tapparelle abbassate o le tende tirate. Potevo inventare le storie per gli altri ma non per me.

Un'altra sera, mentre finivo di riordinare la cucina, spazzare, pulire e rendere la semplicità un posto accogliente, mentre preparavo il sacchetto dello sporco, mi si formò un pensiero in testa. Andai a buttare la spazzatura ma decisi di lasciare le luci accese apposta.
Fu una strana sensazione, la prima volta, guardare l'ultimo piano e vedere una casa mai vista. Ecco quello che vedeva la gente, quello che io non avevo mai notato, quando tranquillamente vivevo la mia vita e la mia casa era una stanza illuminata con l'aria che entrava: si vedeva quello scorcio del mobile chiaro, la lampada bianca, le tende e i muri bianchi, la chitarra appesa e magari io stessa che gironzolavo fra i fornelli o imbracciavo una scopa, con una maglietta comoda e i capelli raccolti.
Era una bella sensazione di ordine e di leggerezza.

“E' la mia casetta” pensai con stupore, senso di novità e scoperta, quiete e piccola conquista “sono le mie finestre”.

Da allora, ogni volta che mi assento pochi minuti, di solito la sera per andare a buttare la spazzatura, lascio accese le luci apposta, per poi guardale e fantasticare storie su di me. Ora sono anch'io una delle protagoniste della mia testa con una trama tutta per me. Piccoli e misteriosi quadri di una vita di sogni, romanzi, musica e speranze passate ad osservare il soffitto di un nido che accoglie un pianoforte.
E' tuttavia bella, la mia storia strana.

Quando nella vita si hanno delle finestre con le tende, e nel buio dell'inverno queste si accendono di calore e quiete, non si hanno più ragioni di sentirsi spaesati. Sono come dei fari nella notte, ti indicano che sei vicino, che stai tornando, finalmente, a casa.


martedì 10 novembre 2015

Perchè

Apro, mi distraggo. Pagina vuota, butto giù qualcosa.
Cancello. Seguo il flusso zoppicante.
Non mi piace, rifaccio. Un'onda d'ansia.
Silenzio che esplode.
Troppe parole non so dire.
Ricordo. Ricordo.
Ma non è più lo stesso.
Avevo tanto da dire, ora non so cosa fare.
Fisso il vuoto.
Avevo tante storie, ma sono invecchiata.
Progetti che mi passano accanto.
Siamo sicuri di avere quello che ci serve?
Non capisco.
E non so più se c'è da capire.
Ma è l'unica strada per trovare un senso.

Boh.

Allora. Chiudo in questo battito muto.
Non parlo. Di nuovo.


venerdì 6 novembre 2015

Un abbraccio

Una coperta di calore contro il freddo
Un ombrello di sole che ripara dalla pioggia
Un fazzoletto di fiori e borotalco per asciugare le lacrime
Un emozionante giro in altalena per raggiungere il cielo
Un sorriso per sciogliere il silenzio
Un fiore nei capelli, un bacio sulla fronte
Una risata cristallina per sciogliere il cuore
I colori dell'arcobaleno nella stanza, sulle mani, lo stupore   
Un pupazzetto, un ricordo d'infanzia, un orsetto
Un "Ti voglio bene", ma senza parole
Una passeggiata, mano nella mano, insieme verso l'alba.

giovedì 15 ottobre 2015

sabato 10 ottobre 2015

Inside Out (recensione)

Una sera ho letto per caso la recensione di un film animato su internet. Una mamma-professoressa ne parlava malissimo, diceva che i sentimenti non sono solo cinque, che la protagonista non sapeva dominare le emozioni e che era ineducativo. Io questo film non l'avevo visto ma mi faceva sorridere tutto questo livore per una storia non gradita. Metri di pensieri per denigrare. A me di solito quando non piace un film, a meno che non me lo chiedano, mi limito a dimenticarlo.
Ieri sera mi sono ritrovata ad andare al cinema per fare compagnia alla mia amica. E' inusuale, quando ci vado, che sia io a scegliere il titolo, un po' perché lascio scegliere agli altri, per sperimentare argomenti e generi nuovi che, quando sono io a scegliermi i dvd per me stessa, tendono ad essere ripetitivi, un po' perché mi piace la sorpresa. 
Solo all'ingresso, col biglietto in mano, ho scoperto cosa stavo andando a vedere.

