lunedì 20 luglio 2015

Un po' di me

Vivo senza adsl, senza televisione, non ascolto la radio, non conosco le pubblicità e non mangio carne e pesce.
No, non sono un'eremita.
Sono stata una bambina cresciuta a merendine e cartoni animati e, da adolescente, ero una fanatica dei fast-food, MTV, le riviste di moda. Avevamo una televisione per ogni stanza.
Ho sempre vissuto con la connessione veloce e mi scaricavo il mondo, chattavo, conoscevo tutti i social network e vi ero pure iscritta. Oggi non ho bisogno, non ho voglia di avere tutto questo.

Non sono cambiata, ho solo ritrovato me stessa e sto meglio così. Sono sempre stata così, ma in un'altra forma.

Oggi vi racconto e spiego questi aspetti di me che fanno incuriosire le persone.

Se scavo e ricordo bene nel mio passato, a scuola, durante la ricreazione, preferivo farmi gli affari miei al mio banco anzichè aggregarmi ai gruppi. Ci fu un mio compagno alle elementari che in un compito in cui bisognava descrivere la classe, parlò proprio di me sotto questo aspetto: "Mi è simpatica Thasala perché quando c'è ricreazione se ne sta da sola al suo banco, non va a fare merenda con le altre bambine, si fa sempre gli affari suoi".
Mi è rimasta impressa la frase di questo suo tema, perché io non mi rendevo conto di farmi gli affari miei.

In gita scolastica alle superiori, l'unica che durò quattro giorni, divenni insofferente al secondo giorno perché mi mancava di starmene per conto mio. Eravamo sole ragazze e questo mi indusse ad essere ancora più scocciata dalla compagnia, perché tante femmine messe assieme provocano un viperaio.

Una volta mi persi perché anzichè seguire la classe, rimasi ferma, ammirata, a guardare la lavorazione di una chitarra in un negozio del centro storico di Volterra che costruiva artigianalmente strumenti musicali. Quando mi accorsi di essere rimasta sola, me ne ritornai beatamente all'albergo ad aspettarli, mentre gli insegnanti, preoccupatissimi, avevano disseminato la classe a cercarmi. 

Adesso che ci penso, io mi perdevo spesso quando si andava da qualche parte con tante persone, o meglio, gli altri perdevano me, fin da piccolissima. Oggi che sono adulta, capisco perché mia madre mi raccomandava sempre di non giocare ed inseguire i piccioni delle piazze di Venezia. Nonostante fosse una specie di vigilessa con quattro figli, riusciva sempre a perdermi di vista: fra le corsie del supermercato, a Gardaland, al pic nic, alle fiere...

Io non riuscivo proprio a stare attenta a cosa facessero e dove andassero gli altri.

Credevo che essere distratti o meglio, menefreghisti, fosse un difetto, oggi, che lo sia o meno, so solo che non sento di dovermi giustificare a nessuno quando ho voglia di starmene per conto mio.
Ho imparato che qualsiasi cosa si faccia, qualunque persona si sia, c'è sempre qualcuno a cui piaccio o non piaccio: almeno se mi comporto in modo naturale, fatico di meno e piaccio anche a  me stessa.
E poi siamo nel 2015, se ci si perde, ci sono i cellulari per ritrovarsi.

Mi sembra facile vivere senza televisione, si possono comunque avere notizie da tutto il mondo tramite internet (sul telefono) senza dover dipendere dal telegiornale o quotidiani, e si possono pure scegliere gli argomenti e le fonti. Se mi interessa un film mi cerco il dvd e lo guardo dal pc. I programmi sono diventati degli show dove tutti gridano e litigano e sinceramente posso pure farne a meno. Non mi interessano più i telefilm o le storie a puntate, preferisco gestire i miei tempi seguendo le storie sui libri, senza la dipendenza di dover essere a casa ad una determinata ora o registrare una puntata per non perderla. Il libro invece posso portarlo con me e decidere io quando voglio o posso continuare a seguire "quello che succede". 
Guardavo solo i cartoni animati da bambina, tanti, tutti, perché erano un mondo innocente e mi piaceva ammirare i disegni dei giapponesi. Ora guardo solo qualche brutto cartone disegnato con il computer per fare compagnia alle nipotine, quando vado a trovarle a casa dei miei.

Non conosco le pubblicità e non so nulla di quello che succede sullo schermo. Esattamente come quando a scuola non avevo idea dei pettegolezzi in classe. Non mi sono mai sentita interessata e abbastanza "difesa" per partecipare e far entrare nel mio mondo questo aspetto competitivo della vita, perché per me stare al passo con tutto quello che mi succede attorno è molto impegnativo e bisogna essere un po' prevenuti per sopravvivere.

Per quanto riguarda la carne, non la mangio perché non mi piace. E' una cosa così semplice, tuttavia le persone mi guardano con compassione, come se rinunciassi a chissà quale piacere della vita, mentre io per educazione evito di spiattellare che quella cosa nel piatto mi fa schifo e mi fa venire in mente pezzi di cadaveri che dovrebbero essere putrefatti.

Avete presente quando da piccoli, la mamma ti obbligava a mangiare qualcosa e finchè non finivi non potevi alzarti? Nel mio piatto c'era sempre un pezzo di carne, non ricordo di aver mai faticato con la verdura o un piatto di pastasciutta. De gustibus!

Poi ci fu quella storiella che mi traumatizzò per anni e non mi facilitò a superare questo blocco.

Gli adulti spesso parlano fra di loro non dando molta importanza alla presenza dei bambini, credendo che non ascoltino o non capiscano, ma io ascoltavo e capivo benissimo, a modo mio.

Avevo forse sette, otto anni. Parlavano di una storia vera di attualità, accaduta in Cina: la storia di due fratelli che avevano un ristorante l'uno e una agenzia funebre l'altro. Venne fuori che, per risparmiare, il ristorante dava in pasto i cadaveri che finivano all'agenzia del fratello, all'insaputa dei clienti naturalmente, che diventavano senza saperlo dei cannibali.
Bene, io dopo quel racconto, non riuscii più ad ingoiare nessun pezzo di carne, sospettando che nel piatto ci fossero delle persone morte.

Crescendo, mi dissero che la carne contiene tante proteine e fa diventare alti, allora solo per quello mi sforzai di mangiarla, ma mi piacevano solo gli affettati e i pezzi impanati e fritti, oppure le polpette e gli hamburger con tanta salsa, che non avessero la forma del cadavere, tipo il pollo, che invece aveva fin troppo bene le sembianze di una gallina ghigliottinata. La bistecca non mi piaceva, le frattaglie non le ho mai neppure guardate.
Riuscivo a mangiare il pesce, se così si può chiamare, solo il tonno in scatola e i bastoncini impanati.
Tuttavia decisi di diventare vegetariana più volte in vita mia, per non uccidere animali e non mangiare della violenza, diventando sempre stanca e anemica.

La mia famiglia è tutta onnivora, vivere in casa con altre persone e non potendo decidere la spesa e il menù, significava per me mangiare solo i primi e la verdura. Solo quando ho iniziato a lavorare e a farmi la spesa, ho potuto seguire un regime senza carne e senza subirne le carenze, comprando e cucinandomi da sola i piatti completi. Sono vegetariana da quasi cinque anni e sto bene, anche se la gente mi guarda ancora e mi dice: "Non sai cosa ti perdi". Io sono ben contenta invece di "perdermi" una cosa che invece so benissimo cos'è.


Come facevano i ragazzini di una volta senza internet e cellulare? Io e la mia amica ci sentivano velocemente al telefono di casa, perché se la bolletta era alta, i nostri padri ci sgridavano, ci mettevamo d'accordo e poi ci trovavamo in centro a chiacchierare, davanti ad una cioccolata o distese sul prato del castello. 
Le ricerche scolastiche si facevano in biblioteca, c'erano gli amici di penna, quelli che mettevano inserzioni sui giornali indicando i gusti e cercando persone, amiche affini, per conversare, raccontare, parlare da lontano. Per avere notizie, si aspettavano anche quattro, dieci giorni il postino. 
Per cercare qualche negozio si usavano le pagine gialle e per farsi un pecorso stradale si consultavano le cartine. 
Per i timidi era sempre un ostacolo alzare la cornetta, affrontare la mamma o chi rispondesse al telefono per farsi passare l'interessato e parlargli. Meno male che hanno inventato gli sms e le e-mail. 

Non sono contro la tecnologia, anzi, a me il progresso piace, ma ricordo le ore passate a chattare in quei mesi in  cui da ventenne mi ero fatta prendere e, paragonate alle uscite goliardiche in compagnia sul lago, mi rendo conto che spesso si è soli in casa propria a mandare sms, non c'è più necessità di vedersi per dire le cose. Mi manca invece uscire per incontrarsi. 
Preferisco ridere, piangere, litigare o scherzare "in diretta", in compagnia, abbracciarsi, bere qualcosa insieme. Tanti hanno l'adsl e passano le serate a scaricare, fare i giochi on line e a chattare. Comunicano col mondo in pigiama e una birra solitaria. 
Io ho una casella di posta elettronica e i giga che servono al mese sul telefono, per leggere e rispondere ai messaggi di lavoro, seguire un po' il mondo, conversare con qualche amico e poco altro. Vi starete chiedendo come faccio a scrivere un blog senza poter navigare dal computer: ogni tanto uso il telefono come modem e aggiorno dal pc: ecco fatto.
Per questo ho scelto di non avere una vera connessione, preferisco stare fuori da questi meccanismi di surrogata conversazione, sentirmi libera di essere irraggiungibile quando ne ho voglia e non avere dipendenze.

Io preferisco il mondo semplice, osservare dove il vento porta le mie nuvolette.


mercoledì 15 luglio 2015

Osservazioni

Le persone credono di essere tolleranti, dicendo che siamo tutti uguali. E' facile accettare gli altri quando sono "uguali" a noi, ma la vera tolleranza è invece accettare ciò che riteniamo "diverso".
Pensavo ai gay in questi giorni e alle immagini arcobaleno che hanno messo tanti utenti su Facebook: io non l'ho messa.

