giovedì 17 ottobre 2013

Mezzanotte

00:00


Troppo tardi, Cenerentola rischiava di non tornare più a casa senza una scarpetta, senza carrozza, cavalli e carrozzieri.
Scocca l'ora ed avvengono tutte le trasformazioni.
Quando arriva è già un nuovo giorno, cambia l'anno, come a Capodanno, dove tutti fanno il conto alla rovescia. Io posso dire: ho vissuto il nuovo millennio!
Sono quattro cifre, quattro zeri. Il nulla.
Mi piacerebbe vivere con più ordine, ci vuole coraggio per mettersi a letto, poi però quando lo abbraccio non voglio più svegliarmi.
Questa notte sai che faccio però. Spengo la luce, punto la sveglia ad un orario comune agli altri e vado a dormire.
12:12 AM
Buonanotte mondo.



martedì 15 ottobre 2013

Carillon

Nessuna danza tribale può durare per sempre. Anche i tamburi si acquietano e le donne con i bambini del villaggio vanno a dormire. Provaci. Ora stendi il capo e abbi fiducia, credi in te, ascolta le tue paure, scrivile, leggile, vivile, è tutto un tumulto. Ma nessuna tempesta dura per sempre.
 
Hai ascoltato?
Ti ho chiesto se hai ascoltato, non  se hai sentito.
Provaci.
 
Senti la quiete del momento. Senti la semplicità delle cose, senti loro che gioiscono quando ti vedono, senti come si disperano quando vai via. Guarda gli occhi rasserenati per quello che hai fatto. Ricordati le risate per quello che hai detto, ripensa alle spalle che si raddrizzavano e a quel lungo, distratto sospiro di sollievo. Qualcuno lo fa.
 
Non ti importa niente di questo ora. Non ti importa di nessuno quando non ci sei più tu. Ma ora se provi ad addormentarti le cose scivolano via, a volte le risposte non arrivano subito. Coccola ancora la bimba e prenditi cura di lei.
 
Ora. Chiudi gli occhi. Provaci.
 
E respira, ascolta i battiti. Respira, piano piano, si calmano.
Respira, metti una bella musica, quella che ti piace tanto.
 
E respira... ascolta... respira... ascolta... respira...

Ma!.. Cos'è quello? Una mezza luna all'insù? Un sofficino divertito? O un'unghietta piccola piccola, un dondolo? Una virgola orizzontale?

lunedì 14 ottobre 2013

Luna di ghiaccio

Nota:  I racconti qui pubblicati sono inediti  ed interamente ideati e scritti da Thasala Phan, a cui appartengono tutti i diritti (vedi nota in fondo alla pagina). Alcuni luoghi citati, i personaggi e le trame sono frutto di sola fantasia. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


