lunedì 10 novembre 2014

Infinito

Questo è un bellissimo tempo, per andare a dormire, per ricominciare.
A novembre inizia la primavera, annusa l'aria di fiori e di nebbia.
Tutto parla, messaggeri sibillini.

E poi dicono che novembre sia il mese più triste dell'anno. Lo dicono perché non hanno mai vissuto a Fog City.
Quella bolla di vetro ancora, se ne infischia del tempo che scorre.



giovedì 23 ottobre 2014

Shhh! Non fare la bambina!

Mi ricordo del perché a volte mi sento frenata quando devo uscire per negozi con mia sorella. Non capisco perché mi dica di abbassare la voce o di zittirmi quando trovo qualcosa che mi piace e allora esclamo felice il mio entusiasmo. Non è che io gridi, solo mi lascio sfuggire: "Guarda questo! Guarda che bello!!!". E lei: "Shhh! Ti sentono!".
Io mi guardo attorno e non vedo gente infastidita... solo curiosa, divertita o indifferente. In verità, quasi non si accorgono di me. Poi lei aggiunge: "Non fare la bambina". E io ci rimango male, non capisco perché essere entusiasti di qualcosa sia riservato ai bambini, gli adulti non si entusiasmano mai? 
Non mi sembra di essere maleducata in quei momenti.

Invece io trovo maleducato chi parla dei fatti propri ad alta voce al telefono, in luoghi pubblici, quello sì, o chi dice parolacce in continuazione, chi arriva in ritardo, chi non restituisce le cose prese in prestito, chi spettegola alle spalle o fuma senza preoccuparsi di chi ha vicino. Non mi sembra che essere felici sia maleducazione, ma, a quanto pare, a molti da fastidio. A molti di quelli infelici.

Ho notato che si parla spesso di autostima e di felicità come requisiti positivi e da raggiungere, poi però quando una persona si dimostra sicura di sè, appagata e felice, la gente attorno bisbiglia: "Io odio quelli che si fanno gli autoscatti". "Ma chi ti credi di essere", "Non fare la bambina", "Cresci".

Così ho analizzato l'origine di questi fastidi.

"Io odio quelli che si fanno gli autoscatti". Chi lo afferma di solito, vuol dire che non se li fa. Certamente a chi piace farseli, come a me, c'è una certa dose di narcisismo ed autocompiacimento, ma fra tutti i difetti, se così li si può chiamare, se la vanità viene espressa in fotografie, non vedo come possa infastidire qualcuno. 

Invece ho capito perché la cosa infastidisce: non sono invidiosi dell'aspetto fisico (magari qualcuno sì), ma si sentono urtati dalla buona autostima sbattuta a loro in faccia. Il fatto che una persona si senta serena col proprio aspetto fisico, gli ricorda due cose: la prima, che è sbagliato piacersi. Magari pure loro si piacciono, ma gli è stato insegnato che è sbagliato essere vanitosi. Se fossero veramente modesti non si sentirebbero toccati dalla vanità altrui, invece si frenano con una finta modestia e se la prendono con chi si sente libero dal pregiudizio dell'essere vanitosi. La seconda spiegazione è che invece hanno molti complessi sul proprio aspetto fisico e trovano sfogo a denigrare quello altrui, criticando difetti o comportamenti di autocompiacimento, come se si sentissero meglio a sputare un po' del proprio veleno in giro.

"Non fare la bambina, cresci". I bambini sono creature al di sotto dei dieci anni, dopo si chiamerebbero "ragazzini". Caratteristiche biologiche e mentali di questa fascia di età, sono una certa innocenza, una continua sorpresa per tutte le cose che si scoprono del mondo e della vita, un non potere e sapere sopravvivere in certe circostanze senza l'intervento di qualche adulto, come spostarsi da un posto all'altro, firmare, comprare, lavorare, mantenersi... tutte cose ovvie direi. 
 Tutti i bambini, anche quelli a cui viene insegnato a "non dire le cose", tendono ad essere più sinceri, a dire le cose come stanno e a non sapere frenare antipatie e simpatie. A questa età si è più creativi, poi crescendo si impara ad essere diplomatici, il più delle volte per il proprio interesse, a frenare i proprio istinti, a ragionare in maniera "utile" e a dare per scontato il mondo, avendo già scoperto tutto e quindi a non stupirsi più. Però si inizia a lavorare, si affrontano i problemi da soli e si è autonomi.

Io in famiglia ho sempre affrontato i miei problemi emotivi da sola, e da quando lavoro anche quelli materiali. Anzi spesso mi sonno accollata quelli altrui, per esempio, quelli di mia sorella stessa. Per conto mio so procurarmi i soldi lavorando e so fare i calcoli per arrivare a fine mese, rinunciando a qualcosa se serve e, se dovesse essercene bisogno, non mi farei problemi a lavorare di più, facendo la cameriera o la baby sitter extra, o qualcos'altro di onesto pur di cavarmela da sola. Sono in grado di arrangiarmi e di spostarmi senza dipendere da nessuno. Perciò, non mi sento una bambina nel senso negativo. 

I "non cresciuti" sono invece quelli che non sanno prendere decisioni importanti per paura di "cosa dicono gli altri" o di stare da soli, come se non avessero veramente staccato il cordone ombelicale dal controllo e dalle sgrida di mamma e papà. Io invece fin da piccola, questi problemi non me li sono mai fatti: del giudizio altrui non me ne è mai fregato nulla e mi è più difficile tradire me stessa che dovere affrontare la solitudine o l'ira e il pregiudizio altrui. Essere adulti non significa avere ruoli importanti nella vita o guadagnare cifre stratosferiche, se poi si è falsi, si sparla, se poi ci si comporta con ripicche, vendette e ricatti emotivi, come fanno i bambini a cui viene negato un giocattolo.

Molti confondono però, la creatività, il gioco e l'entusiasmo con l'essere "infantili e regrediti". Eppure Giovanni Pascoli stesso, che non era un idiota, spiegava, nella sua poetica del fanciullino, cosa distingue un artista da un non artista: il poeta è semplicemente un adulto che ha conservato il fanciullo che è in se, che tutti siamo stati.
Come vengono descritti gli artisti? Con aggettivi come: "creativo, fantasioso, stravangante", tutte cose che siamo stati da piccoli, chi più, chi meno. 

Io, proprio perché ho ancora un lato infantile sviluppato, legato alla scoperta, ho sempre sete di scoprire, di conoscere le cose e di stupirmi, e questo mi spinge a leggere tutto e dappertutto e ad imparare continuamente, a non considerare la vita raggiunta ad una certa età. Vorrò sempre sperimentare e imparare qualcosa fino alla morte.

Quello che infastidisce i "maturi" dell'atteggiamento entusiasta e "da bambini", è che sotto sotto invidiano la libertà che pure loro vorrebbero. Vivono incatenati in una vita senza emozioni pure e gioiose, senza più "scoprire il mondo", non sapendo più cos'è il divertimento del gioco e dell'entusiasmo. A loro urta vedere un adulto che si diverte o che è felice con poco. Certi adulti non potrebbero mai essere felici neanche con tutto il potere, con tutti i soldi e le attenzioni del mondo, sono delle cause perse, inutile starci dietro.

Chiudo il pensiero del giorno con un aneddotto che raccontavo ieri sera ad una mia amica e che ci ha fatte ridere per un bel po'. 
Siccome sto imparando a produrmi da sola la biogiotteria che mi piace tanto, ero molto felice due sere fa quando, dopo aver capito come si usano certi arnesi e a cosa servissero altri, con delle perline riciclate da vecchie collanine e monili della nonna, a lezione mi sono inventata e costruita i miei primi orecchini. Questa cosa di creare, inventare, progettare, costruire e sperimentare, mi prende totalmente, un po' come le mie nipotine di tre anni quando giocano nel loro mondo.
Siccome i primi esperimenti sono venuti bene, mi sono emozionata per tutta la sera e fino alle tre di notte sono rimasta sveglia a rimirarli: facevo così da piccola, quando mi compravano un giocattolo nuovo e non riuscivo più a dormire perché ero troppo felice. Finalmente, dallo sfinimento, i miei occhi hanno reclamato sonno, ma prima di addormentarmi veramente, mi sono ricordata degli orecchini, così mi sono svegliata, ho acceso la luce e li ho guardati di nuovo. E poi sono crollata.

La mia amica si è messa a ridere tanto quando gliel'ho raccontato e io, che fino ad allora non mi ero resa conto del lato comico del mio comportamento, mi sono messa a ridere pure io.

In fin dei conti, ha ragione mia sorella: sono proprio una bambina!



mercoledì 15 ottobre 2014

Storie dell' Indocina, III parte - Mio padre

Veniva da un po’ più a nord, nel senso che c’erano dei periodi dell’anno in cui si portavano dei golfini, e faceva freddo “Come a settembre in Italia quando piove”.

Erano in quattro fratelli, mio nonno faceva il taxista. Aveva sedici anni in più di mia nonna e morì quando mio padre era un ragazzino. Ho sentito raccontare questo episodio da mio padre, ma una volta non capivo perché terminasse il racconto con una strana risata, ad alta voce. Il pubblico ascoltatore rimaneva di sasso per il finale, in un silenzioso imbarazzo, non sapendo se partecipare, se ridere con lui o dispiacersi, se fosse uno scherzo o che altro. Ma credo che se avesse detto le cose con un tono di voce contrito e con qualche lacrima, non si sarebbe percepita la stessa amara, soffocata rabbia e disperata rassegnazione.