Il mio motto è: "Vivi e lascia vivere", se quello che fa una persona non è nocivo alla società e soprattutto non cambia la mia vita, per me può fare quello che vuole. Per me i gay possono sposarsi e adottare pure figli se lo vogliono. Ho visto tanti bambini crescere felici e sereni dove l'ambiente è amorevole e sereno e altri turbati o con visioni distorte dell'amore, in famiglie cosidette "tradizionali", perciò non credo proprio che un bambino venga traumatizzato da due persone dello stesso sesso che si vogliono bene, piuttosto che vedere il papà che picchia la mamma, genitori ubriachi, violenti, mamma e papà che si insultano o non si parlano. Senza contare che non tutte le mamme sono amorevoli e comunicative e non tutti i padri sviluppano istinto paterno.

Però, non sono d'accordo che venga considerato nella norma l'amore omosessuale. E' particolare, ma non "normale". Uno dei miei film preferiti è "I segreti di Brokeback mountain" e parla di due cow-boy e del loro amore in una America puritana. Lo trovo sofferto e poetico, lo trovo bellissimo, ho pianto, sono corsa a comprarmi il libro il giorno dopo averlo visto al cinema e poi il dvd, ma sarebbe ipocrita affermare che non ci sia nulla di strano in due uomini o due donne che si amano.

Sto rileggendo un libro interessante che avevo letto dieci anni fa: "Perché le donne non sanno leggere le cartine e gli uomini non si fermano mai a chiedere?" di Allan & Barbara Pease. John Gray già anni prima si era cimentato, da psicologo, a studiare le differenze di comunicazione fra uomo e donna, ma questo libro va oltre: vi sono alla base esperimenti, ipotesi e tesi. Con un linguaggio leggero e di facile comprensione, viene spiegata la struttura del cervello femminile e maschile dal punto di vista scientifico.

Per esempio, la visuale maschile e femminile: l'uomo vede un raggio meno ampio, ma più lontano. La donna vede meno lontano ma ha visione più ampia degli spazi vicini. E' la natura, così come di solito gli uomini sono più alti, hanno le spalle più ampie, la voce più grave e le donne sono più basse, con le spalle più strette e la voce più acuta: certo ci sono le eccezioni, ma avreste da obiettare su queste affermazioni?

Questo esempio delle diverse visuali, comportava più facilità all'uomo, in passato, di cacciare, e ad oggi di pilotare, guidare, scorgere in lontananza il pericolo. La donna invece trova tutto, riesce a occuparsi dei figli, a fare anche più cose contemporaneamente. Gli uomini aprono il frigo e non trovano quello che è sotto il loro naso, e quando gli si chiede: "Ma non hai visto che, non ti sei accorto che?" di qualcosa che qualsiasi donna ha notato, rispondono sorpresi di no.

Perciò non è per maschilismo e discriminazione che certi lavori siano più scelti dalle donne e altri da uomini, nonostante la parità dei sessi consenta di svolgere qualsiasi cosa, sono poche le donne che sognano di diventare piloti d'aereo e uomini che scelgono la carriera di stilista di moda.

Il libro spiega che ciò dipende dagli ormoni, dalla quantità di estrogeni e testosteroni. Li abbiamo sin dalla nascita.

Ora non ricordo se l'ho letto su questo libro, forse sì, ma mi piace ricordare un esperimento fatto su centinaia di bambini molto piccoli: in una stanza vuota con un vetro, viene messo un bambino, che può vedere la mamma dall'altra parte attraverso la parete trasparente. Bambini così piccoli, quasi neonati, non sono ancora stati influenzati dalla società, perciò le reazioni sono spontanee e naturali, "primitive". Quasi tutte le bambine, vedendo la mamma, hanno reagito piangendo e chiamandole, per farsi notare e venire a prendere, per essere "salvate". Quasi tutti i maschietti invece, individuata la mamma, si sono messi a gattonare e a picchiare contro il vetro per andare da lei, istintivamente hanno dovuto agire e non aspettare.

Questo dimostra che la natura ci ha programmato per essere diversi: trovo tutto ciò molto affascinante.

Naturalmente, non tutti gli uomini sono maschili e non tutte le donne femminili. Dipende dalla quantità di ormoni maschili e femminili. Stasera mi sono divertita a rifare il test: io ho ottenuto una dose molto alta di estrogeni nel mio cervello, la mia amica è risultata molto bassa. Guarda caso: questa mia amica parcheggia in un secondo ovunque, trova le strade, la scambiano per lesbica. Io preferirei non avere a che fare con i parcheggi: mai. Anche i nostri corpi fisici sono diversi, ma entrambe siamo felici di essere quello che siamo, perché siamo noi stesse.

Ci sono donne molto femminili in alcune cose e maschili in altre e viceversa per gli uomini. Ci sono lesbiche femminili e mascoline, oppure etero più mascoline di lesbiche. Lo stesso discorso vale per gli uomini. Un uomo può essere gay ma rude, l'omosessuale effeminato esiste, ma è un po' uno stereotipo. Il libro chiarisce anche questi punti.

Grazie a questa lettura, dieci anni fa, sapevo che l'essere gay o lesbiche è una cosa che si è fin dalla nascita, lo si è o non lo si è: non si "diventa", si capisce solo di esserlo, e non c'entrano nulla l'educazione, la religione, la società. I genitori la smettano di sentirsi in colpa o di voler "aggiustare" il figlio. Perché nascono i mancini? Una volta li si obbligava a scrivere con la destra, causando un sacco di problemi, finchè non si è capito che non bisogna violentare e forzare la natura. Dopotutto, è meno "grave" avere un figlio gay di uno che uccide o violenta. Il primo, alla fine, ama solamente e non fa del male a nessuno.

Ho provato a pensare che se io, donna, provassi amore per donne e proprio non riuscissi ad amare uomini, e i miei genitori, la mia famiglia, i miei amici e la società mi macchiassero e mi ripudiassero per questo, come starei? Che diritto abbiamo noi di impedire la felicità ad un'altra persona?

L'ignoranza genera cattiveria. In passato si credeva che fosse la donna a "decidere" se avere un figlio maschio o femmina. Poi la scienza ha chiarito che è l'uomo a determinarne il sesso, perché la donna può trasmettere solo il cromosoma X in ogni caso, mentre il padre ha il 50% di probabilità di trasmettere il cromosa X e generare una femmina, e il 50% di trasmettere quello Y e di avere così un maschio. Se i re del passato, quelli che arrivarono ad uccidere e a ripudiare le mogli, incolpandole di non dare a loro eredi maschi l'avessero saputo, avrebbero trattato così quelle povere vittime? La colpa, se così si piò chiamare, era loro!
Dove c'è violenza, c'è sempre ignoranza.

Però questo post lo scrivo con intenti più generici: per me il termine uguale e diverso non deve essere confuso con l'accettazione.

Sono cresciuta con disabili in famiglia e ho parenti che hanno cambiato sesso, erano uomini nati per sbaglio in corpi di donna: succede, e con enorme sofferenza hanno intrapreso il difficile cammino dell'accettazione e del cambiamento. Tanti parlano per retorica e buonismo, io invece dico le cose per vissuta e diretta esperienza.

A volte, la natura, crea dei patrimoni genetici "diversi". Non sono migliori o peggiori, sono però particolari, anzi direi schiettamente che alcuni sono dei "difetti". 
Come si trattano queste persone? Ho notato che quelli che per buonismo dicono che bisogna trattare tutti allo stesso modo, invece sono i primi a non farlo. L'ho imparato con alcuni tipi di disabilità mentali: di fronte ad un'azione grossa in cui ci sarebbe da incavolarsi e riprenderli, li perdonano e la fanno passare liscia, come a dire che, siccome sono scemi, non è il caso di sgridarli, invece è sbagliatissimo, se sbagliano vanno ripresi, sempre con gentilezza. Come noi. Loro non vogliono essere trattati da scemi. Non trattateli da scemi. 

Giorni fa ero ad una festa per bambini con mia madre per le nipotine. C'era un bambino in una carrozzella, credo fosse ritardato. Mia madre disse: "Poverino, che vita è?".
"Poverino lui?" dissi sorpresa "Mi sa che è quello più felice, guardalo".
Era beato ed innocente nel suo mondo.
"Poverini gli altri che hanno pena per lui. Magari lui non si fa tutti questi problemi e si gode la vita. Mi sa che sfigatelli siamo noi che pensiamo e ci affanniamo troppo, abbiamo un sacco di pesi e responsabilità sulle spalle" osservai.

Dalla tiritera "Tu sei uguale a noi", sono stata io per prima macchiata tante volte da persone che, mettendosi le mani avanti, volevano dimostrarmi che mi avevano "accettato" nel loro "gruppo" e sinceramente non mi piaceva l'idea di essere uguale a qualcuno, soprattutto perché non lo sono. E poi magari non mi interessava neppure essere "accettata" da quelle persone. Se io vivessi al mio paese e mi ritrovassi in classe un unico europeo, non gli direi mai che è uguale a tutta la classe, passerei per un'idiota che non ci vede, che non capisce. Lo considererei diverso, speciale, mi interesserei un casino alla sua cultura e alle sue diversità.

Non si dice che: "Il mondo è bello perché è vario"?
Teniamo distinte le variazioni, non siamo tutti uguali, per fortuna. Se lo fossimo, saremmo come una canzone su una stessa nota, un quadro con un solo colore, una poesia con una sola parola...

E' per questo, che io non considero i gay e le lesbiche "normali", nel termine generico di "comune". Sono geneticamente particolari, sono diversi. Alcuni sono simpatici e altri antipatici, altri odiosi. Ci sono quelli con cui non vorrei avere nulla a che fare, non perché sono gay, ma proprio perché sono insopportabili di loro. Ho degli amici gay e amiche lesbiche, che reputo di piacevole compagnia.

In questo senso non hanno nulla di particolare, qualsiasi persona può essere antipatica o simpatica. 
Beh, vista la cosa così, da una dimensione cosmica, lo devo dire pure io: alla fine... siamo tutti uguali!


venerdì 10 luglio 2015

Estate

Preferisci la formica o la cicala?
Io preferisco la cicala, ma ho bisogno della formica. Ho bisogno che mi sgridi, solo un po', non troppo.