Man mano che guardavo le scene, sono riuscita a collegare la trama alla recensione colta e stizzosa di qualche sera prima.

A me il film è piaciuto, tanto, secondo me chi ne parla male è perché non ha colto la profondità delle cose apparentemente semplici. E proprio solo per bilanciare le opinioni e spezzare una lancia in suo favore, ho deciso di recensirlo pure io.

La trama è semplice: la protagonista è una ragazzina di nome Riley che, insieme ai genitori, lascia il Minnesota per trasferirsi a San Francisco a causa del lavoro del padre. Il cambiamento è traumatico, tenterà di fuggire di casa, per poi ripensarci e tornare. Un anno dopo, viene mostrata la sua nuova vita serena, oramai adattata a San Francisco. All'interno della sua testa, vengono rappresentate Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto sotto forma di buffi personaggi, e sono loro il centro di comando in cui avvengono le emozioni e le reazioni di Riley.

Secondo me, le cinque emozioni rappresentate sono giuste e sufficienti per rappresentare l'ampio spettro delle emozioni umane, basta combinarle fra loro, e bisogna essere molto nella norma per non capire che la storia buffa dei personaggi interni sono piene di metafore molto sottili.

Fino ai dieci anni la vita di Riley è dominata dalla gioia, i suoi ricordi base sono rappresentati per la maggior parte dal colore giallo. Le altre emozioni non capiscono a cosa serva la presenza di Tristezza e, Gioia soprattutto, cerca sempre di non lasciare che agisca, per permettere che Riley viva solo felice.
Infatti Riley, nonostante i momenti di lieve malinconia, quelli in cui Tristezza si fa un po' sentire, si presenta come una bambina sempre positiva e sorridente.

La scena in cui, davanti alla nuova classe, racconta di sè e del Minnesota, del pattinaggio sul ghiaccio e della sua vita felice, è all'inizio raggiante e piena di felicità. Nel frattempo però, al suo interno, la sfera di questi ricordi viene toccata da Tristezza. Gli stessi ricordi non sono più gioiosi perché Riley si rende conto che fanno oramai parte del passato e lei vive a San Francisco. Inizia a piangere. Quando Gioia si accorge che Tristezza ha rovinato i ricordi felici, tenta di intervenire. Accade così che le due emozioni opposte entrino letteralmente in conflitto e vengano risucchiate e sparite dalla centrale. Rimangono in Riley la paura, la rabbia e il disgusto. Senza provare tristezza e gioia diventa apatica.

E' Rabbia, dalla centrale, che decide di intervenire e farle prendere la decisione di tornare nel Minnesota e scappare così di casa. E' sempre l'intervento di Rabbia che fa crollare l'amicizia, la famiglia, l'onestà di Riley, come a dire che, quando è la Rabbia che decide per noi, commettiamo azioni che ci fanno poi pentire, quando recuperiamo il nostro normale equilibrio e ci sentiamo sereni.

Gioia e Tristezza nel frattempo viaggiano all'interno della mente di Riley cercando di tornare alla centrale, attraversando i suoi ricordi lieti e dimenticati, le sue paure, i suoi sogni. Durante il tragitto, Gioia capisce che ha sbagliato a volere sempre delimitare la presenza di Tristezza per fare sentire felice Riley in qualunque momento. Da una sfera di ricordi, riconosce che sono stati i momenti in cui Tristezza si era manifestata e Riley piangeva, che ha permesso ai suoi genitori di aiutarla e confortarla.