*** 


Questo è il paese del ghiaccio, dell'illusione. Della notte buia di puntini luminosi artificiali e di volti sorridenti che invitano dai maxi schermi. Nessuno ha mai visto un soffione, solo fiocchi di neve. Qui non batte il sole, le strade sono illuminate solo dai lampioni e dalle insegne sgargianti e colorate che da sopra le molte vetrine e i palazzi dominano la città, ma appena fuori dal centro la magia della pubblicità, dei sogni e della musica lascia posto a case addossate, palazzi e pochi giardini pubblici di sassi e panchine grigie.
Mistral vive alla periferia, una zona senza gloria e senza sfarzo, di condomini e strade desolate. Ogni mattina esce di casa per andare a scuola, indossa stivaletti e un piccolo, pesante cappotto color chiaro su gonne corte e calze di lana colorate. Ha lunghi capelli lisci e biondi e grandi occhi chiari. L'aria è nuda e gelida, la cartella con pochi libri mai aperti e la strada è la stessa di ogni giorno.
E' una ragazza come tante, ma quando suona la campanella della ricreazione si siede per conto suo sui gradini della scuola, appoggia il mento sulle mani e si mette ad osservare gli altri, vagando lontano con lo sguardo.
A volte scribacchia qualcosa su di un taccuino, mordicchia la penna, pensa e riflette e poi riprende la sua attività.
7 Novembre.
Oggi mi sono svegliata e c'era ancora buio, come ieri, come l'altro ieri. Così non sono sicura di essermi davvero svegliata. Sono qui sui gradini della scuola e aspetto La stella. Ma sono ancora le stesse stelle blu lontane e non trovo lei. Nessuno sembra accorgersi che manca una stella nel cielo. Si appartano a coppie, si baciano e si accarezzano, io sono sola mentre scrivo la data di oggi. E' tutto così strano, mi gira la testa. Sento il vento... qui non è normale. Non sono sicura che questa sia la realtà, forse sto ancora dormendo. Sono ancora intrappolata.
Mistral
°§°
Sophie Flare dagli occhi neri passa le giornate sulla riva del Fiume Rosso ad osservare pescatori o sdraiata, con le braccia incrociate sotto la testa a dormicchiare, mentre il sole cocente batte forte sulle ciglia scure. Quando si stufa strimpella qualche corda del liuto, fischietta e butta sassi nel fiume.
- Dovresti andare a scuola, ragazzina - le dicono gli adulti pescatori ogni volta che la vedono. Perché sebbene preferisca oziare e sognare ad occhi aperti, il suo posto non dovrebbe essere al fiume ma sui banchi, ad imparare qualcosa. Sophie Flare dai capelli corvini non ci va a scuola perché deve controllare il fiume, e ha già imparato a leggere, giusto quello che si era prefissata per capire il contenuto dei libri. Cammina a piedi nudi e indossa gonne lunghe da gitana.
Bisogna spegnere il giorno. Canticchia accompagnata dal liuto, anziché rispondere ai saggi consigli.
Il fiume si ritira, il fiume già assetato ma nessuno se ne accorge, ci sarà solo terra, e poi solo sabbia e sabbia qui. Nessuno sogna perché nessuno dorme. Vaghiamo per secoli attraverso le sabbie senza mai riposo, senza coricare mai il capo sul petto di un amante.
I pescatori, si guardano, alzano le spalle e proseguono a pescare, ignorando la strana ragazzina e le sue frasi incomprensibili.
Sophie Flare si guarda nel fiume che non rispecchia la sua immagine: c'è una ragazza bionda che la guarda dalle acque, una ragazza con grandi occhi azzurri.
Questo è il paese dell'inganno. Dove tutto è sempre visibile e palese e non permette vie di mezzo. Qui la notte non arriva mai, i bucaneve non nascono.
26 settembre
Credevo, sentivo il vento del nord provenire da ovest, al di là di questi confini come in un sonno. C'era un disco d'argento alto nel cielo che potevo guardare senza accecarmi. C'erano delle braccia attorno a me. E invece è ancora quest'ora che è la stessa ora di mezzogiorno di prima. Non può essere sempre una palla di fuoco, devo uscire di qui.
Sophie Flare

domenica 13 ottobre 2013

Silenzi

Tu, fino ad ora, per me non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E io non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.[...] Se tu mi addomestichi la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi laggiù in fondo quei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai i capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano...

(Il piccolo Principe, Antoine De Saint-Exupéry)
 
 
La volpe chiese al bimbo di addomesticarla, pur sapendo che un giorno questa amicizia le avrebbe fatto male, il giorno in cui il Piccolo Principe sarebbe dovuto andare via. Perché le persone nascono libere. E lei sarebbe rimasta sola, con questi ricordi, tutti questi ricordi nel cuore a ricordarle che qualcosa era cambiato, senza rivederlo mai più.
 
Le anime si incrociano nella vita, vanno via, si allontanano, a volte ritornano, a volte mai più. E di tutto rimangono ricordi e ferite che guariscono nel tempo e lasciano cicatrici. In Giappone, quando riparano un coccio rotto, ci mettono dell'oro in ogni fessura, come ad indicare il valore di ogni ferita cicatrizzata.
 
Ma vivere è anche questo. Che senso avrebbe vivere senza conoscere l'amicizia e l'amore. Senza addomesticare una piccola volpe, senza chiedere ad un Piccolo Principe di imparare ad amare il colore del grano, il rumore del vento nel grano. Senza avere il coraggio di uscire dalla tana.