Sdraiata su un grande asciugamano, mi addormento, col libro aperto accanto, le fronde che si muovono dolcemente adombrandomi, le formiche che mi fanno il solletico, l’erba che mi punzecchia le braccia.
Quanto tempo passa? Non lo so. Mi risveglio pensando: “Sono felice”.
Apro il libro e, la prima frase che leggo, dice che la consapevolezza porta alla felicità, quella vera che abbiamo dentro, indipendentemente dagli eventi esterni.

Il venticello mi fa i dispetti: sfoglia le pagine quando non dovrebbe, cerco una posizione comoda per leggere, mi giro e mi rigiro. Uff! Le formiche… uff, i capelli che mi vanno in faccia!

Vicino a me, un gruppo di ragazzi chiacchierano parlando del futuro: Erasmus, vacanze, quanti progetti, quante speranze e voglia di scoprire oltre i confini di questo paese!
Alla mia sinistra, un bambino tenta di scappare, felice, al controllo dei genitori. La mamma lo richiama e lo insegue.
Coppiette di innamorati passeggiano tenendosi per mano, personaggi sportivi che corrono attorno al parco: ma come fanno? Io scelgo  la sonnolenza e la pigrizia piacevole di starsene sdraiati nella pace estiva senza far nulla. Ci vorrebbe solo un ukulele per strimpellare e cantare canzoncine stonate.

Sono la cicala.

Poi il mio stomaco brontola. Ecco: dopo il riposo e il letto, i miei piaceri della vita sono il cibo, l’amore, la musica, la bellezza e la soddisfazione dei sensi.

Ok mi alzo e vado al chiosco. Voglio una merenda seria.


Sono sola, eppure tanto ricca. Mi guardo attorno e sono in tutt’uno con il mondo.
Se venisse la formica a farmi il sermone, le dedicherei una canzone e un paio di patatine fritte, con la maionese.
E poi ci faremmo compagnia, senza criticarci, anzi diverremo grande amiche. In questa briciola di tempo nell’universo dello spazio temporale.

Brescia, luglio 2015.


Il sole nel cuore

Sul lago di Garda, c'è un minuscolo negozietto di giocattoli per bambini lavorati col legno. Vi si possono trovare pure piccoli porta dentini da lasciare a Santa Apollonia, scatole, bambole, puzzle, libri, trenini, tessere, carillon.

La prima volta che casualmente entrai, l'anno scorso, era verso metà giugno, con un'amica, venni attratta immediatamente da una vivace esposizione di carillon, in particolare da quelli con disegnati api, fiori, ranocchiette o coccinelle.
C'erano giostre e piccole scatoline scorrevoli, con all'interno l'ingranaggio e un minuscolo pupazzo in legno che appariva ogni volta che si faceva scorrere il coperchio e si apriva la scatola. Allora si "svegliava" la bambolina e fluiva dolcemente il tintinnio della musichetta.

Trovo carini i carillon, perché si possono portare con sè, hanno il sapore dell'antico e suonano ninne nanne. Da piccoli ne avevamo tantissimi in casa: i miei ci portavano spesso a Livigno, in questo negozio di cose di legno e oggetti fuori moda, e ogni volta mia sorella se ne tornava a casa con un carillon nuovo. Se ne stavano su una mensola, io ero molto affascinata dall'ingranaggio interno e a volte rimanevo per delle mezz'ore a guardare la ruota girare e le minuscole lamelle colpite, produrre piccole e dolci melodie.

In quel negozio serviva un signore, spontaneamente e quasi subito, presi il carillon con il ranocchietto buffo e lo portai in cassa.

- Mi può fare un pacco regalo? - chiesi.
- Certamente - disse, aprendo un cassetto e depositando sul banco vari tipi di carta - è un maschietto o una femminuccia?
- Un... maschietto.
- Allora ce l'ho azzurrina... o bianca con i disegnini, anche quest'altra è carina per un bimbo - disse, scartando la carta rosa o con i fiorellini o cuoricini e lasciandomi scegliere fra i tre tipi rimasti.
- Questa - indicai.
- Quanti anni ha il bambino? - chiese, mentre faceva il pacchetto.
- Deve compiere quarantadue anni, è per il suo compleanno - risposi.
Mi guardò per un secondo sorpreso, poi sorrise divertito, mi misi a ridere.
- Non voglio indagare oltre, io mi sentirei colpito nella mia virilità - rise.

Io e la mia amica uscimmo dal negozio ridendo.
- Sono troppo felice di averlo preso! - esclamai. Pensavo che avrebbe potuto permettersi di comprare tutto quello che desiderava, se lo poteva permettere, perciò volevo donargli un pezzo di me, della mia voglia di giocare e scherzare. Cose che non avrebbe potuto ottenere pagando, neanche con tutte le ricchezze del mondo.

Era un fresco giorno estivo e spensierato, quel giorno sul lago.

Mi ricordo poi, l'8 luglio di quell'estate, il vestitino rosa acceso, le fotografie da diva, gli occhiali da sole con i bordi viola, come le scarpe e la borsa, il pranzetto vegano, la passeggiata in centro, e la sera, il temporale forte, le finestre che sbattevano, il regalino scartato, ridevo: - Io ti vedo come un bambinone! - lo prendevo in giro. A mezzanotte, volevo essere la prima a fare gli auguri.

E' passato un anno.

Quarantatre anni, quarantaquattro, cinquanta, cento anni. Non hanno importanza l'età e il tempo che avanza. Non contano le rughe, uno sguardo diverso e il volto più scavato, e non c'entra niente la virilità.
Io avevo scelto il ranocchietto e mi piaceva così, non ci tenevo che diventasse un destriero valoroso e un principe azzurro su un cavallo bianco, con obblighi e vincoli. Ero contenta di saltellare assieme a lui, libera, sulle foglie di ninfee nei laghetti sotto le stelle.

Era questo che sentivo quel giorno.
Era questo che amavo tanto del principino ranocchietto.
Ci sono bambini che crescono e diventano grandi e poi adulti. Fanno tanti compleanni, diventano importanti e invecchiano, ma conservano ancora questo cuore.
Cuore puro, cuore innocente e un po' ingenuo, cuore immenso. 
Cuore di bimbo.


domenica 5 luglio 2015

Istanti

A volte, basta poco per essere felici: un parco pubblico, polmone verde di laghetti e risa di bambini, l'ombra rinfrescante sotto un albero, una tela per sdraiarsi sull'erba e stare a piedi nudi. Un libro, o due, o tre. Ma quelli cartacei.
La fresca brezza estiva e il cicalare degli oziosi. Un gelato per merenda, un chiosco pronto a servirti.
Le persone, la pace, la natura.
Inspiro a pieni polmoni questa vita.

giovedì 2 luglio 2015

Sacro e profano

Mi è sempre piaciuto il vento sulla pelle e la pioggia estiva contro il viso.
Perché hanno inventato gli ombrelli?

Camminare scalza e sentire le vibrazioni della terra, il pavimento fresco.
Perché hanno inventato le scarpe?

E poi. L'acqua e il sole che bagnano i corpi, la sabbia in un giorno di felicità in spiaggia.
Perché hanno inventato i vestiti?

Adoro il fanciullino inconsciente ed indecente che infischiandosene della morale vuole solo cogliere il suo piacere, con il broncio dei bambini a cui viene proibito un giocattolo.
Perché hanno inventato la paura?

Mi piacciono le finestre spalancate, i vestiti fluttuanti al vento e la libertà, il cielo celeste carico di avvenire. Sono colei che profana le regole del buon vivere.
Perché ci hanno costretto al pudore?

Mi sento bene, quando sono io, con lo spirito libero dagli ombrelli, dai vestiti e dalle scarpe, giocando e canzonando, come i bimbi monelli che a scuola finiscono in punizione. 
Non cercate di vestirmi.
Voglio stare così, vicina al cielo, vicino all'amore.

Anima nuda, anima sacra.


mercoledì 24 giugno 2015

Il tempo

Volevo scrivere la mia storia stasera, ma accendo il pc e non riesco ad installare il programma per scrivere.
Non ho molto tempo.
Un dono, un pensiero, come piccoli diari di allora, colorati di pagine ed inchiostro un tempo antico. Un tempo scritto a mano, per te.
Allora i sussurri che sgorgavano velocemente nella mia mente sono rimasti qui, in un crescendo grandioso orchestrale, è un direttore davanti ai musicanti, ma sembrano bambole. Sento un doloroso silenzio. Il disco ancora non parte.
Con foga, fretta, si sbattono contro le pareti del mio cranio, come il vento impazzito di una notte fredda che vorrebbe frantumare le mie finestre e sfondare la porta per entrare in questa stanza.
Mi addormento. Se potessi volare sulla piuma e scrivere questo canto. Prima che il momento passi e non abbia ricordato nulla di noi.
Ma non posso. Per favore, aspettami.

martedì 23 giugno 2015

Sprazzi

In un universo parallelo io chiedo di amarmi ancora una volta. Mia sorella che torna da un viaggio col volto nero, con i capelli rossi e i riflessi viola. E quel che rimane di mia madre, si appiccica al mio polso e diviene una enorme farfalla gonfiabile.
Un palloncino, si sgonfierà?
Torno a casa su di una moto.
Mi fanno bere birra buona, una dolce e una amara, panna.
Una cantina o un garage, ed è lì, che io chiedo ancora per una volta, amore.
 

domenica 21 giugno 2015

Dopo uno spettacolo

Che strana che sono. O forse no.

Mi ha sempre un po' stupito il fatto che molti miei amici musicisti abbiano tra il pubblico, durante i loro concerti, i genitori e i parenti. Sono pure "grandi", cioè, gente di venti, trent'anni, pure quaranta!

Io non li ho, ma mi pare normale così.
Io non li ho avuti neppure per il mio diploma e per la mia tesi.

Mi ricordo che da piccola e da adolescente, c'erano perché essendo minorenne, non potevo spostarmi da sola, così mi accompagnavano in macchina ai miei concerti, ma io non è che ritenessi importante o normale che ci fossero. Forse più che importante, non mi sembrava "normale" che ci fossero.