“Litigammo, mi sgridò, io mi arrabbiai,  per ripicca andai via di casa, portai via anche lo zio. Andammo al cinema, quando tornai lui era morto”.

Mia madre si lamenta sempre che mio padre racconta le cose così… male, senza condimenti, scrive pure male, dice lei. E queste due righe sono tutto ciò che so di mio nonno, a parte che credo sia morto d’infarto o di pressione alta… di più non so. Ma c’è un’unica foto di lui in bianco e nero in casa e ritrae l’immagine di un uomo scontroso e burbero. “Come assomiglia a papà” dicevo da piccola.

Così mio nonno morì, lasciando mia nonna sola al mondo con quattro figli piccoli. Se della famiglia di mia madre so molte cose dei parenti e dell’albero genealogico, che durante il dominio francese qualche europeo si è infiltrato fra i miei avi e so pure un sacco di aneddoti e racconti di vita, di quella di mio padre non so praticamente nulla. Ho sentito raccontare che mia nonna scese da ancora più a nord, giovane e sola con una sua sorella. Ma che nella folla la perse di vista e non si rividero mai più. Non so come abbia poi conosciuto mio nonno.

A mio padre è rimasto impresso il sacrificio di suo fratello e di sua sorella maggiori, che ad un certo punto rinunciarono a studiare per aiutare la madre, per mantenere i due fratelli minori e consentire a loro di studiare e crearsi un futuro dignitoso. E racconta che la nonna si privò di tutto, di una vita, per sobbarcarsi da sola la famiglia. Ogni mattino si alzava all’alba e andava a vendere pesce al mercato. Tornava la sera tardi, stanca. Quando i figli crebbero, ci fu la guerra, poi la dittatura, poi la famiglia distrutta, ogni membro in un continente diverso. Morì con un figlio in Italia, uno in Canada e uno negli Stati Uniti. Solo la femmina era al suo capezzale. Questa fu la vita di mia nonna.

“A volte, per cena, avevamo un pugno di riso e un uovo da dividerci in cinque” ricordo che raccontò una volta mio padre.

Quello che so di lui, è che con una madre al lavoro tutto il giorno, senza padre, senza ricchezza e con molte rinunce, crebbe con troppa libertà, imparando a cavarsela da solo e con un forte desiderio di rivalsa e di ambizione.

Fu certamente la sua testa brillante, ma credo che contò molto anche la forte motivazione di rendere felice mia nonna, a spingerlo a studiare e ad impegnarsi tanto da superare il test di ammissione ed arrivare primo fra le migliaia di candidature presso l’unica università di architettura di tutto il paese, giù, nella capitale del sud, dove scese con il sogno di diventare architetto e dove conobbe mia madre.

Quando tornò a casa per comunicarlo a mia nonna, lei gli disse solo: “Bravo”. Poi andò in un’altra stanza e ritornò con dei soldi: “Questa sera esci a divertirti” gli disse. Ma era sicuramente commossa ed orgogliosa, e quei soldi erano forse una sua giornata intera di lavoro, avrebbe poi fatto economia da un’altra parte, sull’essenziale, era il modo di mia nonna di esprimergli orgoglio e affetto materno. 
Nessuna scena teatrale. 

Come quella volta che lei venne in Italia, avevo sedici anni e mi vide per la prima volta. Nessun abbraccio, ma mi tenne strette le braccia annuendo, era un po’ tremante, eppure quegli occhioni neri, rotondi e buoni, quelle rughe profonde, i capelli bianchi raccolti, il volto magro e segnato dalla sofferenza, mi penetrarono in fondo fino a farmi male.

Lo scrittore Antoine de Saint-Exupéry scrisse: “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. La mia famiglia paterna è così, non si interpreta tramite quello che si vede con gli occhi e si sente con le orecchie.

Degli anni che mio padre visse da solo come studente universitario, so qualcosa dai racconti di mia madre, altrimenti non potrei dire di conoscerlo.

So che per mantenersi, dava ripetizioni di matematica di giorno, mentre la notte rimaneva in piedi per disegnare i fumetti per un giornale. Che aveva solo due camicie e due paia di pantaloni, così doveva lavare ogni giorno e fare asciugare la notte in tempo. Cucinava e mangiava per se stesso, ma per lui era normale digiunare quando non c’era nulla, perché i soldi servivano per pagarsi gli studi, non rinunciò però a comprarsi una chitarra che imparò da autodidatta a suonare.

Di certo non poteva concedersi divertimenti, e neppure amicizie. Così la chitarra divenne il suo conforto e la sua compagnia nei troppi momenti di fatiche e di solitudine.


lunedì 13 ottobre 2014

Storie dell'Indocina, II parte - Il collegio

Parla mia madre:


Il collegio era solo femminile. C’erano delle ragazze che frequentavano la scuola il mattino e poi tornavano a casa, ed altre che rimanevano a mangiare e a dormire, vivevano là tutto l’anno. Di queste, la maggior parte tornava a trovare la famiglia il sabato e la domenica, mentre un gruppo più ristretto, a causa di impegni o problemi familiari, invece tornava solo a Natale e a Pasqua e durante le vacanze estive. Io ero una di queste, e così vivevo dei mesi in collegio senza mai vedere la mamma e il papà, senza vedere i miei fratelli. 

A casa? Non tornavo, c’erano solo i miei due fratelli e il personale di servizio, tua nonna spesso si assentava per andare a trovare il nonno presso la base militare, che era lontano da dove avevamo la residenza. Per stargli vicino, rimaneva dei giorni e delle settimane con lui.

Ricordo quando il venerdì sera le ragazze salutavano e, felici, tornavano in famiglia. Allora la scuola si svuotava, nella stanza rimanevamo solo io e una mia compagna di classe, perché tua zia, mia sorella, aveva due anni in meno di me e ne frequentava un'altra, così l’avevano messa dall’altra parte dell’istituto e non ci vedevamo mai. 
Eravamo noi due sole, eravamo diventate molto amiche. Lei era bellissima... e sola. Non ricordo perché neppure lei non avesse qualcuno che la venisse a prendere, ma condividevamo la stessa solitudine. Bisbigliavamo per non farci sentire dalle suore, in questa grande stanza piena di letti vuoti, al buio. Avevo così paura dei corridoi e delle scale di notte… mi ricordo di questo. Una grande paura.

Quanto tornava il lunedì le ragazze rientravano e riprendevano le attività. Il lunedì era un giorno particolare, i corridoi si riempivano, eravamo tutte “uguali”…

Le suore erano molto rigide e severe. Ci punivano se non rispettavamo la disciplina. Colpi di bacchette sulle nocche, o in ginocchio per ore sulla ghiaia, contro il muro. Ma ce n’era una che era così dolce e buona… era quella che cantava e suonava il pianoforte durante le messe, io le volevo bene. 

Quando tornai a casa e dissi ai miei che volevo vivere in clausura così, nella mia solitudine ed imparare la musica, mio padre mi disse: “Ma sei ancora così giovane! Non hai vissuto nulla della vita, come puoi scegliere consapevolmente? Noi siamo buddisti… ma ogni religione insegna ad essere buoni. Prima di prendere una decisione così importante, vivi qualche anno fuori, vivi la vita che fanno tutti, e se ancora lo vorrai… non ci opporremo… se ancorai sentirai di volere abbracciare il cristianesimo e ritirarti al servizio di Dio”.

Tu penserai che fossi triste… ma io non ero triste. Mi ero abituata al collegio, e poi avevamo anche dei momenti felici: mi ricordo quando insieme alle suore, aiutavamo il prete a preparare le messe. Avevamo il compito di ritagliare le ostie, allora ci riunivamo attorno al tavolo, eravamo alcune ragazze insieme a delle suore.
Ecco, quelli erano momenti felici!

In verità, non so se volessi tornare a casa. La vita di fuori non la conoscevo, ma sentivo le governanti raccontare che una ragazza, una vicina, era stata stuprata mentre camminava, o di persone folli in giro per le strade. Io lì dentro mi sentivo protetta. Lì c'era silenzio e ordine, non ho mai voluto cercare altro. Tua zia invece tentò di scappare...

Poi, dopo tanti anni passati là dentro, cresciuta là dentro, ci trasferimmo di casa. E un giorno dovetti lasciare il collegio, decisero che gli ultimi anni scolastici li frequentassi normalmente, in una scuola pubblica come tutti gli altri. 

La mia vita cambiò.
Non tornai mai più a vivere fra le suore.






domenica 12 ottobre 2014

Ascolta

Di notte, sotto il piumone caldo, mi rifugio ed ascolto la pioggia di ottobre che bagna i campi e le strade, che batte sopra il tetto, sopra di me.
Mi piacciono le luci soffuse e gli ambienti semplici ma vivi di piccole abitudini quotidiane.
Come preparare una tazza di te, riordinare, pulire. Appendere gli abiti e rifare il letto.
La serenità è nei gesti spontanei, nelle speranze, nei progetti. In una casa modesta, in una casa amichevole, nella vita di tutti i giorni. Non nei diamanti, non nelle sfide.
Nella quiete, tutto qui.



venerdì 10 ottobre 2014

Domenica 12 ottobre 2014

Salò: evento "Colorando" 11-12 ottobre 2014

Arte, musica, giocolieri e mille colori... "Colorando" Salò



Salò: evento "Colorando" | 11-12 ottobre 2014 Presso Piazza Cavour 
Dal 11/10/2014 Al 12/10/2014

SALÒ. Sabato 11 e domenica 12 ottobre, in piazza Cavour e via Cavour, dalle 10 alle 19 è in programma "Colorando", evento organizzato da "Gli amici del Peler", che porterà in piazza 250 opere di pittori bresciani, veronesi, mantovani e milanesi.