 
 
Tutti, i giorni, finita la scuola, i bambini andavano a giocare nel giardino del gigante.
Era un giardino grande e bello coperto di tenera erbetta verde [...]
- Quanto siamo felici qui!- si dicevano.
Un giorno il gigante ritornò. Era stato a far visita al suo amico, il mago di Cornovaglia, e la sua visita era durata sette anni [...] Al suo arrivo vide i bambini che giocavano nel giardino. - Che fate voi qui? - esclamò con voce burbera, e i bambini scapparono.
- Il mio giardino è solo mio! - disse il gigante - lo sappiano tutti: nessuno, all'infuori di me, può giocare qui dentro. Costruì un alto muro tutto intorno e vi affisse un avviso:

GLI INTRUSI SARANNO PUNITI

Era un gigante molto egoista.
I poveri bambini non sapevano più dove giocare [...] - Com'eravamo felici! - dicevano tra di loro.
Poi venne la primavera, e dovunque, nella campagna, v'erano fiori e uccellini.
Soltanto nel giardino del gigante regnava ancora l'inverno [...] - Non riesco a capire perché la primavera tardi tanto a venire - disse il gigante egoista mentre, seduto presso la finestra, guardava il suo giardino gelato e bianco: - Mi auguro che il tempo cambi.
Ma la primavera non venne mai e nemmeno l'estate. L'autunno diede frutti d'oro a tutti i giardini, ma nemmeno uno a quello del gigante.
Era sempre inverno laggiù e il vento del Nord, la Grandine, il gelo e la Neve danzavano tra gli alberi.
Una mattina il gigante udì dal suo letto: una dolce musica, risuonava tanto dolce alle sue orecchie che pensò fossero di musicanti del re che passavano nelle vicinanze. Era solo un merlo che cantava fuori dalla sua finestra, ma da tanto tempo non udiva un uccellino cantare nel suo giardino, che gli parve la musica più bella del mondo [...] - Credo che finalmente la primavera sia venuta - disse il gigante; balzò dal letto e guardò fuori della finestra.
Che vide? Una visione meravigliosa. I fanciulli entrati attraverso un'apertura del muro e sedevano sui rami degli alberi.
Su ogni albero che il gigante poteva vedere c'era un bambino [...] Solo in un angolo regnava ancora l'inverno.
Era l'angolo più remoto del giardino, e vi stava un bambinetto. Era tanto piccolo che non riuscire a raggiungere il ramo dell'albero e vi girava intorno piangendo disperato.
Il povero albero era ancora coperto dal gelo e dalla neve e sopra di esso il vento del nord fischiava.
- Arrampicati piccolo- disse l'albero e piegò i suoi rami quanto più poté: ma il bimbetto era troppo piccino.
A quella vista il cuore del gigante si intenerì.
- Come sono stato egoista! - disse.- Ora so perché la primavera non voleva venire.
Metterò quel bambino in cima all'albero poi abbatterò il muro e il mio giardino sarà, per sempre, il campo di giochi dei bambini. -
Era veramente addolorato per quanto aveva fatto.
Scese adagio le scale e aprì la porta d'ingresso. Ma quando i bambini lo videro, si spaventarono tanto che scapparono, e nel giardino regnò di nuovo l'inverno. Soltanto il bambinetto non scappò; i suoi occhi erano così colmi di lacrime che non vide venire il gigante. E il Gigante giunse di soppiatto dietro a lui, lo prese delicatamente nella sua mano e lo mise sull'albero. E l'albero fiorì, gli uccellini vennero a cantare e il bambino allungò le braccine, si avvicinò al collo del gigante e lo baciò.
Non appena gli altri bambini videro che il gigante non era più cattivo, ritornarono di corsa e con essi venne la primavera. [...] Giocarono tutto il giorno e la sera i bambini salutarono il gigante.
- Dov'è il vostro piccolo amico? - disse: - Il bambino che io ho messo sull'albero? -
Il gigante l'amava più di tutti perché l'aveva baciato.
- Non lo sappiamo - risposero i bambini - se n'è andato.
- Dovete dirgli che domani deve assolutamente venire - disse il gigante.
Ma i bambini risposero che non sapevano dove abitasse e che prima non l'avevano mai veduto, e il gigante si sentì molto triste.
Ogni pomeriggio, finita la scuola, i bambini venivano a giocare con il gigante. Ma il bambinetto che il gigante prediligeva non si vide più [...] Una mattina d'inverno, mentre si vestiva,guardò fuori dalla finestra [...] Ad un tratto si fregò gli occhi sorpreso e si mise a guardare intensamente.
Era una cosa veramente meravigliosa. Nell'angolo più remoto del giardino v'era un albero interamente ricoperto di fiori bianchi. Dai rami d'oro pendevano frutti d'argento, e sotto di essi stava il bambinetto ch'egli aveva amato. Il gigante scese di corsa e, tutto acceso di gioia, uscì nel giardino. Si affrettò sull'erba e s'avvicinò al bambino.
Quando gli fu vicino si fece rosso di collera e disse:
- Chi ha osato ferirti? - perché il bambino aveva il segno di due chiodi sul palmo delle mani e sui piedi.
- Chi ha osato ferirti? - esclamò il gigante - dimmelo e io prenderò la mia grossa spada e l'ammazzerò.
- No - rispose il bambino - queste sono soltanto le ferite dell'amore.
-Chi sei?- chiese il gigante, e uno strano stupore s'impadronì di lui e s'inginocchiò dinanzi al bambino.
Il bambino gli sorrise e disse:
-Un giorno mi lasciasti giocare nel tuo giardino, oggi verrai a giocare nel mio giardino, che è il Paradiso.
Quando nel pomeriggio i fanciulli entrarono di corsa nel giardino trovarono il gigante morto, ai piedi dell'albero tutto coperto di fiori candidi.
(Il gigante egoista, Oscar Wilde)
 