Per me era normale che ci andassi da sola. Non mi ricordo se ci tenessi però che venissero a sentirmi.

Mi ricordo di quella volta, al concerto del Carmina Burana col coro del conservatorio. Ecco, quella volta era un bel concerto e volevo che venissero, al Teatro Grande di Brescia.

L'ingresso era libero, loro arrivarono giusto in orario ma era pieno e non li fecero entrare. Non c'erano cellulari al tempo per avvisarmi, così io cantai dando il meglio di me credendo che mi stessero guardando. Alla fine dello spettacolo corsi in fretta a cercarli, ma non li vidi. Ricordo che la delusione fu forte, e mi sedetti sui gradini del portone a piangere. Dopo arrivarono a prendermi, non avevano idea di quanto fosse  durato, erano dispiaciuti, purtroppo non c'era replica.

Questo è l'ultimo episodio che mi ricordo. Da allora non ho più chiesto alle persone a cui tenevo di venire, per paura di rimanerci male se non fossero riusciti.

E' abbastanza raro che io invita i miei amici, di solito se lo chiedo, lo faccio perchè ci tengo alla loro presenza, per condividere un mio momento che ritengo importante, più che per "fare pubblico". Non creo mai neppure eventi su Facebook come fanno in tanti, facendo pure spam, mi limito a postare le locandine, per chi vuole e, ultimamente, faccio poco pure quello. 
Lo dico a voce.

Magari sbaglio. E' che dentro di me non sono proprio un personaggio di mondo e di spettacolo.

Ho sempre sentito una certa solitudine nel dover esibirmi ed interagire col pubblico. Interagire? Beh, io non guardo neppure chi c'è giù, chi mi ascolta, non parlo. Non si può dire che interagisca. Lo fanno gli altri.

Ma sono serena così. Salgo, suono, sorrido, ringrazio, scendo.
Sono una solitaria, dentro. Anche con tanta gente, anche con la sala gremita, anche sopra un palco.


mercoledì 17 giugno 2015

Il colore delle mie ali

Ho tolto le lenzuola per cambiarle. Poi, non ho avuto più voglia di andare avanti, ma è arrivata la notte, fuori segna sedici gradi. Non posso dormire su un materasso nudo, per coprirlo allora, stendo una copertina rossa leggera, morbida ma calda, di quelle che si usano in inverno sul divano.
Con la schiena nuda però. Ho freddo. Starnutisco. In questa notte fredda senza vestiti.
Prendo il lembo della coperta e me la avvolgo attorno. Con le ginocchia al petto. Sembro un baco da seta rosso.
Che bizzarra immagine: un baco non sarà che un bruco, che nel suo bozzolo ancora, lotta e lotta per crescere e bucare le pareti.
Ma io non so, non so se voglio vedere fuori. Perché non posso scegliere se rimanere un baco o diventare farfalla? Non mi è concesso.
I bachi se non lottano, se non vogliono, se rifiutano di crescere e diventare farfalle, muoiono.
Ma io questa notte, non voglio volare e conoscere il colore delle mie ali.
Non sarò una farfalla, neppure una crisalide.
Qui. Nei miei fili che mi avvolgono. Solo qui. Per sempre.

mercoledì 10 giugno 2015

Festa della musica 2015

Anche quest'anno sarò presente al più grande appuntamento musicale bresciano, con l'orchestra Musical-Mente, il trio Les nuages, la Busker band e, per la prima volta, l'inedito e raffinatissimo duo acustico Eritha.
Non potete perdervi la prima!
Eritha:
www.facebook.com/Erithamusic

mercoledì 27 maggio 2015

L'amicizia

In questo ultimo anno ho dovuto rivedere molto il mio concetto sull’amicizia, mi verrebbe da scrivere quante amiche si sono rivelate inattendibili o false eccetera… ma non voglio fare la vittima, e mi metto qui invece a guardare come mi comporto di solito come amica.

Quello che fanno gli altri non lo capirò mai fino in fondo. Quello che pensano, vivono o hanno vissuto, è un percorso che non è il mio e con fatica, mi astengo dal giudicare, anche se non credo che per ciò io debba essere la figura su cui sfogare il proprio vissuto.

Partiamo da questa storiella: ci sono due persone in barca, tu sei una di queste e stai remando. Pensi: che bella l’acqua, che bella questa giornata di sole, e sono in compagnia… sono felice… compagnia? Sei molto stanco e ti riposi un attimo, e ti accorgi che se ti fermi la barca non va avanti. Attorno a te un paesaggio silenzioso, di fronte a te la persona dormiente. Andavate avanti perché tu remavi. Tu faticavi e ti illudevi che la barca e il viaggio progredisse, ma sei sempre stato solo. Se tu fossi solo veramente, almeno ci sarebbe meno peso e andresti più velocemente, l’altra persona dorme, è un’illusione.

Lessi questa storiella su un libro scritto da una psicologa americana che trattava i rapporti di coppia. Si riferisce a quelle coppie, dove uno dei due fatica tanto per far funzionare le cose, quando un giorno apre gli occhi e si sofferma a riposarsi, si accorge però che l’altra persona non c’era mai veramente stata, che viaggiava da sola.

Io oggi non voglio parlare d’amore di coppia, ma di amicizia, e questa storiella mi serve per paragonare certi rapporti d’amicizia che sembrano andare avanti a fatica. Credi di avere degli amici. Poi quando tu smetti di cercare una persona, quel rapporto si dilegua.

Ho sempre avuto delle amiche e amicizie con cui passare del tempo, chiacchierare, confidarsi. Finché si era “nella stessa barca”. Ma nell’ultimo anno mi sono ritrovata, come nella storiella, più sola che mai.

Che è successo? E’ colpa mia? Sono stronzi gli altri? Sono stronza io?

Ecco, a sorpresa.
Ecco. Onestamente, non credo di essere una grande amica. E’ il mio pensiero su di me, non so se oggettivamente poi sia così.

In amore io do tanto e vivo fino in fondo, ma le amicizie le ho sempre viste come figure “interscambiabili”.

Mi ricordo fin da piccola, non avevo la mania della “migliore amica”. Qualche volta mi venne chiesto se volevo diventare “l’amica del cuore”, con imbarazzo… non ricordo cosa risposi. Di solito legavo con la compagna di banco, ma non sentivo con trasporto quel vincolo di “fedeltà” e intensa complicità che vedevo nelle altre amicizie.

L’amore è un rapporto romantico, spirituale e fedele, l’amicizia è un concetto cameratesco, ci sono milioni di persone al mondo, posso avere più amici e amiche senza legarmi a nessuno, l’ho sempre vissuta così.

Probabilmente questi miei pensieri sono filtrati nel mio modo di fare e le mie amiche hanno percepito qualcosa, oppure ho sempre trovato amicizie con persone che la pensavano come me, di conseguenza io ho avuto la stessa importanza per loro, come loro lo erano per me. Nel momento in cui nella loro vita c’è stato qualcosa di più importante, mi hanno lasciato remare da sola.

Mi vedo così. E dalla parte opposta, mi vedo invece bimba, che ci rimanevo male quando in seconda elementare la mia compagna di banco preferì mettermi da parte per essere più amica di altre bambine con i genitori che parlavano bene l’italiano. O quando in seconda media, Francesca preferì legarsi a delle ragazze che facevano già le superiori. Io ero acerba, senza libertà di uscita, straniera, non alla moda, forse la imbarazzavo.

Mi ricordo come se non fossi io, ventenne, di Elisa che disperata mi telefonava alle tre di notte, alle cinque del mattino, io lasciavo il telefono acceso apposta perché era appena stata lasciata e magari aveva bisogno di parlare. Ero io? Così disponibile? Mi sento sempre come se fossi cattiva, non so perché.

Ero sempre io che alle superiori, troncai tutte le amicizie che mi erano state vicine e senza spiegazioni proseguii sulla mia strada, senza più loro. Non volevo più essere fragile e non riuscivo a diventare forte con tutta quella gente che non voleva che cambiassi. Credevo che essere forte equivalesse a comportarsi da stronzi, e che la debolezza fosse perdersi nei sentimenti. Per questo dovevo chiudere col passato, loro volevano che io continuassi ad essere la Thasala “debole”.

C'era Sara. Sempre presa in giro. Quella scena di lei in ginocchio alla capoclasse per farsi ridare il cerchietto. Sara era brutta e un po' ritardata, la prendevano in giro tutte. Un giorno le chiesi cosa avrebbe fatto domenica pomeriggio, per uscire insieme a giocare a bowling e per prendere un gelato. Onestamente, mi annoiai a morte quel pomeriggio, a diciassette anni non era il modo migliore di passare il tempo, ma lei era felice e a distanza di anni penso di avere fatto bene. Quando le mie compagne di classe seppero che ero uscita con la "sfigata", presero in giro pure me.

Chissà cosa avranno pensato di me: Laura, Barbara, quando alle superiori mi allontanai. Che ero un’amica falsa e cattiva. Laura, so che ci rimase così male che pianse e la sua poca autostima che aveva ripreso un po’ con la mia amicizia, crollò del tutto. Barbara mio odiò.

Nei tempi recenti pure una mia amica ha chiuso tutti i ponti con me senza spiegazioni, come ho fatto io in passato con altre persone. La differenza era che io avevo sedici anni, lei oggi trentuno. Non so darle della stronza, forse solo immatura, io oggi forse, dico forse, non so se farei così. Ma io sono immatura in tante altre cose.

Le mie amiche che nel momento del bisogno sparirono? Avevano problemi più grandi di loro probabilmente. Ho tanto riflettuto se anch’io ho fatto così. Ma onestamente, credo di no. Io nel momento del bisogno, se potevo, c’ero. Anche solo con un sms da lontano, se non subito, il giorno dopo.

Penso di essere una buona amica. Forse amo più me che gli amici, tutto qui. Forse sono un po’ troppo diretta e mi infiammo facilmente, ma non ho mai pugnalato nessuno alle spalle.