Non solo. Ci sarà anche "tanta e ottima musica", divertimento per i bimbi, giocolieri, mimi, cartomanti e 250 coloratissimi ombrelli con cui sarà allestita un'originale coreografia.

Durante la manifestazione saranno inoltre raccolte le firme per presentare all'Amministrazione comunale la richiesta di riportare in paese il mercato del sabato.




martedì 7 ottobre 2014

Storie dell'Indocina, I parte - Mia madre


Come si sono conosciuti la mamma e il papà? 

La mia prima psicoterapeuta mi fece scrivere come compito la storia dei miei genitori, dal loro incontro a quando si sposarono, forse perché per comprendere al meglio una persona, bisogna risalire indietro alle origini famigliari, o forse per costringere il paziente a dialogare con uno o entrambi i genitori, se non altro per chiedere informazioni, oppure, perché pensandoci e scrivendone, chi esegue il "compito" conosce poi meglio se stesso.

Comunque qui di solito parlo di me, ma oggi mi è venuta voglia di rispolverare la storia dei miei.

La loro storia non è molto lunga, nel senso che dal primo incontro a quando si sposarono, passò solo un anno. E' più impegnativo dover descrivere la società del tempo che parlare di loro, ma è doveroso farlo per riuscire a comprendere alcune dinamiche.

Per cominciare, bisogna pensare  all'ambientazione sia storica che geografica: siamo in Estremo Oriente, negli anni Cinquanta-Sessanta circa, in un periodo in cui c'erano visive differenze fra le classi sociali. Per esempio, mia madre mi raccontava che per distinguersi come famiglia per bene, lei e sua sorella vestivano di bianco.

Vestirsi di bianco in un paese sempre estivo, significava che: chi li indossa non svolge attività faticose che fanno sudare e sporcare, e che gli abiti vanno cambiati e lavati spesso, cosa che i ricchi potevano permettersi. Altri tratti distintivi erano i capelli profumati, lucenti e non bruciacchiati dal sole, e la pelle diafana, il più chiara possibile: avere carnagione "pura" indicava ragazze per bene che giravano in macchina (non tutti se la potevano permettere) e che non dovevano affaticarsi per le strade.

Oltre alla differenza fra i ricchi e i poveri, c'era anche uno spacco fra i tradizionalisti e gli "occidentalizzati", quest'ultimi, non erano ben accolti dalla maggior parte del paese. Erano "depravati occidentalizzati" quelli che avevano "perso di vista le origini, le tradizioni" ed erano concentrati nella capitale del sud, metropoli che ancora oggi, chi viaggia da quelle parti pensando di trovarci l'Oriente, se ne ritorna deluso e critico: "Non c'è niente di orientale nel sud, la bellezza del paese sta al nord, con le montagne, le risaie e le cascate. La natura incontaminata. Le donne miti, in abito tradizionale!".

Il sud riportava ancora tracce degli anni in cui era stata una colonia francese, mescolandosi al contempo alle novità importate dagli americani del nord, con cui erano in rapporti politici ed economici.

Le ragazze del sud erano famose per essere "facili". Giravano in minigonna (la jupe) e in pantaloni a zampa di elefante. Ascoltavano musica occidentale, mangiavano "le fromage", una cosa puzzolente a base di latte di mucca che arrivava dalla Francia, "le chocolat", bevevano "le cafè"! Facevano amicizia e legavano con gli stranieri e addiritttura ci facevano dei figli assieme.

In questo contesto gaio e colorato, crebbe mia madre, e per esattezza nella fetta "ricca" e pure "occidentalizzata". Mio nonno, sapeva bene come crescevano le fanciulle in una metropoli con continue incursioni di militari alti e bianchi che venivano di passaggio e poi se ne tornavano al loro paese, e pensò bene di mandare le figlie in collegio, in campagna, lontano dai divertimenti, sotto la tutela e lo sguardo rigido delle suore francesi. 

E qui iniziò l'adolescenza triste ed isolata di mia madre: sveglia alle sei, preghiere tutte le mattine, mai contraddire le suore, disciplina ferrea, lingua parlata in francese e a letto presto tutte le sere. Viveva lontana dalla famiglia e da sua madre.

Quando tornava a casa non era molto diverso: mia nonna era una signora raffinata, voleva bene alle figlie ma, secondo la buona educazione ed il rispetto del tempo, ne era un po' distaccata. Ognuno dei suoi figli aveva un autista ed una cameriera personale e mia madre era legata alla sua, che era anche una specie di dama di compagnia. 

In quanto a mio nonno, era colonnello e non stava molto a casa, ma quando c'era, la sua disciplina non doveva essere una passeggiata, perché ho sentito dire più volte da mia madre che lei in collegio si trovava bene. "Leggevo le poesie, a volte le scrivevo", mi diceva. "Volevo farmi suora e rimanere là, imparare a suonare il pianoforte e cantare le canzoni della chiesa, mi piacevano tanto, ma tuo nonno non voleva".




domenica 5 ottobre 2014

Il labirinto

Nota:  I racconti qui pubblicati sono inediti  ed interamente ideati e scritti da Thasala Phan, a cui appartengono tutti i diritti (vedi nota in fondo alla pagina). Alcuni luoghi citati, i personaggi e le trame sono frutto di sola fantasia. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


*** 


IL LABIRINTO ©
Mercoledì 1 Maggio 2013


“Le leggi cui sottostavano gli abitanti del labirinto erano paradossali, ma immutabili. Una delle più importanti diceva: Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne.”
(Michael Andreas Helmuth Ende)


- E così, vedi, noi siamo qui da millenni. In questo labirinto. Non c’è modo di uscirne, perché la felicità rende leggeri, e noi siamo sempre più pesanti, come il piombo. Tutto è grave e sprofonderemo nella terra da dove siamo venuti – spiegò l’anziano al giovane viaggiatore.
- Non mi rassegno – rispose questi – io troverò un modo di andar via di qui.
- Sei ancora giovane. Ma ti rendi conto che giri in tondo da anni e sei sempre più stanco. Sei stanco e appesantito. Questo ti rende infelice.
- Ragazzo, non si può andar via da qui – si lamentò una donna che pareva avesse cent’anni. A guardarli bene però sembravano tutti molto più vecchi della loro età, come se l’infelicità li avesse invecchiati. Anche i bambini sembravano anziani, anzi a ben vedere non c’erano bambini.
- Perché siete infelici? – chiese il viaggiatore.
- Perché è la legge del labirinto: solo chi può uscirne può essere felice, ragazzo. Ma solo chi è felice può andar via di qui. Leggi il cartello del signor Ende, è nel libro Lo specchio nello specchio.

Il viaggiatore riflettè. Lui non voleva arrendersi e rimanere in quell’isola. Erano anni che cercava una via d’uscita. Doveva trovare un modo per andar via da quel posto sempre più pesante, sentiva man mano crescere dentro di sé la tristezza. E la voglia di arrendersi.

- No, no… non può finire così… - si disse disperato e smarrito.

Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne. Diceva chiaramente il cartello affisso sulle mura della città.

Un’isola tonda labirintica. A forma di Cerchio. Passò ancora un’altra notte a dormire in quel posto e l’indomani riprese nuovamente il viaggio, ma più camminava, più scordava quale fosse la sua meta e perché viaggiasse. E dopo un altro anno una sera si arrese:

- Sono infelice – si disse – non ce la faccio, non uscirò mai più da qui… - e crollò al suolo mentre il deserto attorno a sé soffiò arido e vittorioso e la sabbia cominciò ad avvolgerlo.
La notte era fredda ed egli divenne abitante del labirinto.
Fino all’infinito.


The “Ende



Conoscevo il signor Ende. Scriveva di storie infinite e di specchi che riflettevano specchi in una sorta di presa in giro onirica e tormentata. Egli era troppo potente perché potessi riscrivere le regole dell'isola a forma di cerchio e salvare il mio viaggiatore perso nel labirinto, ma potevo con le mie poche capacità scriverne il seguito e dargli una seconda vita.
Dopotutto anche nel mio nome c’è stata una seconda opportunità.

Ecco come andarono le cose. 

Il viaggiatore crollò al suolo e vi rimase per molto tempo. Entrai nella sua mente per parlargli, lo trovai con la testa fra le mani nell’oscurità.