 

Ottobre

L'autunno è decisamente arrivato, e oggi si è conclusa la mia seconda settimana lavorativa. Questa estate scrivevo che la mia stagione preferita è l'autunno, non so bene il perché. Ma adesso non so se è ancora la mia preferita. Se succedesse qualcosa di bello in qualsiasi stagione dell'anno mi sentirei felice, se succedesse qualcosa di brutto in qualsiasi stagione dell'anno mi sentirei triste, felicità e tristezza non dipendono necessariamente dai mesi e dalle temperature. Forse quando andavo a scuola, e l'estate era il periodo più caldo e solitario perché dovevo rimanere a casa ad esercitarmi con la musica, speravo che rientrassero tutti a settembre per avere compagnia. Prima di iniziare il conservatorio, settembre era invece il mese che mi costringeva tutti gli anni a salutare i miei amici di Borgio Verezzi, e allora non volevo che l'estate finisse mai.
 
Ho scattato poche fotografie in questo periodo. Quasi nessuna. Non che abbiano chissà quale importanza le mie foto, ma scattavo Le immagini quando vedevo qualcosa di bello, e forse ultimamente ho poco tempo, oppure non mi accorgo delle cose belle. Non dico che non ci siano cose belle invece, perché quelle ci sono sempre, ma a volte si è troppo distratti o assenti.
 
Su MySpace c'era una specie di poesia scritta da me sull'autunno che diceva più o meno: "Quando i miei cani si rintanano nelle loro cucce, quando la stagione sul Garda finisce e io mi avvolgo in soffici golfini... quando non posso prendere le mie scorciatoie senza sporcare le mie scarpe di fango (...) io sono serena".
L'ordine non era decisamente così ed era un po' più carina di come l'ho scritta adesso, ma non me la ricordo più. Mi dispiace non ricordarmela più. C'era un passo in cui parlavo anche di quando guardo fuori dalla finestra i profili delle montagne, con una tazza di tè bollente in mano.
 
C'è qualcosa di strano nell'autunno, un sapore di remoto e malinconico nell'aria. Ci sono gli animali che si rintanano, le giornate più corte e buie e tutto questo vento che sembra volermi dire qualcosa, ricordarmi qualcosa, farmi dire cose che non so.
 
Successe sempre in autunno, quando dal paesi venni a vivere in città, e persi tutti i miei amici d'infanzia e delle medie.
Quell'anno che mia madre incominciò a lavorare e fare le scuole serali, e da un giorno all'altro non la vidi più, sarebbe stato così per tanti anni. Era autunno.
 