Sono passati mesi, c’è stata tanta delusione, sconforto, abbandono e solitudine. Le amicizie si sono dileguate da sole, pazienza, me ne farò altre. Altre invece, poche, sono rimaste in piedi. E poi ci sono quelle che ho chiuso io, mica solo gli altri.

Che strano quando credevo che le cose fossero per sempre, colpa delle favole e dei libri con i loro: “E vissero per sempre felici e contenti” e i film con gli idilliaci: “The End”. Mi viene da sorridere. Non voglio pensare che tutto finisca, ma semplicemente, che tutto si evolve. 


venerdì 1 maggio 2015

Il mio Inno qual è?

Il 25 aprile, come tutti gli anni da tantissimi anni, sono a suonare per la festa, quella in cui si suona l'inno di Mameli. Così anche il 4 novembre, il 2 giugno, e per altre ricorrenze.

Osservo da fuori. Mi rendo conto in quei momenti di non essere e soprattutto di non sentirmi italiana. E' bello vedere le persone che solennemente cantano e si sentono appartenere ad una nazione, io non ho mai sentito questo, io non ho mai avuto un paese. 
Anche in quelle rare feste nazionali del mio paese, svolte in Italia, in cui da piccola i miei genitori mi portavano, io sentivo di non far parte nemmeno di quel "gruppo". Parlo perfettamente l'italiano e la mia lingua madre con accento straniero. So leggerla a fatica ma non so scriverla, e avendola parlata solo e sempre con i miei genitori in un linguaggio informale, non saprei affrontare un discorso formale e professionale in altri contesti. Sono una straniera per i miei "connazionali".

La bandiera che i miei considerano ancora, è quella gialla con le tre strisce rosse orizzontali, anche se dal dopo guerra è riconosciuta quella rossa con la stella gialla in mezzo. Ho due codici fiscali perché l'anno in cui sono nata il paese era già unificato, mentre i miei hanno sempre e solo tenuto conto del Vietnam suddiviso in nord e sud e dichiarato questo per me all'anagrafe. Per loro io sono nata nel sud, anche se l'unificazione è accaduta nel 1975.
Due codici fiscali ambigui. Due iscrizioni all'Inps, due versamenti come se fossi due identità diverse, due nomi, due persone incasinate. Chissà se avrò mai la pensione. 
Nei documenti, devo specificare una nazionalità e un'altra cittadinanza. Nei curriculum da quanti anni sto qui, per la questione della lingua e le scuole frequentate.

Non ho un mio inno.

Pure la religione. Da piccola cantavo nel coro del paese diretto dal mio insegnante di pianoforte. Era una bella cosa la musica, in tutti i contesti, perciò mia madre ci portava volentieri alle prove e la domenica mattina presto per cantare alle messe. Abbiamo fatto pure il grest e andavo all'asilo dalle suore, senza mai convertirci.
Se scavo nella memoria, credo di essere entrata nelle chiese quasi esclusivamente per suonare o cantare alle messe cattoliche o per visitarle con le gite scolastiche. 
Potrei dire quasi con certezza di aver messo piede una volta sola in una chiesa, con l'intento di pregare, per vedere com'è una messa, da spettatore, l'anno scorso. Per voi forse vedere frontalmente un prete che parla è normale, per me no. Per me la messa era quel momento in cui, con scarpette lucide, vestita di nero, si stava dietro all'altare in silenzio mentre la voce parlava, poi quando finiva si cantava assieme all'organista.
Ma io non sono cattolica e neppure cristiana. E credo di aver fatto, nonostante tutto, più messe io di un credente. Al primo matrimonio di mia sorella indossai un abito tradizionale durante la cerimonia con il monaco, e uno occidentale al ristorante. 

Ci stavo pensando. Chissà come dev'essere dire: "Sono italiana", senza averne dubbi, o: "Sono vietnamita", senza sentirsi stonati. 

Boh, io non sono né carne, né pesce. Quando facevo la barista, il proprietario del bar mi disse: "Sei un cocktail ben riuscito", almeno era un complimento.

Non mi sento vittima, chiariamo, sono solo pensierosa riguardo a queste cose, che mi vengono in mente nei contesti delle feste nazionali. Per me sono dei giorni di vacanza da scuola con l'impegno di suonare. Anzi, questo post mi è venuto in mente a seguito dell'esternazione di un mio amico, che con disappunto, ha detto che l'inno sacro e nazionale, tradizionale di Mameli, non doveva essere storpiato come hanno fatto all'Expo. Io non seguo l'Expo perciò non so come l'abbiano eseguito, ma è proprio per le sue parole: "tradizione, l'Italia, il nostro paese, la storia" che mi sono soffermata in queste considerazioni, altrimenti non mi sarei sprecata a scrivere sul blog.

Il mio nome significa "regina delle nuvole", o "nuvola d'oro", le nuvole non hanno un'appartenenza: vagano nel cielo per tutte le nazioni e in tanti continenti, e quando tornano non sono mai della stessa forma, cambiano continuamente. Mi piace pensarla così: il mio paese è il cielo, libera nell'aria e senza catene, senza confini, era questo il mio destino. 
Devo scrivere un inno tutto per me.



martedì 21 aprile 2015

La vita non ti da quello che vuoi, ma quello che sei

Ecco: scrivere un post al mattino. E' da tanto che non lo faccio, perché al mattino devo studiare, lavare i piatti, fare i mestieri. Doveri. 
Però voglio stravolgere ogni tanto le abitudini e fare una cosa inutile come scrivere un post senza grossi contenuti. Che saranno mai dei piatti nel lavello e qualche granello di polvere di tanto in tanto?

Ci sono persone che vivono tutta la vita abitudinariamente senza intaccare mai le loro sicurezze. Ossessionate dai doveri, dalle regole, dal giudizio delle persone. 

Io da adolescente vedevo la vita e il meraviglioso sole alto su nel cielo, allora non mi andava di rinchiudermi in un aula tutte quelle ore... così, decidevo di passeggiare in castello, nei parchi, cucinare, oppure rilassarmi beatamente a letto. 
A tutti quelli che credono ancor oggi che fossi fannullona a scuola o inaffidabile, racconto che io ero una delle pochissime in grado di consegnare i lavori di disegno e i temi nei tempi prestabiliti, prendendo sempre il massimo dei voti. Poi mi avanzava del tempo, che dovevo fare?

Io pensavo candidamente che la scuola fosse un obbligo inutile, perché non capivo a cosa servissero così tanti anni di frequenza per imparare delle cose che avrei potuto imparare in uno o due anni. 
In effetti, quando decisi di superare il test di ammissione a medicina, studiai in un anno tutte quelle materie che non avevo mai fatto a scuola, essendo ad indirizzo artistico e non scientifico, e riuscii a passare. Il mio problema era la rapidità.

Così, mentre la professoressa perdeva un'ora intera per spiegare qualche capitolo di storia, io mi dedicavo al mio benessere, e poi recuperavo l'ora persa leggendo velocemente per conto mio quei capitoli.

Parliamo di paure. Alcune persone hanno proprio paura di vivere, che sia anche semplicemente sgarrare qualcosa, iscriversi ad un corso, imparare qualcosa di nuovo a sessant'anni. Cambiare lavoro, cambiare casa, cambiare e ricominciare. Vivono oppresse, si svegliano al mattino già cupe e/o arrabbiate, ce l'hanno col mondo, si lamentano e criticano chiunque per non vedere se stessi. Aiuto, mi domando come ci riescano.

Naturalmente ora sono più matura e non salto il lavoro perché mi vorrei fare un giretto al lago. Ho più responsabilità, ma mi piace mettermi alla prova e sperimentare piccole cose, per esempio: fare qualcosa per cui non sono portata. C'è qualcosa che pensate di non essere bravi, di ludico, magari anche inutile, ma che non vi dispiace l'idea di cimentarvi? Qualcosa che se anche lo fate male non succede nulla, a parte una figuraccia da riderci su? 

Io ho sempre avuto due convinzioni di me: avere il pollice rosso ed essere un tronco di legno nel ballo, ah ah ah!!!

Così, tramite anche la spinta di un'amica, mi sono avvicinata al mondo del verde, e ho scoperto che è divertente. Non ho giardino, solo un balcone in città. Dopo un corso di come piantare un orto, un'altra mia amica mi ha regalato quattro piccole serre, così, con l'aiuto iniziale di queste due persone, ora ogni giorno mi affaccio ad osservare il mio minuscolo orticello sul balcone di insalatina. Erano timide foglioline verdi, ora stanno crescendo e diventano belle e colorate.

Mi è sempre piaciuto guardare le persone che ballano, gli spettacoli con i ballerini e i costumi colorati. Da sola poi, riparata da tutti, mettevo la musica e mi muovevo per conto mio. Ma non ho mai pensato di iscrivermi a qualche corso, un po' per i costi, un po' per il tempo a disposizione. La verità però è che non mi sono mai neppure informata, perché di scuole economiche, a cercare, ci sono.

Ci sono persone che mi dicono che a loro piacerebbe imparare a suonare ma non si sentono portate o non hanno tempo, oppure sono vecchie. Io rispondo sempre che lo si fa per divertimento personale, che l'età non è un ostacolo e che il tempo impegna anche solo il minimo di mezz'ora al giorno. Insomma non trovo scuse, e imparare uno strumento è una cosa più metodica e scientifica di ballare, ricordare i passi e andare a tempo. Che scuse ho allora io? Che sono un pezzo di legno? In realtà questa convinzione sono io la prima ad averla, ma anche se fosse non mi interessa diventare una professionista, è solo per il mio divertimento. Lo stesso concetto che dico io a quelli che vorrebbero ma "non possono" cominciare a suonare.

Mi sono iscritta. Il primo corso fattibile. Perché cade nella mia unica serata libera durante la settimana, perché costa poco e posso permettermelo, perché non è troppo, troppo lontano. Risultato? Beh, è un corso di danze delle isole greche, non ho scelto io il tipo di ballo, ma ero ansiosa di cominciare. 