Finalmente riescono a tornare alla centrale. Gioia lascia a Tristezza il compito di toglierle la decisione di scappare di casa, cosa che Paura, Disgusto e Rabbia non erano riusciti. Riley si riscuote dall'apatia e torna dai genitori. Qui scoppia in un pianto a dirotto, finalmente libera di non mostrarsi sempre felice, e confida che le manca la sua vecchia vita, il Minnesota, le amicizie e i luoghi cari. Anche il padre le confida che ha tanta nostalgia della casa e della vita passata ed entrambi i genitori l'abbracciano. Questa scena di debolezza e forza, comprensione e aiuto è molto commuovente.

I ricordi base del passato di Riley ora vengono archiviati, ma non sono più solo del colore giallo della gioia, hanno invece sfumature gialle e azzurre della tristezza. Perché anche noi abbiamo i ricordi del passato felici, e al tempo stesso malinconici. Si cresce, si va avanti. Anche le altre sfere hanno più sfumature di colore, così come ogni nostro ricordo può avere il colore della rabbia e della tristezza, o della paura con la gioia... vi è mai successo di essere felici per qualcosa e provare una punta di paura di perderla, mista a tristezza?

Riley cresce, per questo le sue sfere hanno colori e sfumature più complesse di quando era bambina.

Riguardo alla recensione della signora, che disapprovava che Riley si lasciasse dominare dalle emozioni e che senza Gioia non sapesse più come comportarsi, io credo che i buffi personaggi interni raccontassero semplicemente cose stesse accadendo al suo interno, e non che dentro di noi ci siano veramente omini che ci dominano. E che è vero che quando perdiamo la gioia di vivere, un po' perdiamo tutto. 

Io ho capito che Riley era diventata apatica proprio perché cercava sempre di essere gioiosa e non dava lo spazio di cui aveva bisogno la tristezza di manifestarsi, questo suo conflitto ha fatto sì che le emozioni si annullassero e "sparissero". Quando invece la malinconia si è sentita libera di mostrarsi, ciò le ha permesso di comunicare il suo dolore e permettere di farsi ascoltare e aiutare.

Un film molto bello che riguarderei, lo consiglio ai bambini, ma con la presenza di un adulto per spiegarne la profondità e i messaggi chiave. E in realtà, consigliatissimo anche agli adulti, a me ha fatto piangere.
Spero che  vi piaccia altrettanto!



venerdì 2 ottobre 2015

Fede

Tu lo sai chi sono gli angeli?
Io... non lo so.

E lo sai dove stanno?
Io... non ne ho mai visto uno.

Perché, tu invece sì? Ne hai mai visto uno?
Come fai, a credere in qualcosa che non hai mai visto?

Cosa fanno gli angeli?
Da me... non sono mai venuti.

Come fai a dire che esistono e sono vicino?
Non capisco...

Che cos'è un angelo, rispondi.
Qualcosa di perfetto?..

Non mi piace l'angelo che dici tu.
Preferisco un angelo caduto dal cielo.
Un angelo nero.
Piume dissolte...

L'ho visto, l'angelo nero.
Abbracciava strette le ginocchia, col volto in giù e i capelli che coprivano le braccia.
A piedi nudi, stava.
Correva, correva. Poi si è innalzato, ma per buttarsi giù.
Aveva preso la rincorsa. 
Si è frantumato in mille pezzi di diamanti color del corvo, come una enorme bolla d'acqua liquida, che tocca il suolo e si scompone in atomi neri e si diffonde da tutte le parti.


L'angelo con le ginocchia al petto e le braccia strette.
Sono rimasta imprigionata nel frammento di quello specchio esploso.
Sono qui che guardo e chiamo aiuto, ma nessuno mi sente.