Ogni anno la ripresa in conservatorio era una delusione e una malinconia, perché scoprivo sempre qualcuno che si era ritirato. Mi dicevano che invece dovevo sentirmi orgogliosa perché quelli che avevano il coraggio di proseguire valevano qualcosa, ma io non ci credevo perché credevo di rivedere i miei amici e invece non c'erano più. La delusione più grande non era però quella, era quando li chiamavo per sapere come stavano e sembravano quasi non ricordarsi di me. E allora per un attimo sì, pensavo che avevano ragione gli altri a dire che solo quelli che rimanevano valevano qualcosa. Ma ora penso che i miei amici di allora erano invece contenti di essersi liberati di quel posto, e io facevo parte del passato e di quel posto, tutto da dimenticare. E mi ricordo bene di quelle prime delusioni e nostalgie, perché c'era sempre grigio e vento. Era sempre autunno, come se insieme alle piante morivano anche le amicizie. Da piccola invece credevo che le amicizie non finissero mai.
 
E' in questa stagione che divento ogni anno un po' più grande, un po' più stanca, un po' più vecchia.
 
"Caro P." iniziavo a scrivere ogni anno, ogni anno a settembre.
 
Se mi immergo nella vasca da bagno bollente e schiumosa di bagnoschiuma al muschio, e metto la testa sott'acqua sento le voci del piano di sotto e dei vicini di casa, come se fossi lì, invisibile. Rimango al più lungo sotto fino a quando devo riemergere per prendere aria. A volte mi addormento e mi risveglio quando inizio a sentire freddo e l'acqua non crea più vapore.
 
 
Settembre. Ottobre. Novembre. Che cosa nascondono questi mesi?
Ci sono cose, cose successe a me, che non ricordo.
 

sabato 12 ottobre 2013

Andersen

Mi piace parlare di libri, qui. Nel senso che mi piace parlare di libri nel mio blog, nella vita "reale", invece, non ne parlo molto.
 
Questa sera ho in testa Andersen, lo scrittore danese. Suoi sono "La regina delle nevi", "La sirenetta", "Il brutto anatroccolo", "La piccola fiammiferaia" e tante altre storie meno conosciute.
 
Mi ricordo di un periodo in cui avevamo in casa parecchi libri perché una biblioteca li dava via. C'era un libro dalla copertina color tortora che raffigurava una bellissima ragazza dai lunghi capelli neri, con le mani e i piedi a rana, in un lungo abito chiaro, che osservava verso l'alto.
 
Era la favola de' "La figlia del re della palude". Parlava di una principessa egiziana intrappolata sotto le acque delle paludi dal re, un rospo crudele. Dall'unione nacque una bambina, emersa dalle acque scure su di un fiore di loto o una ninfea, messa in salvo da una cicogna e trasportata poi in mezzo agli umani. La bambina crebbe, bellissima come la madre e crudele e selvaggia come il padre di giorno. Con le orribili fattezze di un rospo, come il padre, ma con gli occhi malinconici della madre e la stessa indole mite e buona di notte.
 
Solo la madre adottiva fu a conoscenza di questa sua maledizione. E imparò ad amare la figlia nel suo aspetto ripugnante ma dal cuore grande notturno, e a temere la stessa, sadica e intrepida, ma ad ammirarla, di giorno.
 
La storia narra che fu un giovane prete a salvarla da se stessa, dalla sua crudeltà. Anche a sacrificio della sua stessa vita. Ricordo la scena di lei, che con le lacrime scavava e scavava nella terra con le mani, con gli arti a rana, fino a sanguinare, per una sepoltura cristiana. Per diversi giorni, diverse albe e diversi tramonti. Mentre imparava l'amore in ogni sembianza. La scena in cui nello specchio d'acqua della palude vide se stessa, per capire invece che era il volto della madre imprigionata che chiedeva aiuto. Il momento in cui, in trance, disegnò nell'aria tante croci. Questa storia che lessi da bambina, ora che la rivedo con gli occhi di adulta, aveva dentro di se un lungo percorso spirituale e le figure erano degli emblemi.
Mi piace tanto il suo significato.
 