A distanza di un mese, sono contenta di averlo fatto, anche se a volte sono veramente stanca e mi piacerebbe di più starmene a casa davanti un film o uscire per locali, ma supero il momento e ogni volta sono così contenta, così ancora più stanca di prima, che oramai non mi pongo più il problema: finito il lavoro, di corsa a casa, mezz'ora di tempo per "rigenerarmi", e poi vado.

Sono brava, non sono brava? Non credo di essere una cima, ma mi diverto. Mi guardano perché non sono brava? Sinceramente non lo so, siamo in tanti. Io ascolto spesso persone che suonano che sono delle schiappe, ma non ci passo la mia giornata e la mia vita a farmene un problema, non mi ricordo neppure chi sono quelle persone, perciò suppongo di non essere io stessa un problema per il prossimo. Si viene sempre giudicati per qualcosa e questa è la cosa meno importante per me.

Rompere le abitudini, sfidarsi ogni tanto. Per fare grandi passi, bisogna cominciare da quelli piccoli e che ci sembrano insignificanti. Un passo alla volta.
E' proprio vero che la felicità bisogna crearla in noi senza aspettare e dipendere dagli altri. Io sono entusiasta di queste piccole novità.

Ho letto da qualche parte che la vita non ci da quello che vogliamo, ma quello che siamo.

Ecco perché mi sveglio al mattino e voglio sorridere di me, e a me stessa, prima che al mondo. Voglio tanti motivi per cui sorridere e ridere dalla mia vita, è difficile, davvero difficile. Ma dai, provateci anche voi!




mercoledì 15 aprile 2015

Favole e nuvole

Oramai è un anno che sono qui. 

Mi dicevano che sarebbe stato bello per gli spazi, l'indipendenza, per la libertà e altre cose. Non potrei più tornare a casa dai miei se non fossi in gravi difficoltà, anche se quando stavo da loro, tutte le cose per cui mi consigliavano di andare a vivere da sola, non mi mancavano o non erano un grosso problema. 
Per gli orari facevo già quello che volevo, dormivo fuori senza preavviso, entravo e uscivo e per il discorso economico, contribuivo in famiglia, non sono mai stata una mantenuta. Con la vita che faccio poi, stavo poco a casa e capitavano pure giorni che incrociassi appena le persone che vivevano sotto il mio tetto.

I primi giorni nel mio nuovo appartamento scoprii però una cosa che non sapevo mi mancasse davvero tanto: la libertà di piangere. Vivere da soli, o in compagnia di qualcuno con cui stai bene e puoi essere te stessa al cento per cento, comporta soprattutto questo. 
Salivo velocemente le scale, aprivo la porta, mi chiudevo a chiave dentro e scoppiavo a singhiozzare. Erano lacrime liberatorie. Subito dopo mi sentivo spossata ma anche più leggera. Avevo gli occhi come ripuliti, un sorriso più sincero, una speranza nel cuore. Nelle settimane successive, capitavano dei momenti, quando ero in giro, di sentire il bisogno di tornare a casa per sfogarmi nella mia solitudine. Una cosa che per anni e anni non avevo potuto fare.

Alla gente piace il volto positivo, che non crea problemi. Al lavoro non posso piangere, con tante mie amiche, mi rendevo conto che dovevo fingere, tornata a casa poi, una volta, con mia madre, mio padre e  mio fratello che mi avrebbero sentita in qualsiasi stanza fossero stati, per non ricevere domande, a volte affondavo il viso fra due cuscini, sotto le coperte, chiusa in camera, e mi lasciavo andare a qualche singhiozzo soffocato, ma nulla di più. A volte piangevo quando guidavo, l'unico momento di libertà. Ma non in città, solo in tangenziale o in autostrada, perché ferma ai semafori non volevo che mi guardassero.

Potere stare male, poter toccare il fondo.
Questa fu la vera libertà.

La scelta dei copriletti, di come disporre le cose, gli esperimenti fra i fornelli, invece, erano lati divertenti della nuova vita, ma non così essenziali per me, per stare bene. 

Mi viene in mente una mia vecchia compagna dei sedici anni. Quel giorno stavo male, davvero male e scoppiai in lacrime, ne avevo bisogno. Lei gridò: "Non ti voglio vedere piangere! Non piangere! Devi sorridere". Erano buone intenzioni? Non saprei, lei me lo impedì per davvero. Io se fossi stata al suo posto avrei fatto il contrario, avrei abbracciato la mia amica e le avrei detto semplicemente: "Sfogati". Poi me ne sarei stata in silenzio, facendole solo sentire la mia presenza.

Fatto sta che non molto tempo dopo lei non si rivelò per nulla amica, perciò non credo ci tenesse veramente a me neppure quel giorno.

Il monolocale in cui vivo non è grande e i mobili sono modesti, ho cinque tazze tutte diverse, quattro piatti e qualche bicchiere. Va bene così, se avessi più stoviglie non saprei dove metterle. Non mi lamento, sono contenta delle mie piccole conquiste. E mi sento serena a vivere senza il timore che i ladri mi entrino in casa e mi portino via tutto, perché qui non c'è nulla da portare via.

I piatti stanno sempre lì a scolare anche quando sono asciutti, perché per farci stare tutti i miei vestiti... ho dovuto invadere anche qualche mobile della zona cucina. Non ho altri posti dove riporre quei quattro piatti.

Ho solo una scarpiera, le altre tre stanno dai miei. Il che vuol dire che tengo un terzo circa delle mie scarpe all'occorrenza. Quando le stagioni sono definite va pure bene, mi prendo le calzature invernali che uso maggiormente col freddo e in estate faccio il cambio, il problema sono quelle strane temperature della primavera e dell'autunno: quando indosso ancora stivali sotto i vestitini ma inizio con scarpe o sandali già aperti sotto i jeans. In queste circostanze mi servirebbero tutte le mie scarpe, allora capita a volte che, dopo essermi vestita, scopro di non avere quelle adatte che credevo di avere, perciò mi cambio, oppure corro dai miei a prenderle.

Qualcuno potrebbe trovare tutto ciò una seccatura, io lo trovo divertente.

Non ho qui la mia collezione di saxofoni, ho preso con me solo qualche libro, qualche cd. E' rimasto quasi tutto là, anche il lucido e scuro pianoforte in sala, quello che un tempo mia madre chiuse a chiave per mettermi in punizione, e nessuno usa la mia vecchia stanza, la considerano ancora mia perché ci torno per esercitarmi.

Se non hai nulla, non puoi perdere nulla.

Tutto sommato, le persone che non hanno nulla da perdere sono quelle che vivono senza paure.

Ho portato via solo il mio pianoforte digitale che acquistai a rate e la chitarra che non so suonare. Il pianoforte è sotto la finestra, quando suono vedo il cielo e i rami. La chitarra è un vecchio cimelio, la suonava mio padre. Ho un pupazzo a forma di tartaruga che mi regalò mia madre al venticinquesimo compleanno, dopo anni e anni di libri, enciclopedie ed atlanti fin da piccola. Chissà perché mi regalò un oggetto così infantile. Le enciclopedie e gli atlanti non ricordo se li ho ancora, questo amico peloso invece mi guarda ancora in silenzio dal divano.

Questo è ciò che penso del mio primo anno. 

Resoconto? Ci sono stati alti e bassi, come l'inverno scorso quando facevo saltare la corrente più volte perché non avevo imparato a gestire gli elettrodomestici... per esempio, che dovevo spegnere il boiler dopo la doccia, prima di accendere il phon, e magari non cucinare proprio nello stesso momento, ma dopo due volte a dicembre che con i capelli bagnati, nuda, in accappatoio sotto e cappotto fuori mi ritrovai col buio ad uscire per riattivare la corrente, non me lo scordai più. Oppure le volte che con la febbre stavo a letto tremante, e non c'era nessuno da chiamare dalla stanza per farmi portare acqua o la minestra pronta. 

Beh, si cresce.

Però ho avuto anche momenti lieti, come il mio primo alberello di Natale, o tutte le volte che ho cucinato con e per amici e persone care. Lo facevo già dai miei ogni volta che andavano in ferie: era il momento di invitare cavie per fare assaggiare gli esperimenti culinari. Mi divertivo tanto. Oggi mi piace farlo anche per me.

Sono invecchiata di un anno, ma più in quest'anno che nei precedenti. Sono caduta diverse volte. Ma oggi sono qui e non guardo davanti a me, non so cosa osservare. 
Osservo invece il cielo e le nuvole. Quando sto a letto al mattino le vedo dalla finestra. 

E' bello poterle osservare anche così.






martedì 14 aprile 2015

Di nuovo.

Il segreto dell'indomani, è alzare lo sguardo al cielo ed accorgersi che l'inverno è passato. Torneranno altre primavere, diverse, strane, nuove.

La vita.


venerdì 3 aprile 2015

Curriculum discorsivo (studi)

Dalle persone, di solito allievi e amici, spesso mi vengono rivolte domande di curiosità riguardo al mio rapporto con gli strumenti e il mio lavoro, mi chiedono a quanti anni ho cominciato, cosa ho iniziato a suonare per prima, quale strumento preferisco, perché ho scelto l'uno anzichè l'altro. Dove ho studiato.

Sul mio sito c'è un curriculum con le informazioni che servono, ma non è molto personale, così ho deciso di rispondere alle domande creando questo post, una sorta di curriculum discorsivo, spiegando come, quando e perché e tutte le curiosità su di me.

Ho iniziato a otto anni, fu mia madre a scegliere per me il pianoforte. A quell'età, a meno che un bambino non si mostri molto propenso o interessato ad uno specifico strumento, di solito sono i genitori a sceglierlo. 
Scavalcai i canonici sei mesi di solfeggio, secondo il metodo di allora, perché sapevo già solfeggiare, avendo mia sorella maggiore in casa che già suonava.
Non fui un'allieva diligente, dovevano obbligarmi o persuadermi per farmi venire voglia di esercitarmi, non perché non mi piacesse la musica, ma perché preferivo giocare ed ero piuttosto distratta. Giocare mi piace tutt'ora, e lo ritengo un grande vantaggio: sapersi divertire è una qualità che si perde crescendo, mentre sarebbe prezioso non dimenticarsene. Per questo, ai genitori che si preoccupano perché il figlioletto non si esercita con la musica, dico di solito che non vuol dire che non sia portato o che non gli piaccia, non si tirano conclusioni affrettate, magari ha bisogno di più tempo per maturare il senso di responsabilità e di impegno. 