Anche se piango e grido. 
Si ode solo un celestiale, muto, paradisiaco silenzio.



lunedì 28 settembre 2015

Ridere

Scriverò  un post sui clown, mi ha sempre coinvolto questa maschera. 
Coinvolta nel senso, che mi fa tanta paura.



domenica 27 settembre 2015

I miei difetti perfetti

Oggi ero a pranzo da mia madre, e c'erano anche le mie nipotine gemelle, di quattro anni. Una non ne voleva assolutamente sapere di mangiare la carne. Dopo aver insistito un paio di volte, io ero dell'idea di lasciare stare, ma mia madre ferrea: "Deve imparare a mangiare tutto!"

Mi è venuto un déjà vu. Anch'io da piccola ho patito spesso a tavola perché mia madre insisteva che mangiassimo tutto. Risultato? Mia sorella maggiore non sopporta pomodori e formaggi, perciò odia tutti i primi e gran parte della cucina italiana, mangia tantissima carne cruda, rossa e solo riso.
Mio fratello mangia insalata e verdura solo sotto tortura. Io sono diventata vegetariana, e mia sorella minore l'unica carne che mangia è il pollo, e forse qualche volta gli affettati. 

Non voglio dire che sia sbagliato il pensiero di mia madre, ma che alla fine non è servito a nulla. Proprio a nulla. Tutti, e tutti gli adulti che conosco, non mangiano tutto, hanno diversi gusti a tavola e vivono normalmente.

Per me certe cose che si impongono ai bambini sono una perdita di tempo. Io con mia nipote ho pensato: "Non le piace la carne bovina, sostituiamo con altre proteine e ferro", perché alla fine ci alimentiamo per questo: per introdurre nell'organismo carboidrati, proteine, lipidi, vitamine, sali minerali, e per il piacere del palato, non per farci violenza. 
Oltretutto poverina, con l'esempio della zia che non tocca nessun tipo di carne e tira fuori dal frigo un uovo, mi sembrava molto confusa. Per fortuna sono abbastanza autoritaria in alcune cose e oggi mia madre mi dà retta, pur brontolando un po', alla fine le ho dato un po' di uova, ed era tutta contenta. 
Capriccio? A dire il vero, se ad un bambino piace mangiare qualcosa, non gli viene proprio in mente di dire di no. Quando le si mette il pollo in tavola, bisogna addirittura imporle dei divieti per fermarla.
E' così importante riuscire a mangiare carne bovina nel corso della vita? Influenza sul rendimento scolastico, sportivo, lavorativo, sentimentale?
Direi di no.

Le persone sono tutte diverse fra di loro e ci sono gusti innati e predisposizioni biologiche che si rivelano perfette per la loro natura. Per esempio, io sono stata spesso sgridata e ripresa, e sentita sbagliata, per l'orario del mio sonno: fin da bambina ero predisposta a fare tardi, più tardi degli altri bimbi, e a dormire al mattino.
E non era assolutamente abitudine: nonostante i tredici anni scolastici più uno di università, io non mi sono mai abituata. Andavo a scuola ma iniziavo a capire cosa stava succedendo molto dopo, la mia mente non è mai stata lucida e presente fino ad un certo orario, mentre sono in grado di leggere e fare giochi logici di diabolica difficoltà mentale, senza problemi fino a notte fonda.
Mia madre invece, è una che si sveglia al mattino presto e la sera crolla, così: naturalmente, mentre mio padre, me lo ricordo: stava alzato di notte per progettare e al mattino dormiva.

Si dice sempre che sia abitudine, ma non è vero: le gemelle sono l'una come mia madre e l'altra come mio padre, fin dai primi mesi di vita.
A volte riesco a svegliarmi presto ed ammetto che è bellissimo avere la mattina più lunga, ma se vivessi senza sveglie, il mio risveglio naturale è attorno alle otto e mezza, nove e mezza del mattino circa, e rendo subito e molto di più.

Altra mia caratteristica è essere predisposti a mangiare e a dormire ad orari indefiniti, quando invece si dice che bisogna seguire la routine.