- Ciao – dissi.
Mi guardò perplesso.
- Chi sei, dove sono? – domandò.
- Mi chiamo Aslaath, siamo in un tuo sogno.
I suoi occhi erano intontiti e non sembrava aver compreso.
- Sogno! – esclamai – il confine di tutto… - cercai di spiegare.
- Che ci fai qui? – mi interruppe brusco.
- Per tirarti fuori da questo posto. Dal labirinto intendo, non dal sogno! – mi corressi.
- Come sei venuta fin qui?
- Io ho questa capacità – sorrisi – vago nei sogni, a volte mi perdo, anzi direi quasi sempre, ho uno scarso senso dell’orientamento e odio guidare, sai… ma dopo varie volte che non so dove sono torno indietro e cerco la strada, chiedo e poi imparo come arrivarci. Sai una cosa? Mi comprerò un navigatore! – aggiunsi pensierosa, ma poi ripresi guardandolo: - Nel tuo caso ho seguito le indicazioni!
- Parli troppo! – fece laconico.
- Ops! Scusa… - dissi mortificata – senti: c’è un modo per uscire dal labirinto di Ende.
- Bisogna essere felici – disse.
- Sì.
- Ma solo chi riesce ad uscire è felice.
- Sì…
- Sei scema? Non c’è soluzione, è un labirinto.
- Quindi tu cerchi la felicità solo per andar via di qui? – chiesi, ignorando il suo “scema”.
- Io voglio uscir di qui per essere felice.
- Capisco. Quindi non c’è verso…
- Mi prendi in giro?
- No! Solo non capisco perché vuoi essere felice!
- Per andar via di qui, te l’ho detto no?
- Ma come ci sei finito qui?
Per una volta non mi guardò con sufficienza e rimase a fissarmi in silenzio.
- Ti svelo un segreto: nessun abitante del labirinto è nato in questo posto. Ci sono tutti finiti il giorno in cui hanno acquisito la consapevolezza. Ma dopo si scordano. Si scordano di quando erano felici. Quando ti ricorderai come sei arrivato in questo posto saprai anche come uscirne.
Silenzio.
- Chi sei? – mi chiese nuovamente.
- Non ti scorderai facilmente di me – dissi con noncuranza alzando le spalle – arrivederci! – e uscii dal suo sogno.

Questo fu il mio intervento. Non ero certa che sarebbe riuscito a capire cosa volessi dirgli ma avevo fatto del mio meglio e, ripensandoci, visto quanto era stato indisponente con me, non so se se lo fosse meritato…


Anni dopo il viaggiatore scrisse questa lettera:

"Quand’ero piccolo persi una perlina di lacrima, era trasparente e luccicava, sembrava rugiada.
La cercai dappertutto, nelle amicizie, nelle albe e nei tramonti, ma non la ritrovai mai più.

Poi un giorno mi ritrovai in quel labirinto, e mi scordai di quella goccia. Il mio unico scopo era cercare di uscire da quel posto. Dovevo a tutti i costi essere felice per andar via ed essere così felice. Proprio così, era la legge del labirinto. Essere felici per… essere felici! Che senso aveva? Non lo so.
Una sera venne una persona a trovarmi, fu come un astro caduto dal cielo e guardandola negli occhi fu come vedermi nello specchio. Lo specchio nello specchio.
Era solare e l’opposto di me.
Mi chiese perché volevo essere felice. Risposi che volevo esserlo per uscire dal labirinto, ma quando mi chiese come c’ero finito non seppi trovare una risposta.
Se ne andò com’era venuta.
Il segreto era ricordare.
Gli abitanti del labirinto erano tutti troppo presi dal loro fallimento e dalla rassegnazione. Non avevano più un futuro o pensavano di non averlo. All’improvviso mi resi conto, con spavento, che in quel posto non c’erano bambini, e che tutti si erano scordati di esserlo stati. I bambini.
Sono stato piccolo anch’io? Certamente, ma non ricordavo più.
Da piccolo ero stato felice e non avevo nulla, solo la sete di conoscere il mondo, la vita, con i tanti perché, dove, come, cosa. Quelle stesse domande che mi avevano portato in quel labirinto. Ero felice perché ero innocente, perché mi fidavo, perché sognavo l’impossibile e lo rendevo possibile, nel mio piccolo mondo.
Avrei voluto che quella ragazza finita nel mio sogno fosse rimasta un po’ di più, per farle altre domande, ma se ne andò subito. Ripensandoci… forse era un po’ troppo svitata perché andassimo d’accordo. Parlava veramente troppo! E poi aveva un nome impronunciabile.
Da adulti non si può tornare indietro e vivere come i bambini. Ma smisi di cercare la felicità perché non era quella la soluzione, e quella sera nel deserto, quando mi ripresi e guardai sopra di me, mi accorsi, dopo tanti anni, che c’era un cielo con la luna e le stelle. Mi guardai attorno con gli occhi di un bambino e scoprii che c’erano tante cose da esplorare in quel posto e che potevo fidarmi, che non dovevo oppormi alle pareti del labirinto e stranamente non sentii più l’isola mia nemica. Mi sentii sereno e pieno di progetti come quando mi ero incamminato per conoscere il mondo e, conoscendolo, ero finito in quel posto.
Il mio nuovo scopo fu di conoscere le storie delle persone in cui vi vivevano e dialogare con la natura e gli animali. Non più di andarmene. Annusai l’aria e ascoltai il mare. Fu un attimo. Mi sentii felice.

E mi ritrovai a casa mia. Fra i miei cari, i miei genitori che mi avevano messo al mondo. Non dovevo più fuggire da loro ma comprenderli. Ero fuori dall’isola. Ora avevo la capacità di camminare senza più perdermi nel labirinto. Senza perdermi troppo a lungo intendo. Quando succede mi guardo allo specchio e mi sembra di rivedere Aslaath che mi ricorda come uscirne.
Chissà dov’è adesso. Penso che dovrei ringraziarla." 
H. Van



Sono ancora io, Aslaath. Sono contenta che il viaggiatore si sia ripreso. Merito mio. Ma ancora di più sono soddisfatta di aver infranto le regole del labirinto: adoro disubbidire le leggi e trovare soluzioni alle cose apparentemente impossibili. Ci riesco sempre. Alla faccia del signor Ende.  






giovedì 2 ottobre 2014

Le bambole di Alice IV


Morgan aveva lasciato la casa di sua spontanea volontà, ma non fu una scelta facile. La casa che lei credeva il suo luogo di rifugio, di calore, le aveva detto che non era più una sua esclusiva, che doveva gettarsi nel mondo e cercare la felicità altrove. Che in quelle mura erano entrate altre persone, altre bambole. Per tanto tempo lei cercò di rimanere ed aspettare che le cose tornassero felici come una volta, ma le pareti divenivano sempre più cupe e le tapparelle spesso rimanevano chiuse. Non più raggi di sole, le risate scemavano e gli specchi non brillavano più. L'aria era sempre più pesante. Scendeva l'inverno. Il carillon taceva. Non poteva più fare nulla, e se ne andò.

Morgan non camminava più sulle nuvole, ma con i piedi per terra. Camminava da sola, eccetto quelle volte che Alice dai boccoli d'oro la guardava riflessa, dalle vetrine, dagli specchi, nei volti delle persone.

Alice rideva, godeva, pugnalava ed immergeva le mani candide nel sangue. La sera, quando arrivava a casa, sorrideva a Morgan dallo specchio e le mostrava chiaramente il cuore che ancora palpitava e grondava nelle sue mani, aspettando una reazione dall'altra dimensione. Morgan si limitava a lavarsi i denti e il viso, poi spegneva la luce e usciva dalla stanza. Non poteva e non voleva fare più nulla contro Alice.

Passarono così delle settimane alla ricerca di bucaneve in città e ninfee fra gli asfalti. Sognava gigli, ma trovò fiori di carta bianca da colorare.
Un giorno arrivò una novità, piombando nella sua serena monotonia. Qualcuno le scrisse del sentiero e lei credette di nuovo nelle parole infantili di Alice, quando ancora aveva bisogno delle ninne nanne per addormentarsi, come tutti i neonati. Sentì scorgere la fiamma che invece era un lumicino spento. Ma era una presa in giro. Fu la notte più lunga di tutti i tempi, la risata più acuta e penetrante di quel gioco inspiegabile e crudele che la padrona giocava con le sue bambole.

E poi, a mezzogiorno, tutto tornò quasi come prima. Ma non come prima. Ora il suo volto era invecchiato di cento anni. Chi era quella donna grigia allo specchio?

Alice... perché?



Le bambole di Alice III



sabato 27 settembre 2014

Filosofia

L’uomo è  come i tartufi e le patate

Non ho mai studiato filosofia, né l’ho mai trovata particolarmente interessante. Ricordo solo una lezione nell’ora di lettere, a scuola, in cui l’insegnante spiegò qualcosa dicendo che l’uomo è come i tartufi e le patate, che vive sotto terra e lotta per cercare aria e luce, ma io ero distratta a scrivere una lettera d’amore e non seguii molto. A mia madre invece piace parecchio, ne ha studiata un po’ al liceo, e tremo sempre quando si mette a filosofeggiare. Perciò sono completamente ignorante in materia e non mi sono mai preoccupata di porvi rimedio.



Il mondo di Sofia

Jostein Gaarder è uno scrittore e filosofo norvegese, che riesce sempre ad inserire nei suoi romanzi piccoli trattati di filosofia e devo ammettere che, a dosi ridotte e mascherate da avventure, la si riesce ad ingerire e ad apprendere pure qualcosa senza soffrirne troppo. Ma mentre “L’enigma del solitario” mi risultò dolce e ghiotto, quest’ultimo che sto leggendo, “Il mondo di Sofia”, è piuttosto amarognolo. Fatico ad andare avanti e a trovare interessanti i pensieri di Aristotele, Socrate e Platone.



L’amore cos’è?

In quanti, romanzieri, psicologi, poeti e profani hanno provato a definire cos’è il vero amore, o meglio a capire quando si ama veramente o si è solo affezionati o infatuati di qualcuno? L’amore è forte attrazione fisica? Un voler bene immenso? Un accettare tutto, pregi e difetti della persona amata?