A dieci anni smisi con le lezioni, in quegli anni di "pausa", fui io stessa a prendere gli spartiti che mi piacevano e ad impararli da sola, senza che nessuno me lo dicesse: bisognava solo leggere le note e mettere le dita giuste sul tasto giusto, nel momento giusto. 
Ricordo ancora oggi un episodio: mia madre per punizione per qualcosa che non avevo fatto, chiuse a chiave il pianoforte per una settimana, perché a suo dire trascuravo i miei doveri per la musica. Un giorno in sua assenza però, entrai in camera sua a trafugare e la trovai, e per tutto il periodo di punizione suonavo lo stesso di nascosto, tenevo d'occhio l'orologio e rimettevo la chiave nel nascondiglio prima che tornasse. Questo per dire che, anche se non me ne rendevo conto, dovevo suonare proprio tanto o dimostrare che mi piaceva, se la punizione colpì proprio questo punto!

Il saxofono iniziò a piacermi verso i nove, dieci anni. Lo vidi in un cartone animato. Un giorno arrivò a scuola, ero alle medie, un volantino della banda del paese dove pubblicizzavano i loro corsi e chiesi a mia madre di iscrivermi. All'inizio ero indecisa fra il flauto traverso e il sax, alla fine scelsi il secondo. Non fu un'iscrizione semplice. La banda obbligava a tutti un anno di solo solfeggio prima di toccare gli strumenti, io avrei voluto iniziare subito e non aveva senso farmi cominciare daccapo: dopo due anni di pianoforte la musica la leggevo. Ero insofferente, svogliata e bruciavo sempre le lezioni.

Questa mia esperienza negativa ha avuto ripercussioni sul mio ruolo d'insegnante: da quando ho iniziato ad insegnare, non seguo un percorso e un metodo standard per tutti, solo perché qualcuno ha deciso la regola: se un allievo si mostra avanti, già capace o più sveglio, lo spingo ai livelli successivi, perché mi ricordo la mia frustrazione da bambina: la voglia di imparare e un freno insensato imposto. Se sono sotto ad un direttivo scolastico con delle regole, sono io a far presente che quell'allievo è in grado di saltare delle tappe e insisto perché i tempi vengano accelerati.

La banda non volle farmi suonare il sax: nelle loro intenzioni, dovevo iscrivermi a clarinetto, dissero che non avevano più sassofoni. Io odiavo il clarinetto, ancor oggi fatico a suonarlo. Comunque non ho mai preso una lezione di clarinetto in quella banda. Supplicai i miei di comperarmi il sax, e non fu un ostacolo semplice. Superata con fatica il problema strumento, mi informai tramite gli altri allievi della banda sugli orari degli insegnanti, e andai a parlare direttamente con quello di sax, portando con me già la preziosa valigia con il luccicante strumento, per dirgli che volevo iscrivermi al suo corso e non a clarinetto, scavalcando il direttivo e tutte le persone che mi ostacolavano. Avevo quattordici anni. Erano quattro anni che lo desideravo tanto. Ecco: il sax è lo strumento che io ho scelto, il secondo strumento che ho cominciato a suonare dopo il pianoforte, che nel frattempo non avevo mai smesso.

Perché il conservatorio? Ci sono finita di mia iniziativa, i miei non c'entrarono. Ma fu a causa di un motivo economico: mio padre, architetto in proprio, ebbe un problema di cataratta agli occhi, non potè lavorare per molto tempo, dovevamo tirare la cinghia e io avrei dovuto abbandonare le lezioni di sax. Nel frattempo ci trasferimmo in città. Pensai ad una soluzione e sapevo che a quei tempi il conservatorio era una scuola statale, con tassa d'iscrizione annuale pari alle scuole superiori. L'unico problema era l'accesso a numero chiuso. Chiesi ed ottenni da mia madre un'unica possibilità: sei mesi di lezioni mirate in un'accademia piuttosto costosa, che avrebbe dovuto prepararmi per l'ammissione, se avessi superato, avrei potuto continuare a studiare, altrimenti, avrei smesso.

Ecco perché ci sono finita. L'ambiente non era per me: troppo inquadrato, troppo retrograda, troppo accademico, ma potevo studiare musica solo lì. Il genere non mi piaceva, ero un pesce fuori d'acqua. Mi sentivo umanamente, terribilmente sola. Ad esempio: ogni anno venivano buttati fuori o si ritiravano in massa studenti per far spazio a quelli nuovi. Io mi affezionavo tanto e sempre ai miei amici, e ci impiegai anni ad imparare a distaccarmi, ad abituarmi al malessere che provavo ad ogni rientro a settembre, quando scoprivo chi se n'era andato. Dei quattro che entrammo, nell'anno della mia ammissione, io arrivai da sola alla fine. Gli altri si persero. Il conservatorio fu una delle cause scatenanti della mia depressione. Una cosa positiva ci fu: studiai pianoforte come materia complementare con una bravissima insegnante e, nonostante non fosse la mia materia principale, ricordo che spesso dedicavo molto piu tempo al piano che al sax. Ancora oggi ne conservo il metodo di studio che imparai in quegli anni da lei.

Dove ho studiato? Ho iniziato a Brescia, i primi tre anni con un insegnante, poi per due anni ne arrivò un altro. Dopo il quinto, decisi di ritornare con il primo, che aveva abbandonato la cattedra di Brescia per insegnare a Milano. Chiesi il trasferimento per seguirlo, ed è per questo che alla fine mi sono diplomata al Giuseppe Verdi e non a Brescia.

Mi diplomai nel 2001. Successivamente ci furono le nuove riforme scolastiche, quelle che fecero diventare le università il 3+2 che abbiamo oggi e rivoluzionarono i titoli di studio delle accademie delle belle arti e dei conservatori. Decisero che il diploma musicale del vecchio ordinamento, se accompagnato da diploma di maturità, era da equiparare alla laurea triennale, e vennero istituiti i nuovi bienni di specializzazione, ad indirizzo a scelta fra jazz, strumentale o didattico per "completare" gli studi.
Io feci l'ammissione per quello strumentale. Per motivi dovuti a come far combaciare studio e lavoro, scelsi il conservatorio di Brescia, dal momento che ci vivo e lavoro. Era il 2008, e terminai nel 2011. Con questo nuovo titolo di studio sarei laureata in sax, come dovrei chiamarmi? Dottoressa saxofonista? Ah! No! Mi fa troppo innaturale, mi fa sorridere, e mi viene più logico dire che sono diplomata, piuttosto che laureata. Di università poi, sicuramente ci sono le tasse lievitate, per il resto, uno che suona, non cambia molto se è laureato o diplomato.

Fu durante il biennio che iniziai il clarinetto. A differenza del corso tradizionale, in cui le materie principali e complementari non si potevano decidere e scegliere, nel nuovo ordinamento, e quindi nel biennio, bisognava costruirsi il piano di studi personalizzato: con corsi obbligatori e corsi a scelta fra le varie discipline. Per esempio, fra la storia del teatro, storia del jazz e storia di qualcos'altro che non ricordo, io scelsi quella del jazz. Le materie strumentali comunque davano molti più crediti ed essendo io pigra ad aprire libri, scelsi il più possibile di suonare e di studiare meno materie teoriche. Non presi mai di mia spontanea volontà in considerazione il corso di clarinetto, che non era obbligatorio ma considerato strumento affine al sax. Frequentai tutti i corsi di pianoforte: fu una sperienza molto utile il corso di accompagnamento pianistico, in cui mi ritrovai ad accompagnare altri solisti anzichè esserlo io, a differenza del solito.

Il clarinetto entrò nella mia vita in questo modo: insegnavo in una banda in cui aveva qualche allievo di sax e qualche allievo di clarinetto, non sufficienti per far venire voglia a due insegnanti diversi di venire per poche ore. Il direttivo mi diede il clarinetto in mano e mi disse che tanto erano simili, di imparare le posizioni, così mi avrebbero dato tutti gli allievi delle ance semplici. Io, che avevo bisogno di lavorare, presi la valigetta con quello strumentino nero dentro. Durante l'estate imparai da autodidatta, ma sapevo che per insegnare non bastava conoscere le posizioni, dovevo suonarlo. Così decisi di unire le richieste del lavoro con quelle del conservatorio e inserii nel mio piano di studi il corso di clarinetto come materia affine al sax. Per due anni studiai e diedi esami pure di questo strumento da cui ero scampata a quattordici anni, e al termine, una estate seguii un master con altro insegnante. Feci pure l'esame di ammissione per il corso principale di clarinetto in conservatorio, ma lo frequentai solo per un anno e poi decisi di non proseguire.

Ancor oggi lo studio più o meno costantemente per motivi principali legati al lavoro: in tutte le scuole in cui insegno, sono insegnante sia di sax che di clarinetto, quel corso al biennio mi ha dato più ore di insegnamento, perciò ritengo il  clarinetto una disciplina a cui devo applicarmi al pari delle cose che faccio più volentieri. Ed ecco raccontate le storie dei miei tre strumenti, come li ho iniziati e quali preferisco.

Il pianoforte è legato alla mia infanzia, non l'ho mai abbandonato, mi piace anche se non l'ho scelto io. E' stato il primo amore, il mio primo incontro con la musica. Il sax l'ho voluto fortemente con idee precise, con passione e desiderio, ma è anche il ricordo sofferto degli anni del conservatorio, dell'adolescenza. Delle sfide, le delusioni, degli studi forzati e degli scontri con gli insegnanti. Il clarinetto è stata una scelta razionale, legata a questione pratiche, tuttavia, ci sono giorni in cui mi piace abbastanza.

Credo con questo racconto di aver risposto a molte domande. Se avete altre curiosità domandate pure.

Sapete una cosa, la vita è ancora lunga, non è detto che io non inizi un quarto strumento, visto che me ne piacciono tanti. Per ora non mi cimento per questioni di tempo, ma la chitarra mi piace parecchio.
Chissà!


domenica 15 marzo 2015

Io e le bugie

Odio le bugie.