In verità, io sono perfetta. Sono perfetta perché essere musicisti non vuol dire solo suonare, ma fare spesso tardi la sera, andare a dormire tardi e in alcuni giorni, mangiare quello che capita nei ritagli di tempo, fra una prova e l'altra. A volte un panino, altre un sontuoso rinfresco. O un lauto banchetto. Mi adatto senza problemi, gusto e godo i pasti, in un ristorante a cinque stelle o su di una panchina con una pizza al taglio senza problemi. Mi piace mangiare in compagnia, questo è l'importante.

Quando la gente mi stressa e mi dice che fatico a lasciare il letto la mattina, anzi mi critica come se fossi una fannullona, io mi giustifico che faccio tardi la sera perché ho le prove, perciò per dormire otto ore devo spostare tutto, ma lo dico per essere lasciata in pace, in verità è esattamente il contrario: proprio perché non ho difficoltà a fare tardi la sera e mi piace crogiolarmi fra le lenzuola al mattino, quello che faccio è su misura per me.

Venivo anche ripresa perché mi pavoneggiavo davanti allo specchio, criticata perché ero una bimbetta vanitosa, come se la vanità fosse un peccato terribile. Una volta, ricordo, feci impazzire mia madre prima di uscire, perché mi aveva fatto i codini e io insistevo che non erano alla stessa altezza: un codino era più alto, e volevo che lo rifacesse. Lei perse la pazienza e mi lasciò andare in giro disperata e a disagio, perché avere i codini di altezza differente mi faceva sentire insicura.

Anche da adolescente venivo sgridata perché mi truccavo per stare in casa. Forse truccarsi era esagerato, ma il fatto era che io avevo questa innata mia esigenza di sentirmi sempre carina in ogni circostanza. Ce l'ho anche oggi, e per fortuna, perché mi viene da sorridere ogni volta che leggo dei consigli per le donne sulle riviste femminili: consigliano di prendersi cura del proprio aspetto fisico anche in casa e di non apparire mai o troppo spesso sciatte per non allontanare fidanzati o mariti. Ecco, penso, l'ho sempre fatto per non allontanare il mio specchio, e venivo sgridata!

Non mi andava bene qualunque cosa, per esempio, mi è rimasto impresso il grosso complesso di avere lo stemma marrone col telefono grigio cucito sul mio grembiule e su tutte le mie cose, all'asilo. I grandi me l'avevano scelto senza consultarmi e credendo che un disegno valesse l'altro, ma io invidiavo tantissimo la mia amichetta che aveva il fiorellino giallo su sfondo verde.

Sapete che dico oggi? Io ero, e sono perfetta così.
Una delle cose per cui mi piace andare in giro a fare spettacoli, è proprio il dover scegliere abiti, truccarsi, prepararsi, agghindarsi, mostrarsi al pubblico, sentire il potere della vanità e femminilità portata allo scoperto in quei momenti. Se fossi più discreta o semplice, magari mi sentirei a disagio a farmi vedere o non avrei voglia neanche di prepararmi.

Ed ero distratta, non ripetitiva, svagata.

Poi, faticavo un sacco a stare nello stesso posto tanto tempo, come a scuola, seduta su una sedia per cinque o sei ore. Ma mi stancavo anche a stare in piedi, volevo vivere in modo da sedermi e alzarmi, camminare o poltreggiare quando volevo, non quando me lo dicevano gli altri. E allora mi dicevano che avrei dovuto imparare e sopportare, perché qualsiasi lavoro obbligava a stare seduti a lungo o in piedi. Avrei anche dovuto adattarmi alla quotidianità, che comportava le stesse persone tutti i giorni. Lo stesso luogo tutti i giorni. Gli stessi orari tutti i giorni, tutto quello che cioè, mi avrebbe fatto scoppiare, perché contro la mia natura incostante.
Insomma ero incostante, fannullona, ed incapace a sottostare alle regole, che brutto destino avrei avuto!