A me fu spiegato che il vero amore non è quando vedi la persona perfetta, ma quando vedi pregi e difetti e ami persino i brutti lati del carattere e i brutti momenti. 
Per tanto tempo pensai che dovessi basarmi su questa spiegazione per distinguere il vero amore, ma sinceramente, per quanto è vero che quando si vuole molto bene ti fanno tenerezza anche le imperfezioni e le debolezze umane, c’era qualcosa che non mi quadrava.

Davvero era così? Mi domandavo se avessi mai amato con questo criterio. Questa spiegazione era applicabile alla personalità di tutti?

Un anno fa ebbi una specie di illuminazione e giunsi ad una definizione del vero amore: scrissi che si capisce che si ama e si riconosce la persona giusta, quando passandoci del tempo insieme, si è se stessi, e si è felici di esserlo. Non ritengo che ci debba piacere tutto, questa cosa non mi convinceva, penso anzi che sia strano, che sia stimolante invece per entrambi ogni tanto scontrarsi, fare pace, conoscersi e scoprirsi sempre di più, non darsi per scontati, convergere le differenze… ma l’elemento essenziale era appunto la felicità di non dover fingere, di trattenersi o controllarsi per far funzionare le cose, per mantenere in equilibrio i rapporti.

E’ davvero difficile essere sé stessi. Al lavoro, con i genitori, con i fratelli, con i colleghi. Dobbiamo sempre adeguarci a dei ruoli. Non possiamo cambiarli o decidere di non aver più nulla a che fare con loro. Gli amici si possono scegliere, certo, ma non si vive assieme per tanto tempo e non si fanno esperienze di vita esclusive. Con chi allora si può essere sé stessi? 

Solo con l’unica persona che non siamo obbligati a frequentare, perché quando si ama sé stessi, non è necessario farsi andare bene qualcuno solo per non rimanere soli.

Perciò nella mia ottica pongo il proprio io e le proprie sensazioni in risposta ai quesiti, e non l’amato. E questo è coerente con il pensiero che dice che, per amare veramente il prossimo, è necessario sapere amare prima se stessi. Se due persone sono entrambi felici di essere sé stessi insieme, allora quella è la persona giusta.
Una visione piuttosto semplice. La mia visione profana.



L’anima

Per Platone l’anima è esistita prima che prendesse dimora in un corpo. Un tempo l’anima era nel mondo delle idee, tuttavia, una volta nel corpo umano, l’uomo si dimentica. Nell’anima nasce il desiderio di ritornare alla sua vera dimora. Platone chiama questo desiderio Eros, cioè amore. L’anima prova quindi il desiderio d’amore, di ritornare alla sua vera origine. Sulle ali dell’amore l’anima vuole volare a casa, nel mondo delle idee.
(Jostein Gaarder, "Il mondo di Sofia")


Mi è piaciuto questo passo che ho letto oggi, ho trovato interessante che il desiderio di “tornare a casa” venga chiamato “amore” da Platone. Mi ha fatto ricordare quella mia riflessione di dell'anno scorso.
Credo che tutti noi, per tutta la vita, vorremmo intensamente poter "tornare a casa", sentirci sereni insieme ad una persona.

E questa è la mia piccola pillolina di filosofia, pure io filosofeggio, nonostante tutto.



giovedì 25 settembre 2014

Forum, discussioni, libri ed e-book. Le mie opinioni.

Tengo un blog, principalmente per dire quello che penso. Ci sono tanti modi per dire quello che si pensa senza tenerne uno, la maggior parte della gente lo fa, ma io per certi versi, e non me ne vanto, me ne sto un po' sulle mie. 

Di solito tendo a non esprimere i miei pensieri, a meno che non mi trovi veramente bene ed in confidenza con qualcuno, e allora chiacchiero e chiacchiero, come se mi piacesse condividere il mio mondo allo stesso modo di quando scrivo sul blog. Oppure lo faccio se mi viene richiesto, o meglio ancora se mi pagano per farlo (per esempio, dare consigli su come suonare, lo faccio perché mi viene richiesto e mi pagano per farlo, altrimenti, non ne avrei alcuna voglia e inclinazione).

Non so se sono nata così o è una conseguenza dell'essere cresciuta in un ambiente numeroso di più persone in disaccordo, per cui era meglio non partecipare al caos, ma so che le discussioni, i litigi, mi fanno perdere il controllo e mi sento come se dovessi dileguarmi e salvarmi, prima che esplodano le bombe.

Mi piace molto leggere i forum e i gruppi di discussione, anche se raramente partecipo. Io leggo le domande e i post da cui scaturiscono le risposte e leggo tutti, ma proprio tutti i commenti. Mi piace sapere cosa passa per la testa della gente, studiare la società, anche se poi non me ne faccio nulla.

Mi lasciano molto perplessa i litigi on line. Davvero non capisco il senso di arrabbiarsi e di perdere il tempo per insultare, offendere e cercare di far prevalere le proprie ragioni con degli sconosciuti. Già nella vita reale non trovo utile litigare in questo modo con chi devo condividere spazi e tempo, ancor meno mi viene voglia di farlo con persone che non hanno niente a che vedere con me. 

A parte i forum, a volte anche sotto i miei video di Youtube ho trovato offese e provocazioni di troll, e per fortuna non faccio video con contenuti particolari e a larga diffusione. Di solito mi sono limitata a cancellare, ma spesso anche a lasciare i commenti e passare avanti.

Per me è anche una questione di pigrizia: scaldarsi per un'offesa richiede molte energie ed adrenalina, e forse io mi sento troppo indolente per partecipare alle risse. Perciò, rimango sempre molto perplessa e/o divertita, a seconda degli argomenti di discussione, di come invece siano in tanti a soffrire, arrabbiarsi e a prendere a cuore questioni che poi, una volta spento il pc, non modifica la loro vita di una virgola, se non perpetuare una certa sensazione di veleno e di malumore.
Certo è, che litigare con accanimento e voler averla vinta, scrivendo su di una tastiera, richiede un sacco di tempo.

Questo non vuol dire che io subisca e che sia sempre d'accordo, al contrario. Nella vita reale, con le persone a cui tengo, dialogo molto, dialogo parecchio. Non mi piace lasciare i problemi irrisolti, non mi piace che si ripetano continuamente le stesse dinamiche sbagliate. Mi impegno anche ai compromessi e a capire perché ci si arrabbia, perché non ci si capisce. Se il più delle volte sembra che il mio atteggiamento sia di disinteresse, è perché, in effetti, sono veramente poche le persone a cui tengo così tanto da dovermi impegnare. 
Detto proprio così, schiettamente: in generale non me ne frega niente quasi di nessuno.

Sono tanti i forum di discussione che mi fanno pensare. Alcuni argomenti sono pesanti, altri frivoli. Magari pian piano ne parlerò, oggi volevo scrivere qualcosa su un argomento leggero e tecnologico: il dibattito fra gli e-book e i tradizionali libri cartacei, o meglio fra chi preferisce l'uno e chi l'altro.

Ecco, io per esempio in questo "scontro" non ho alcuna voglia di intromettermi, perciò mi sono rifugiata nel mio angolino per dire la mia.

Libro cartaceo o e-book? Penso che uno non escluda l'altro e che, in generale, non condivido l'atteggiamento degli assolutisti.

Quando vivevo dai miei, avevo la camera piena di libri, tutti i miei guadagni andavano là. Da piccola, ogni venerdì pomeriggio, mia madre portava me e i miei fratelli in biblioteca e, da quando ho imparato a leggere, sono cresciuta con l'abitudine di leggerne uno o due a settimana. Ricordo che a certi libri mi affezionavo e mi dispiaceva tanto restituirli, ma purtroppo non erano miei, così, una volta lavoratrice, ho smesso di frequentare le biblioteche in favore delle librerie.

A me piaceva essere circondata da letture, ma dopo un po' ho dovuto smettere di comprarne perché non sapevo più dove metterle. Iniziava a starmi stretta la mia camera, avevo bisogno di ossigeno, tanto più che i libri prendono polvere facilmente, mi sentivo soffocata letteralmente dalla carta e dalla polvere, ma ero affezionata ai miei mondi dietro a quelle copertine, ai miei personaggi rinchiusi in quelle pagine e non volevo liberarmene. Come avrei fatto se una sera, in solitudine, avessi avuto voglia di rileggere un romanzo?

L'e-book fu una bella trovata. Dopo essermi assicurata di averne una copia in formato elettronico per ogni libro che volevo dare via, trovai la forza e il coraggio di fare gli scatoloni e salutarli. 

Se penso che il mio trasloco di libri sia consistito nell'infilare in borsetta il mio e-book, anzichè trasportare tutti quegli scatoloni, e che in casa mia ci sono centinaia di libri e lo so solo io, sono a favore dell'elettronica.

D'altro canto, è vero che non è la stessa cosa. Un libro si sfoglia, si annota, si sottolinea, si annusa e si porta in spiaggia senza la paura della sabbia che si infila in granelli nel dispositivo o che venga rubato, o che si rovini sotto il sole. 
Un libro vecchio e ingiallito di qualche storica edizione, racconta un romanzo nel romanzo. Un libro mi ricorda la mia infanzia, quando ai compleanni e alle feste varie mi riempivano di libri, enciclopedie ed atlanti. Infatti non li ho dato via tutti: quelli con le dediche, i ricordi e le date, me li sono tenuti.