Le bugie, prima o poi vengono scoperte. Prima o poi, ma ricordatevi che il tempo restituisce tutto. 
Che senso ha mentire se comunque la persona ingannata prima o poi saprà la verità? 
Scoprire di essere stati ingannati è la peggiore delle sensazioni: si perde fiducia, credibilità. Si prova rabbia: è una presa in giro. La lealtà è la base della fiducia, e nessun rapporto senza fiducia può essere positivo. La fiducia va costruita e può essere persa. 
Non dite le bugie, dite sempre la verità, per quanto male possa fare.
E non esistono mezze verità: una mezza verità è una bugia. 

Le persone che dicono bugie, per mantenere la tesi, devono continuamente mentire su quella strada. Che razza di vita è? Eludere le domande, inventare scuse. E' da vigliacchi, certo ci vuole coraggio a guardare negli occhi ed ammettere la verità. Le persone che ricevono la bugia, sono semplicemente state ingannate, e parole come "protette", "risparmiate" sono solo scuse per i bugiardi, per sentirsi a posto con la coscienza.
Il punto è che chi mente, è solo un falso, un bugiardo. Io non voglio essere protetta se il prezzo è di non credere più nel protettore. Io voglio fidarmi. 

Sono stata educata fin da piccola a non mentire.

Benché i miei siano entrambi di istruzione medio alta o alta, in verità non ho mai subito forti pressioni per lo studio: arrivare al diploma di maturità era d'obbligo, ma non ho mai vissuto nel terrore di essere bocciata, non sono mai dovuta andare a scuola con la febbre, imbottita di medicine, se prendevo un brutto voto mi impedivano la televisione per un po', ma alla fin fine erano cavoli miei se invece di terminare le scuole in un preciso numero di anni ci avrei messo di più. 
Mia madre non voleva che ci ammazzassimo sui libri, voleva che facessimo altri corsi, tipo nuoto, musica, e con la bella stagione ci diceva di finire i compiti alla svelta e ci mandava all'aperto a giocare. Diceva che niente è impossibile, che se ci riescono gli altri comuni mortali, ci saremmo riusciti anche noi. Perciò se ci sono persone che oltre alla scuola si dedicano ad altre attività e riescono bene, è solo questione di organizzazione, non di intelligenza superiore.

Bene, nonostante ciò, nonostante la scuola venisse dopo la salute, fosse alla pari con il gioco, lo svago, le attività extra; nonostante abbia sempre fatto i compiti da sola fin dalle elementari e nessun genitore mi abbia mai seguito, noi sorelle non siamo mai state rimandate e, dopo la scuola, abbiamo tutte proseguito con gli studi. Però una cosa devo contestarla a mia madre: non è vero che non esistono persone di intelligenza superiore e altre inferiore... io ero per davvero, intelligente oltre alla media, nella mia classe e in generale. 

Però una cosa era importante: non si dovevano dire le bugie: crollava la casa. 

La verità non era mai così terribile.

Se una persona si veste male stai zitto: che cavolo le fai i complimenti se pensi il contrario? E' una bugia. Se te lo chiede dì la verità: dì che non ti piace, in fondo te l'ha chiesto. E' così terribile?
Se un bambino ti fa una domanda rispondi la verità, altrimenti crederà che la vita sia una cosa spaventosa se non ne si può parlare serenamente, crederà che i problemi non esistono e se ci sono bisogna fingere che non ci siano, che bisognerà sotterrarli sotto terra, fino a quando fra qualche anno la vita e la mente diventerà una pattumiera marcia di menzogne. Poi verrà tutto a galla. Prima o poi. 
E allora non si avrà mai imparato ad affrontare la vita.

Se una persona ti sta sulle palle evitala. Se non puoi evitarla non fare la bella facciata, sii almeno neutrale: conserva la tua dignità e coerenza. Credi di essere cortese, ma sei solo un falso. Se non vuoi farle un favore dillo chiaro. Anche l'attesa e le continue speranze deluse fanno male. Se fai il favore controvoglia poi non sparlare alle spalle però: è un problema tuo se non sai dire no.
Se ci sono problemi di coppia parlane, perché ingannare col silenzio?

Quanto odio le bugie. Odio le persone false: nessun titolo di studio e nessuna istruzione fanno una persona leale. Siete sicuri di poter dire di vivere senza aver nulla da nascondere? 

La mia essenza è qui: sotto la luce del sole.
E' la cosa che preferisco di me. Oltre alla mia intelligenza superiore alla media.


sabato 14 marzo 2015

Gli strappi

Il mio bisogno di ricordare, collegare e scrivere, è forse un modo per ricucire i miei strappi. Ne ho avuti tanti, nella mia vita. Ho lasciato tanti posti, tante persone.

Il primo, ad un anno, quando lasciai per sempre il mio paese. Mia madre racconta che mia nonna era innamorata di me, perché sembravo una graziosa bambolina giapponese e perché mi spaventavo facilmente. Nella culla, se qualcuno alzava appena la voce, mi tremava il mento e mi allarmavo. Allora la nonna raccomandava a  mia madre di essere molto delicata con me, diceva che ero molto sensibile. Che sarei stata una persona molto, molto sensibile da adulta. Quando andai via da Saigon, lasciai anche mia nonna e non l'avrei mai più rivista. Era un addio. Può un bambino di meno di un anno ricordare inconsciamente le persone, le sensazioni, la mancanza da un giorno all'altro di un adulto che lo proteggeva? Oggi che osservo le mie nipotine, dico di sì. 

Poi finimmo in Thailandia, a Tha Sala. Il sindaco del villaggio si affezionò a me: ero la più piccola e la più delicata dell'imbarcazione. Ero praticamente morta: mi davano pizzicotti e graffi e neppure reagivo. Può un bambino così piccolo rendersi conto di avere fame, freddo, paura e di non poter soddisfare i suoi bisogni primari di protezione? Ad un certo punto, non piangevo più per sfinimento, mi racconta mia madre. 

E così, mi ero rassegnata a morire. 

Forse, nella mia mente, pensavo che non ci fosse posto e tempo per me al mondo, altrimenti perché appena nata nessuno mi salvava? Mia madre dice che quando vennero i pirati, vollero gettarmi in mare per darmi agli squali, per farsi consegnare tutti gli ori, persino quelli dei denti finti, allora lei volle sacrificarsi al mio posto. A questo punto, mossi a compassione, ci lasciarono vivere tutti. Anche i pirati hanno un cuore davanti ai neonati!

Giunti casualmente e per sbaglio in Thaliandia, il sindaco, viste le mie condizioni, si diede da fare, fece venire medici, mi procurò da mangiare, da bere, le cure, e io, "resuscitai". 

Nacqui la prima volta a Saigon e la seconda a Tha Sala, e il mio nuovo nome fu proprio quello del posto in cui mi venne data un'altra possibilità di vita. Il sindaco disse ai miei che gli sarebbe piaciuto potermi adottare, che si sentiva mio padre, che se un giorno fossi rimasta sola e se avessero avuto problemi, lui era il mio secondo padre, di ricordarsi di lui.

Poi. 
Dovetti abbandonare pure quest'altro adulto che mi voleva bene e pure il mio secondo paese. Non ritornai mai neppure in Thailandia.

Dove sono nata io? 

Vissi qualche mese a Latina, poi a Cremona, e infine in provincia di Brescia. Tutto nel giro di pochissimo tempo. Quanti viaggi e spostamenti. Quante persone mi presero in braccio, cercando di non spaventarmi, persone da cui poi dovetti distaccarmi.

I traslochi dei miei genitori coincisero più o meno con i miei stessi cambiamenti scolastici: asilo in un paese, elementari e medie in un altro. Superiori e casa in città. Finiti gli studi, lavoro, e ci trasferimmo di nuovo. Strano. Perciò, cambiare compagni di classe, significava anche lasciarli per sempre, andare in un nuovo paese, in una nuova casa, cambiare vita, ricominciare da zero veramente.

Da piccola, io credevo invece che le cose durassero per sempre, ci speravo, invece no. Non vi era nessuna certezza.

Non avevo più rivisto Fog City da quando i miei mi portarono via. Non che sia un posto lontano, ma quella casa nascosta in campagna, in una bolla di nebbia, con la statale dai tramonti viola e rossi, i campi e i fossi, non l'ho mai più voluta rivedere. Stava in via San Giovanni, era gialla e ci vivevano quattro famiglie, la mia era la più numerosa.

Strappi.

Ho rivisto le mie scuole medie dopo più di vent'anni, qualche giorno fa. Ho rivisto le stesse strade e il supermercato che ora è chiuso e abbandonato. Mi sembrava più grande il giardino della scuola, invece era normale. Quelle strade: la mia casa distava tre chilometri dal centro. Un fine anno scolastico, era la prima media, i miei compagni organizzarono una cena in pizzeria, io avrei dovuto aspettare che tornassero i miei per farmi accompagnare, siccome ritardarono cinque minuti, mi avviai da sola a piedi. Ho ripercorso quella strada in macchina: era senza marciapiede e col fosso, e le macchine sfrecciano veloci, ora capisco perché mia madre si arrabbiava sempre quando non l'aspettavo (l'avevo fatto più volte) e gli altri mi dessero dell'incosciente. Non avevo paura, o meglio, pensavo che non avesse senso aspettare se potevo arrangiarmi da sola, forse non mi fidavo, forse ho creduto fin da piccola che se avevo fame e paura, se stavo male, dovevo ignorare me stessa per sopravvivere. Alla morte, ai pirati, agli strappi.


Quanti anni ho. Su di una pagina bianca, con il filo delle lettere nere, con una penna, ricucio gli strappi della mia vita. Rammendo il cuore, si fa così. E non ho il coraggio di tornare indietro, sono troppo stanca per cercare la verità. Questa è la mia persona: brandelli di patrie sconosciute e lontane, amici persi e ricordi sopravvissuti alle fotografie sbiadite. Promesse e parole sussurrate negli abbracci, non mantenute. 

Sopravviverò, che vuoi che sia. E' solo un ennesimo strappo.