Tutti quelli che erano miei difetti, come quello di essere più tranquilla in privato e più esibizionista quando c'erano persone, come quello di trascurare la scuola e i doveri per suonare (musica, cioè passatempo, non roba seria), erano solo indizi di quello che era giusto per me: non avrei potuto fare altro di quello che sto facendo oggi. 

Oggi cambio luogo di lavoro ogni giorno. Dopo otto o nove mesi, quando non ne posso più delle abitudini e delle stesse facce, si interrompe per forza il lavoro e per qualche periodo mi allontano, giusto il tempo che mi ci vuole per non farmi venire la fantasia di cercare nuovi lidi, cosa che farei se fossi un'impiegata...

Quando insegno mi siedo o sto in piedi, o parlo guardando la finestra, quando lo voglio io. I giorni in cui ho più voglia di suonare e non di parlare, faccio un sacco di duetti e musica d'insieme con i miei allievi. Quelli in cui mi sento più loquace spiego. Le lezioni inziano dopo pranzo e la mattina ho tutto il tempo di esercitarmi senza dover per forza rivolgere la parola a qualcuno e di riconnettermi con la realtà, senza violenze quotidiane.

Ho fatto un sacco di lavori nella mia vita: barista al mattino, barista e/o cameriera la sera e notte. Baby sitter, segretaria, telefonista, impiegata, commessa, operaia. Ho cambiato un sacco di posti e datori di lavoro, colleghi. Mi sentivo sempre sbagliata e in errore.

Ma lo sbaglio non ero io: ero troppo tonda per adattarmi ad un quadrato, dovevo ricrearmi attorno il mondo rotondo.
Sarebbe lo stesso disagio di un quadrato che cerca di essere tondo: non si può... obbligare per esempio mia madre a stare in giro quando fa buio la madrebbe in crisi e soffrirebbe molto. Lei quando cala il sole si sente protetta in casa. Punto. Non potrebbe mai andare in giro a fare concerti e guidare da sola lontano.

Mi ci è voluto tanto per conoscermi e capire che tutto quello per cui venivo rimproverata e giudicata sbagliata, da "aggiustare", erano caratteristiche giuste per fare il mio attuale lavoro.
Per questo, dopo aver sofferto per buona parte della mia vita, oggi osservo i bambini, i ragazzini e cerco di capire le loro predisposizioni, che non significa solo valutare le loro materie preferite, ma anche caratteriali. Nessuna caratteristica caratteriale è veramente un difetto, se si cresce con la morale. Anche un bambino con "troppa" energia e tendenze "manesche", potrebbe essere un futuro lottatore e finire alle Olimpiadi... 

Ogni pregio potrebbe essere un difetto. Ogni difetto potrebbe essere un pregio. Mi piace questa frase.
Come le due facce della medaglia.
E' bellissimo per me oggi, iniziare la mia giornata e sentire che le cose si sono modellate attorno a me.
E mi sento giusta, sono io che sono arrivata da sola a sentirmi così. Una grande e dura conquista.

Voi vi sentite giusti?


martedì 22 settembre 2015

L'antagonista

Perché non la invitarono alla festa (il motivo ai bambini non venne mai spiegato) ma fu per questo che si arrabbiò tanto, la fata cattiva nella fiaba de' "La bella addormentata nel bosco". Mentre i grandi narravano la storia, distinguendo nettamente il bene dal male, i buoni dai cattivi, a me, sinceramente, faceva tenerezza: la vedevo originale, ma abbondonata ed emarginata da tutto il regno, ed etichettata come cattiva. Il fatto è, che se ti considerano cattiva, o diversa, perché ti isoli o sei selvatica, poi diventi cattiva per davvero.

Già.