Perciò sono giunta ad alcune mie personali conclusioni e a convivere con entrambi i formati: nell'e-book reader ci vanno i romanzi, quelle trame di sola lettura per intenderci, mentre per gli argomenti di consultazione, quelli dove si leggono e si rileggono alcuni capitoli e si ha bisogno di sottolineare, è meglio avere il libro tradizionale.

Tenendo conto che se si perde o si rovina un lettore e-book, si perdono centinaia di libri, è sempre meglio avere su altro dispositivo una seconda copia di tutti i files. In vacanza però è meglio portare un paio di libri "normali" in edizione economica, che sono leggeri e meno impegnativi e non c'è il rischio che finisca la batteria e si spenga sul più bello. A casa o nei lunghi viaggi di lavoro o di studio invece, meglio il lettore, si possono portare in valigia tantissimi volumi senza trascinarsi pesi.

Se uno spende molto per leggere, l'e-book è più economico e facilmente reperibile: senza spese di stampa, trasporto e vendita in negozio, lo stesso libro costa anche meno della metà della versione stampata. Io ne acquisto spesso on line e scovo parecchi titoli che in libreria non vendono, e dopo aver pagato arrivano immediatamente via e-mail i links da cui scaricare le mie letture. Risulta perciò anche comodo e rapido per acquistare libri in qualsiasi lingua da ogni parte del mondo, semplicemente con una connessione ed una carta di credito.

Ecco, queste sono le mie opinioni, che non ho avuto voglia di scrivere e condividere con tutta quella gente sul forum che sta discutendo. Meglio qui sul mio blog, a casa mia.

Qui mi sento più serena.


mercoledì 24 settembre 2014

Scarpette

Non è una salutare posizione, ma io quando leggo a letto, dopo un po' finisco con una guancia appoggiata su un braccio formicolante. Così il mio orecchio vicinissimo alla guancia, sente le percussioni, forti e decise, un po' irruenti e, mi dico, fra il sonno e lo stordimento:

"Mi batte il cuore! Sono viva!" 

Questo pensiero è scioccherello per due motivi: il primo è che il mio cuore non si trova nel mio braccio destro, e il secondo è che non ha mai avuto problemi a farsi sentire, nel senso biologico, non romantico. Il mio cuore di solito batte assai.

Spengo la luce e nel farlo mi ridesto un po', così divento consapevole che quelle pulsazioni provenivano dalle mie vene, dal sangue che vi scorre dentro e che dovrebbe arrivare alle mani e alle dita, se non ci fosse la mia testa pesante appoggiata sopra.

A proposito del sangue, quand'ero piccola ricordo di averlo avuto piuttosto liquido e che le ferite sanguinavano più a lungo della media, prima di rimarginarsi. Credo fosse una cosa di piastrine. Poi c'era quella cosa dell'epistassi che, non so come, mi è sparita da un giorno all'altro.

Sì, mi ricordo che magari parlavo e mi trovavo le gocce di sangue all'improvviso sui vestiti. Quando atterrai in California, qualche minuto dopo cominciai a perderne e, sapete, magari è un aiuto divino se durante un'interrogazione non sai la risposta e succede questa cosa, e allora ti agiti, fai un po' di scena e mandi in crisi pure la profe che ti spedisce in bagno a sistemarti, ma arrivò pure un paio di volte durante i concerti col coro del conservatorio e furono delle seccature, perché il fazzoletto mi toglieva il rossetto e la cipria dal naso.

Però da adolescente mi sentivo importante per questo problema, così come il pesare quaranta chili e sentire continuamente commenti di persone che mi dicevano di metterne su un po'.
Piccola sia in verticale che in orizzontale, mi sentivo piccola pure nel mondo per quel fisico acerbo che non volevo far diventare donna, mi sentivo bella e perfetta, come Emilia quando cantava:

"I'm a big, big, girl in a big, big world..." e per questo le persone dovevano proteggermi, non sporcarmi, per mantenere i pensieri liquidi ed innocenti.

Il proibito era solo un gioco di ribellione, uno scherzetto perverso, una provocazione divertente, come se pensassi che senza una salute ballerina, la sigaretta in bocca e le scarpette da bambola e tutti quei teatrini, non potessi essere altrettanto importante e non avessi il diritto di ricevere attenzioni.

Quanto tempo è passato!

La medicina psicosomatica dice che chi soffre di epistassi "piange sangue", come se perdesse la voglia di vivere. Non lo so se è così.
Ma il mio corpo è cambiato, non peso più quaranta chili, sono più rotondetta, non ho più quei bruciori allo stomaco di quando digiunavo per non ingrassare di un grammo, adesso mangio e il mio sangue è cambiato... ora coagula! Non ho più sanguinato da almeno dieci anni.

Chissà cosa è successo.
Chissà cosa è cambiato.
Chissà cosa succederà e cambierà ancora.
 
Tuesday bloody tuesday.


lunedì 22 settembre 2014

Fiori di campo

Un quaderno di carta e ancora, una penna ad inchiostro. Lettere da imbucare in posta e giorni di attesa del postino. Memorie di un'epoca passata, di quando ero una ragazzetta con le calze lunghe e le gonne troppo corte. A quei tempi, ancora si scriveva a mano. A quei tempi, mi interrogavo su cosa fosse l'amore. Giran e rigiran i dischi di vinile, le cassette a nastro, le cartoline in vacanza. C'erano i francobolli, c'erano le file alla cabina telefonica. Cos'è la nostalgia? E' un venticello di fine estate e una casa fredda e decadente.

Una vita di acquerello che di gocce liquide puntella, saltella e macchia cerchi d'acqua. Sono solo bolle colorate senza forma, ricordi che si allargano e si perdono, si nascondono, si scordano. 

Innocenza. 
 
Mentre tutto continuava a correre e a scorrere. Non ho più nessun mio quaderno delle elementari. Non ho nulla da derubare. Solo parole e sussurri che di notte mi parlano e mi sbarrano gli occhi. Fisso la notte. Vieni a prendere quello che non ho.

Ci si stanca, ci si accetta, si ascolta fuori per non ascoltare dentro. Non ci sono più bivi, solo percorsi obbligati. Oramai.

Ma io cammino e volgo il naso all'insù. Con i piedi scalzi in terra, con i capezzoli chiari e scuri, con una mongolfiera al posto della testa, di aria rosa, decorata a fiorellini di campo.

Sono io, sono il capro espiatorio. 
Sfogati, colpiscimi. Feriscimi, se ti fa stare meglio. E' solo un corpo. Io azzero la mente e mi allontano da questo corpo, so farlo. Ma non sono in grado di piegarmi a te.



Non potrai cercare di stringere, non potrai impegnarti anche se lo vuoi, a piegare il Nulla.




venerdì 12 settembre 2014

martedì 9 settembre 2014

In la minore

Nella mia casetta ideale, in realtà ci ho già vissuto, non in questa vita però.

Era a più piani, con un grazioso giardino e tante margheritine e i fiori delicati.
Con le tende alle tante finestre e la tranquillità e il verde attorno a me, come a voler riposare il capo e il cuore stanco di sera. Come a voler lasciare il mondo di fuori.
Perché quando si sta bene in casa con le persone che ami, non è più necessario trovare diversivi esterni, basta un abbraccio per far scivolare il peso.

Nella mia casetta ci stava tanta musica e silenziosa pace, come una domenica mattina di canti di uccellini alle finestre e grilli estivi nelle notti rischiarate da lucciole. C'erano i libri e le pianticelle, le tovaglie a quadretti rossi e biachi. 
La sera mi piaceva conversare e scambiare idee, vivere nell'affetto e nella gioia, con le poche persone attorno a me. Con la neve bianca di fuori. Vestivo di leggera mussolina chiara, con i capelli raccolti su e le sottane leggere e i piedi nudi. Ma mi sentivo protetta.

Credevo di volere fare grandi cose, credevo di poter essere felice solo con un futuro grandioso. Ma non era così. Credevo di voler scappare e di non essere in grado, di reggere le guerre fredde e i familiari silenzi di una famiglia che non c'è.

Ora, sono così stanca. 
Nella mia casetta, ci vorrei tornare.

Quanto dovrà durare ancora questo viaggio prima di poter tornare a casa?
Quanta nostalgia nei miei pensieri, quanto smarrimento nel mio cuore.
Ho scordato la strada. 

Mi manca la mia abbandonata dimora, mi manca il mio mondo perduto. In questa mia vita, sono una gitana dagli abiti strappati. 



Vestiti che non mi appartengono.




domenica 7 settembre 2014

In sol

In ogni alito di vento, in ogni sguardo e volto, in ogni sussurro gridato, come gridi sussurrati, come pensieri soffocati. E piccoli, grandi passi in qualsiasi direzione. 

Non hanno importanza. 

In ogni secondo scandito, di palpito, in ogni nota, melodia e scatto fotografico del passato. Discorsi frivoli e culturali per essere di compagnia oggi. Tintinnare di nuvole e di raggi tersi, viola, su di me. 

Se alzo la testa e guardo lontano per distanziarmi da questa realtà, queste giornate come film. Come una trama e tutti attori. Sono tante maschere, la mia è di cartongesso.

Nuvole d'oro, disco di fuoco rosso, davanti a me, bagna di luce il muto orizzonte.

Silenzio.
Il senso.


Il senso. 


Tutto scorre in un senso, un unico filo. Un unico tasto, un solo scatto. Un solo pensiero.
Neanche il più sonoro, entusiasto scrosciare, gridare, ridacchiare, riesce a nascondere il vuoto nudo dei camerini.




venerdì 5 settembre 2014

Bambina

Io ci credo nei sogni. Non di quelli nel cassetto o come le stelle belle e lontane. Io sono nata per realizzare i sogni. Se ci penso, le cose che ho sempre fortemente desiderato si sono quasi tutte realizzate.
Quello che a volte mi è difficilie capire ed accettare, è che le mie richieste si realizzano nei tempi che vogliono loro e sotto altre spoglie. Di solito si realizzano tardi, troppo tardi per i miei gusti. Ma sto imparando ad essere più paziente. 

Si dice che le difficoltà, o quelle che appaiono tali, arrivino per insegnarci qualcosa. Io fin da piccola ho sempre sofferto di impazienza: soprattutto mi sento insofferente se la gente non capisce. A scuola capitava spesso che io anticipassi le idee delle maestre, che leggessi velocemente e finissi le cose prima degli altri. Non ero un genio, ma sono sempre stata una "rapida" nel fare le cose. Mi ricordo quanto mi sentivo insofferente quando gli altri non ci arrivavano, non capivano, e guarda caso la vita mi ha obbligata a fare l'insegnante e a ripetere cento, mille volte gli stessi concetti e spesso con persone "lente". Un compito ed esercizio di tolleranza e pazienza per me severissimo.

Attesa, attesa e fatica. la mia vita mi ha sempre messo in queste condizioni, proprio me che sono così pigra e voglio subito le cose.
 
Da piccola mi visualizzavo indipendente a diciotto anni, a vivere da sola, con già uno stipendio mio e alla guida di una mia auto. Ho tutte queste cose oggi, ma il mio obiettivo era ottenere queste cose subito, con la maggiore età. Ebbene, io a diciannove anni ero già andata a cercare un appartamento in condivisione a Milano, ma nessuna inquilina mi ha voluta con il mio sax, perché ero una convivente rumorosa. Poi, fra quattro fratelli, mi sono ritrovata l'unica a dovermi arrangiare per la patente, ma anche per le tasse e gli studi e ogni cosa. Così, fra studiare e lavorare, finire la scuola per non avere più le tasse e altre difficoltà, e poi comprarmi la macchina, il mio desiderio di indipendenza è arrivato più tardi di quello che volevo. Adesso che ci penso però, con la testa calda e distratta che avevo appena maggiorenne, forse è stato un bene che sia riuscita a conquistare il posto di guida a ventiquattro anni.

Che cosa dovevo imparare? Ad apprezzare il presente, a gioire delle mie sudate conquiste, a non avere fretta?
Comincio a pensare che sia così. Però... Quanto sono positiva, me ne rendo conto! Non so perché riesco a trovare il lato positivo, quasi sempre, anche nelle battaglie perse.
Non riesco neppure a pensare di poter perdere una guerra anche dopo dieci, venti battaglie perse. Non so come faccio. Sono sempre stata così?

Se ripenso a me da piccola, temo di sì. Mi immagino una bambina di nove anni che, davanti alla televisione, rimane affascinata dal sax. E qualche anno dopo che insiste per averlo, e insiste e insiste. E si calma per un po', poi di nuovo chiede e promette sacrifici e rinunce e non scorda mai l'obiettivo. Tutta questa tenacia e fiducia, per quattro, lunghi, anni. 
Sì, ero già così da bambina.

Poi mi ricordo di un lungo periodo buio, quando nessuno più credeva nelle mie capacità, io stessa.
Ma in fondo c'era una parte di me, convinta che io valessi, nonostante le delusioni e i fallimenti. Era testardaggine? Un non volere accettare le cose? Non saprei, fatto sta che undici anni dopo e con molte fatiche, ho riconquistato la mia posizione e riacquistato la mia fiducia.
Non sono mai cambiata.

Va bene: sono testarda, non mi importa di quello che credono e pensano gli altri di me, sono impaziente, sì, ma è per questo che sono veloce a cogliere le occasioni, e ho pure una mente un po' contorta e criminale quando progetto e osservo le persone e le cose. Ma è grazie a queste cose che io arrivo.

Ho scoperto da poco e casualmente un gruppo che parla di legge dell'attrazione e si basa sull'idea dell' Ho oponopono, che deriva dalla cultura hawaiana e significa "mettere le cose a posto". Il concetto da cui scaturiscono tutti gli esercizi e i modi di vivere, è che noi siamo artefici della nostra vita, della nostra gioia o della nostra infelicità, e che abbiamo tutti i mezzi per aggiustare le cose.

Non voglio addentrarmi nell'argomento perché è facile, se uno lo volesse, cercare informazioni con un motore di ricerca. Voglio solo parlare di alcuni esercizi che fanno parte del programma e che ho scoperto di farli già fin da piccola, senza sapere che fossero pratiche delle leggi di attrazione.

Il primo esercizio serve per potenziare il proprio credo. Quando desideriamo fortemente una cosa, spesso ci facciamo sopraffare dalle difficoltà e scordiamo il traguardo. Abbiamo paura. Ci arrendiamo quando qualcuno ci mette i bastoni fra le ruote o gli altri non ci aiutano. Vediamo le difficoltà e non ci crediamo più.

L'esercizio consiste in una sorta di meditazione, può durare un minuto o anche di più, ma sarebbe consigliabile riuscire a farlo quotidianamente.

Per eseguirlo ci si mette tranquilli e si visualizza la situazione che vorremmo vivere. A seconda del carattere di chi lo fa, potrebbe essere facile o difficile. Con la pratica, bisogna riuscire a visualizzare i particolari, sentire la pace o la felicità di quella vita che vorremmo, viverla e non solo guardarla anche nella meditazione. Questo esercizio che potrebbe sembrare inutile, è in realtà un mezzo potente che quasi tutti i pazzi mettono in pratica. Per esempio, io.

Quando io sognavo ad occhi aperti sul banco di scuola e tutti mi richiamavano e sgridavano o quando mi distraggo, o quando dopo anni gli altri ci hanno rinunciato e invece sono l'unica ancora a crederci, è perché senza che nessuno me l'abbia insegnanto, sto praticando il primo esercizio della legge dell'attrazione.

E' perché ne sono talmente convinta e desiderosa, che quando mi riscuoto da queste "meditazioni", tutto il mio corpo, tutte le mie azioni e tutta la mia mente è proiettata fortemente verso quell'immagine e ogni passo che faccio è in una direzione. 

Sono i piccoli passi che contano. E' il traguardo che conta. Se non siamo i primi a crederci e ad esserne entusiasti, come possiamo convincere gli altri?

Il secondo esercizio è per non vivere nella frustrazione, che ci fa diventare dei persecutori verso mete impossibili. Perché si sa: volere è potere, ma bisogna essere capaci di discernere il possibile dall'impossibile.
Ad avere ancora fiducia nella vita e a credere che le cose ci sono per un motivo, anche se non capiamo subito.
Non possiamo chiedere di volare senza ali.

Ogni giorno, bisogna sforzarsi di trovare cinque cose belle della vita che stiamo vivendo e ringraziare. Io non è che lo faccio proprio così, ma fin da piccola ho sempre avuto una naturale predisposizione ad apprezzare le cose che mi girano attorno, e pure ora.

Per esempio, quando viaggiando ci si perde, mentre gli altri brontolano, io sono attratta verso le nuove strade e i paesaggi inaspettati e sono pure contenta delle deviazioni a sorpresa. Mi godo il bello e gusto l'avventura. Se la casa in cui vivo è più piccola di quello che vorrei e gli spazi sono ristretti, mi impegno a sfruttare ed arredare ingegnosamente. Oppure di recente ho fatto una cernita del vecchio e ho donato tutto alla Caritas. Erano cose che non mi servivano e non c'era più veramente spazio, questo mi ha permesso di alleggerirmi e la sensazione di dar via il vecchio per donare a chi ha più bisogno, è bellissima. Ho apprezzato la capacità di vivere con poche cose, situazione che ti costringe una casa piccola.

Ogni giorno, abbiamo sempre qualcosa da ringraziare. Diamo per scontato perché viviamo qui, ma soldi, salute, bellezza, lavoro, genitori, una casa, un posto dove dormire senza bombardamenti, non sono cose scontate. 
A volte ringrazio il tempo. Quando piove perché posso dormire bene, accendere le candele. Chiudere le finestre e ascoltare la mia quiete. Quando c'è sole perché posso vestirmi più femminile, girare a piedi nudi, prendere la bici, tirarmi su i capelli.

Non me l'ha mai insegnato nessuno. Sono sempre stata così.

Ho iniziato a scrivere questo post pensando ad un mio sogno che vorrei vedere realizzato. Ma poi ho pensato che non bisogna rivelarli, altrimenti non si realizzano. Ma ci credo, ci credo, sì.
Io continuo a crederci e a visualizzare la felicità, non mi interessa quello che pensano gli altri.

Nel frattempo, mi dedico ad altre cose che mi rendono felice lo stesso e metto in pratica la pazienza, noiosa e pallosa lezione della mia vita, ma miglioro. In certe cose sono così brava, in altre no. Quando le cose diventano veramente difficili, succede sempre qualcosa volta a darmi una mano. Non so perché.
Forse perché sono nata per essere felice, non per soffrire. Perché non sono come tutti gli altri. 
Gli altri sono qui e si lamentano, piangono e stanno male e non sono capaci di uscirne.
Io ho sempre scalpitato per raggiungere un sorriso e per trovare una via d'uscita. 