Ma solo io la pensavo così. Le antagoniste mi erano sempre simpatiche, come Milady, per esempio.
La sapete la storia? In breve: lei era la bionda, bellissima e adorata moglie di Athos, un giorno cadendo da cavallo, lui la soccorse e scoprì il marchio del fiore di giglio sul braccio... devo aprire una parentesi a questo punto del romanzo: io mi chiedevo come un marito potesse solo in quel frangente vedere la pelle nuda della moglie, in un posto mica tanto nascosto. Vabbeh che andavo alle medie quando lessi per la prima volta "I tre moschettieri", e di sesso non ne sapevo tanto, ma questa curiosità me la sono sempre portata dentro... come facevano l'amore ai tempi di D'Artagnan in Francia???
Chiusa questa parentesi, quando quindi Athos scoprì il marchio della moglie, adorata fino a cinque secondi prima, sapete che fece? 
Come farebbe un uomo innamorato? Beh io chiederei la motivazione, vorrei farmi spiegare, poi capire se la donna si è redenta: tutti possono commettere errori ed avere una seconda possibilità, e cosa più importante: se ti ama. Non c'è mai scritto se Milady avesse amato Athos veramente o no. 
Ma lui non fece nulla di quello che farei io, se fossi un marito innamorato e scoprissi la fedina penale sporca di mia moglie che amo tanto. 
Lui la ripudiò immediatamente. Forse che lo scrittore Alexandre Dumas era a corto di idee e non si inventò una storia plausibile nella storia, per spiegare l'origine del marchio? Io non ricordo di averla letta, raccontata da Milady, ma solo che dalla delusione, il nobile conte, o duca, quello che era Athos prima di arruolarsi insomma, la cacciò via. Senza rimorsi e rimpianti. 
Ricordo poi in qualche punto del libro, dove venne spiegato brevemente che lei aveva raggirato un prete per i suoi vantaggi, tuttavia, nessuna scusa mi parve abbastanza plausibile per la reazione di Athos. Quasi come se nei romanzi di fantasia, il cattivo è sempre cattivo, e il buono sempre buono. Senza tonalità grigie e complicazioni psicologiche.

Uno psicologo ai giorni nostri analizzerebbe, tramite qualche seduta, la testa del'ex consorte del moschettiere e direbbe: "Povera infanzia di Milady! Orfana, povera e cresciuta da sola, senza guida, senza affetto, senza una famiglia. Che poi era pure inglese e come mai stava in Francia? Aveva bisogno di guadagnarsi da vivere, ma voi nobili nati nella bambagia e senza problemi di sopravvivenza non capite un cavolo!"
Allora l'antagonista farebbe pena, capiremmo la sua sete di rivalsa, l'ambizione di sfruttare la bellezza per entrare a far parte della nobiltà, scalare la società e diventare un qualcuno, sentirsi importanti, una volta nella vita! Ci commuoverebbe e diventerebbe un'eroina".

Là verità...

La verità per cui provavo empatia ed attrazione per le cattive delle storie, era che io ero sempre l'antagonista. Forse anche oggi. Gli antagonisti sono cattivi, e il male perde sempre. Infatti, le cose mi vanno sempre difficili.
Non mi sono mai sentita la protagonista della mia vita a lungo, chi ha scritto questo romanzo mi ha designata così: asociale, "piccola e scura come quelli del popolo fatato"... no, quella era Morgana. Morgan le fay era cattiva, brutta perché bassa e scura. Ginevra era la buona. Mamma mia, che donna irritante era Ginevra: bionda, bigotta, timorosa di tutto, ignorante come una capra, principessina. Che poi: lei tradiva Artù con Lancillotto, non è che fosse tutto questo stinco di santo. Però lei era buona perché cristiana (le cristiane tradiscono i mariti?) e faceva la dolce virtuosa.

Io, invece, volevo essere libera da pregiudizi e sapere fare incantesimi come Morgana, volevo conoscere le persone, vivere ed essere bella ed intelligente come Milady, non volevo leccare i piedi del re e della regina per essere la buona della storia. Il prezzo da pagare, cioè le sfide e l'emarginazione era di certo alto, ma cavolo, essere falsi, per me era molto più umiliante che vivere da antagonista.