Per questo, so che andrà tutto bene.



martedì 2 settembre 2014

Parliamo di "Privacy" (di questi tempi)

Tante persone terrorizzate dalle intrusioni nella propria privacy, a volte mi fanno proprio ridere. Sono quelle che poi sui social network pubblicano foto dei bambini, condividono nomi e cognomi, avvisano ogni volta che vanno in vacanza, che tornano, che mangiano e poi vanno in bagno, dicono quando dormono, che visite fanno all’ospedale e tutto e di più. Ma poi si arrabbiano e gridano se si lede la loro sacra privacy.

Rido non perché sottovaluto l’importanza di non fare sapere le cose per la propria incolumità, io stessa non ho il mio cognome sul campanello di casa e faccio ancora recapitare la posta a casa dei miei, ma perché li trovo incoerenti ed ignoranti.

Ho tre punti nella mia testa che continuano a solleticarmi:

1- Perché la gente dovrebbe tanto interessarsi a me, a te?
Capisco i personaggi famosi, ma io e te che abbiamo di così interessante, da suscitare un’attenzione morbosa tale da scomodare qualcuno, fargli perdere tempo e denaro per indagare nella nostra vita privata? Io credo che anche se mi mettessi in topless sul balcone, Novella 2000 non pubblicherebbe le mie foto, pure se fossi io a pagare per farlo. Io credo invece, che a parte i ladri che puntano a sapere quando o no siamo in casa, alla gente comune non gliene frega una beata mazza di quello che facciamo. Quindi rilassiamoci e ridimensioniamo il nostro ego: non siamo la Bellucci o Berlusconi.

2- Non ho niente da nascondere.
Ok, poniamo che qualcuno sappia cosa faccio di lavoro, che faccia ho, quante sorelle ho , se sono single, dove sono andata ieri sera, con chi sono uscita, quante paia di scarpe abbia comprato. Non è che la mia vita cambi. Tutto quello che c’è in rete, è la mia vita reale chiara e trasparente. Sono cose che potrei dire ad un colloquio di lavoro. Non devo preoccuparmi di non far sapere a qualcuno che l’ho tradito con qualcuno. Coerente nella realtà, coerente nel virtuale. Non hanno senso le foto diverse da quelli che si è, non ha alcun senso fingere di avere la pelle liscia se poi quando ti vedo hai i brufoli. O farsi foto in sui sembro una stangona e poi non supero il metro e sessanta. Oppure mettere foto di vent’anni fa. Non è che la privacy sia una scusa per bleffare e nascondersi dietro la maschera?

3- Se ti da tanto fastidio o hai paura, o impari ad usare i social, oppure non ti iscrivi.
Quando ci si iscrive ad un qualsiasi social, ci sono le regole chiare da leggere prima di cliccare il tasto “accetto” o “annulla”. Per poter andare avanti è necessario accettare. Qualcuno dice pure che è una fregatura, ma nessuno obbliga nessuno a far parte, per esempio, di Facebook. Se si trovano inammissibili le regole, basta non iscriversi.
Il tasto più discusso sono le fotografie: quando un utente le pubblica sullo spazio gratuito che offre il social, il materiale diventa di proprietà anche del social. Ora, perché protestare? Le regole lo dicono, caspita, sei in casa d’altri, o è così, o è così.

Parlando prettamente di Facebook, se lo si impara ad usare, è possibile comunque divertirsi, condividere quello che si vuole con chi si vuole e proteggersi. Chi dice il contrario è perché non sa usarlo.
Qualsiasi post, informazione e foto che un utente vuole pubblicare, ha un menù a tendina con le varie opzioni da scegliere, che sono:

- Rendi visibile a tutti.
- Rendi visibile agli amici e agli amici degli amici.
- Rendi visibile solo agli amici.
- Rendi visibile agli amici tranne che a:
- Rendi visibile solo a questi amici:
- Rendi visibile solo a te stesso.

In questo modo l’utente medio, ovvero la maggior parte, non ha possibilità di invadere la tua privacy se non lo vuoi. Poi certo ci sono gli hacker e gli "smanettoni" che sono la minoranza e che riescono ad accedere a dati anche laddove non si potrebbe, ma si ritorna sempre ai primi due punti: perché dovrebbero interessarsi a te e cos’hai da nascondere?

I social network sono divertenti e vengono usati per disparate ragioni, mi preme nel mio caso avvisare in poco tempo, tante persone, quando devo fare eventi musicali e poi condividerne le foto. Non sono preoccupata della mia privacy e delle mie immagini o video diffusi in rete, che tanto sono sempre inerenti al mio lavoro o quasi, anche se conto migliaia di amicizie con amici, colleghi e sconosciuti.

Ci sono però alcuni comportamenti comuni nell’uso di Facebook, che trovo pericolosi, molto più delle foto e dei dati diffusi. Delle vere e proprie minacce per la propria privacy:

1- I post delle vacanze. 
Ok le foto dei luoghi, meglio se pubblicati al rientro ma va anche bene durante, ma scrivere: “Parto il giorno X e torno il giorno X” è proprio far sapere gratuitamente a qualche malintenzionato che la casa è incustodita in quei giorni. Ho sempre preferito rimanere nel vago sull’argomento.

2- Identità. 
In realtà, anche se “obbligatorio”, Facebook non riconosce se un nome è vero o finto. Io non metto il mio cognome solo perché in Italia sarei facilmente rintracciabile, ma di solito un normale nome italiano con un normale cognome italiano non è pericoloso, c’è sempre qualcuno che si chiama allo stesso modo. Certo se non si vuole essere identificati basterebbe inventarsene uno e farsi riconoscere solo dagli amici. Ma non ha senso salire su un palco, mostrare il volto al pubblico e non volere essere riconosciuti. Neppure la provincia è obbligatorio indicare. Ma se uno scrive nome, cognome e paese, dovrebbe sapere che basterebbe leggere le pagine bianche per ottenere un indirizzo e andare sotto casa. Se si hanno di questi timori, meglio lasciare vuoto il campo.

3- Le foto dei bambini. 
Allora, sono più i genitori degli stessi a metterli che amici e parenti, si sa: siamo narcisisti, è più bello mettere le proprie foto, ma questi genitori poi si indignano e si comportano da premurosi iperprotettivi, che non vogliono che le facce dei loro bimbi siano di dominio pubblico. Per Bacco! Penso sempre, non sarebbe più coerente non metterle? Ma poi ogni volta mi viene pure da pensare: ma poi sai in quanti gliene frega di sapere che faccia hanno e di rubare le foto dei tuoi figli???

4- Carte di credito e conti correnti. 
Mai credere alle mail con richieste di dati. Se si va col mouse sul link che indicano, in basso compare sempre il vero indirizzo del sito, di solito dai nomi palesemente sospetti. E comunque le banche e le poste non richiedono mai dati importanti tramite e-mail. La mia posta (vera) mi avvisa da mesi tramite mail e lettere di andare nei loro uffici per modificare dei dati stupidi sulla prepagata, ma io sono troppo pigra per andarci, e nonostante io sia iscritta sul loro sito non ho il permesso di farlo da sola, perché possono farlo solo i loro impiegati allo sportello.
Comunque per le carte di credito e le funzioni dei conti correnti on line, ci sono sempre gli avvisi tramite sms e/o email per ogni utilizzo o attività. E se proprio, proprio ci si vuole sentire ancora più sicuri, basta sottoscrivere una carta di credito Visa o Mastercard ricaricabile, scollegata dal proprio conto corrente. Si possono ricaricare nelle tabaccherie adibite, da poche decine di euro fino a cinquemila e ci si può fare di tutto: pagare on line, viaggiare, pagare nei negozi e ristoranti.

Io trovo invece che sia una forma di protezione una piccola mancanza di privacy, è questo che permette alla polizia di indagare e scoprire su persone pericolose, quando ce ne fosse bisogno. Telefonate registrate, videocamere piazzate in luoghi pubblici. Archivi di rete.
Ricordo che quando anni fa decisero di mettere le telecamere su una nota via del centro ritenuta malfamata, in tanti protestarono per la mancanza di privacy. Io invece ero favorevole perché potevano così vigilare sui soggetti pericolosi, in quanto a me, non era un problema se passeggiando mi beccavano con le dita nel naso o con la bocca spalancata dallo sbadiglio.

Infine, vige sempre la regola del buon senso. Le bimbe e le donne che vengono violentate da sconosciuti incontrati in rete sono stupidine di loro, e avrebbero abboccato anche se li avessero incontrati per strada. E’ sempre successo e sempre succederà. Una volta raccomandavano di non accettare caramelle e passaggi dagli sconosciuti, ora sarebbe meglio dire: “Non dare (tu) caramelle e passaggi agli sconosciuti di Facebook, o di Skype, o di Whatsapp!”



lunedì 1 settembre 2014

Culla


Non è un errore, se gli occhi stanchi cedono, le braccia pesanti si abbandonano e la mente si arrende.
Qual è l'altra faccia del fallimento?


Non è un peccato addormentarsi nonostante le mille cose che si dovrebbero fare.
Richiami e doveri e responsabilità.
Dov'è il mio infante giardino?


Quando è il cuore a pulsare troppo e il respiro rapido richiede più aria di quello che c'è.
Allora una costruzione vecchia di sabbia crolla.


Un finto castello, una finta principessa, una nuvola che ha mutato forma...




Dormi.
Non hai risposte.
Protetta dal Grande Sonno.










"Per arrivare all'alba
non c'è altra via
che la notte"

(Kahlil Gibran)