I miei primi ricordi di diversità, risalgono ai tempi dell'asilo nido. Non che mi ricordi molto, delle mie immagini trovano oggi spiegazione e conferma grazie a quello che mi dice mia madre: cioè che per motivi di logistica, finii alla scuola materna delle suore, benchè fossi in età da asilo nido, con bambini quindi più grandi di me. 
Non potendo partecipare alle attività, io ero quella non solo straniera, ma che dormiva nella brandina anzichè giocare, portava il pannolino, doveva farsi imboccare per mangiare e avevo sempre attaccata suor Maria Rosa alle calcagna.
Anche alle recite scolastiche ero sempre truccata (neanche tanto) da straniera venuta da lontano. Nel presepe umano della scuola, alle elementari, non sapendo (o non volendo?) mettermi in camicia da notte della mamma, e mettermi nel mucchio degli angioletti assieme a tutte le altre bambine dalla pelle bianca e gli occhioni da bambola, pensarono giustamente di vestirmi da zingarella e mettermi vicino ai Re Magi. 
Le bambina più speciale faceva la Madonna: bionda, fine e spirituale, la bambina più bella della scuola. Perciò io non ero la più speciale: ero la zingarella. L'unica zingarella, con il gilet rosso, la sottana lunga da gitana, il fazzoletto scuro con i fiori in testa e la camicetta bianca.

"Ma che ignoranti! Io ti avrei messo in primo piano fra gli angioletti! Un angelo orientale, sai che bello? Le maestre hanno perso una così bella occasione per insegnare qualcosa di bello a dei bambini!" esclama la mia amica regista, che di lavoro "serio" è una maestra delle scuole elementari. "Che poi, la Madonna non era neppure europea, non doveva essere bionda con gli occhi azzurri!"

Ecco, dai tempi molti remoti, iniziai a vedermi come un'originale, sì, ma originale nel senso di non far parte di un gruppo, come le antagoniste, come le cattive delle fiabe. I miei capelli sono da Lucifero: avete mai visto una fatina celeste o un angiolo, un putto svolazzante nel cielo con i capelli neri e lisci?


A volte però, mi soffermo, e mi chiedo: ma chissà, come ci si sente ad essere le protagoniste delle fiabe? Quelle con il lieto e sospirato finale, quelle che incontrano il principe azzurro e sono felici, amate e buone, benvolute da tutti. Quelle dalle esperienze che finiscono bene, che quando compare la scritta. "The end", vengono fermate nello scatto sorridente. 

A volte però, non so se riuscirei ad esserlo, perché si cresce, e si tende a dare quello che si è ricevuto. Ad essere quello che si è abituati ad essere visti. Forse sì, a volte mi sento la protagonista e mi piace tanto, ma poi, credo che sia una breve novella, uno sbaglio, non un romanzo vero, perché subito le cose cambiano. Non rimango mai la protagonista a lungo.

Vorrei riprendere tutti gli antagonisti delle storie, riscrivere i romanzi dal loro punto di vista, cambiare i finali. Sarebbe bello se anche loro avessero la loro rivalsa. Una vita di lotte e di avventure che le principesse si sognano, nella loro monotona realtà.
I buoni, che di solito sono buoni per la società, perché fanno le cose giuste che garbano agli altri. Sono sempre tanto noiosi e ridicoli. 
"Sì, sì, sì..." dicono sì. Le principessine bionde, non sanno fare nulla. Sono paurose. Non si buttano.
Ma che c'è di bello a vivere così?





mercoledì 19 agosto 2015

Grido

E mi fu dato questo cuore, ma non le istruzioni per usarlo. 
E venni buttata in una vita più grande di me, senza guide e senza possibilità di rimediare agli errori.