Quando leggo i libri mi piace sapere più cose possibili degli scrittori, perché conoscendo il loro vissuto, la loro persona nella realtà, si capiscono meglio le cose che scrivono. Viceversa invece, studiare un'opera per capire la loro vita, è più difficile. Scrivono per isolarsi dalla realtà, per sperare, per inventare. Per deformarla e vivere in un limbo felice su misura. Per raccontare a qualcuno momenti di sconforto. Per confondere il pubblico. Per parlare di se e per non parlare di se. Per non uscire allo scoperto e continuare a sognare e raccontare.
 
Andersen era un solitario cresciuto nella povertà, dall'aspetto ripugnante. Dalla mente instabile. Sempre emarginato. Per tutta la vita soffrì per questo, il suo destino fu condannato alla solitudine. Quando penso ai poeti senza soldi, senza amore, dalla testa piena di idee, mi viene in mente lui.
 
Lui, il brutto anatroccolo emarginato, lui, come la piccola fiammiferaia senza amore che trovò pace solo con la morte nelle visioni della nonna in paradiso. Sempre lui nella sirenetta che non conquistò mai l'amato, perché diversa, non umana. Lui nel soldatino di piombo senza una gamba, che potette amare la ballerina di cera, sì, ma a quale prezzo? Con la morte, entrambi abbracciati, sciolti nel fuoco di un camino. Fu una folata di vento a decidere il loro destino per sempre. E fu proprio la morte a liberare l'anima dello scrittore dalla sua vita infelice.
 
Libri. Che mondo nascosto c'è dietro ogni copertina, in ogni pagina? Quale storia per evadere dalla realtà, quale mente amica mi ha lasciato tutte queste storie?
 
Me ne stavo lì, su quel pavimento, in mezzo a tutti quei volumi, come se fossero stati il più bel regalo della mia vita, con le gambe incrociate a divorare tutte quelle lettere, parole, frasi, pensieri, storie. Mentre attorno a me si faceva buio, i personaggi erano tutti lì a farmi compagnia, a sussurrare, e i paesaggi lontani si materializzavano nella mia mente e io ero sulla neve, con la Regina delle nevi vestita tutta di bianco o in volo su di una cicogna verso orizzonti e avventure e non mi importava di giocare con gli altri bambini.
 
C'è ancora un po' di Andersen dentro di me.
Un angolo incantato della nostra infanzia.



 
 

venerdì 11 ottobre 2013

Panna montata

A ciuffi, a nastri, in una coppa di vetro, sui coni di gelato con la punta all'insù. Una delle coppe che sapevo fare meglio e a memoria, quando lavoravo in gelateria, era "Il monte bianco": qualche pallina di gelato alle crema e nocciola e tantissima panna montata bianca e soffice, decorata con strisce di cioccolato liquido e granella. Poi sapevo fare l'affogato al caffè e quello al cioccolato e la barchetta con banane e gelato al cioccolato ed isole di panna. Ero orgogliosissima dei miei affogati, con chicchi di caffè che si scioglievano in bocca e il gelato che si scioglieva nel liquido bollente. La titolare si lamentava invece che non sapevo mettere il gelato sui coni e non imparavo a memoria i cocktail, tranne quelli con la crema di latte. A dire il vero, adesso che ci penso, imparavo facilmente solo le coppe più bianche che colorate. Bianche di panna. E sono solo quelle che ricordo tutt'ora. Avrebbe dovuto farmi fare solo quelle.



Alla fine di ogni pranzo facevamo la gara a chi montava la panna più velocemente, mescolandola a mano. Eravamo io, mia sorella minore e mio padre, mi ricordo la cucina della casa di Fog City, la cucina con la tovaglia rossa e i fiori bianchi e verdi. Mia madre serena che lavava i piatti, eravamo state brave a finire tutto quello che c'era nel piatto, e ora potevamo giocare.
La panna era liquida e in bicchieri di plastica bianchi e blu. Forse mia madre era ossessionata dal fatto che nonostante tutti i manicaretti rimanevamo sottopeso, ma anche con un bicchiere di panna al giorno non riusciva a farci ingrassare di un chilo.
La panna montata a mano, mescolata con un cucchiaio, era di consistenza più corposa, più densa e cremosa, compatta. Grassissima e buonissima. Diversamente di quella pronta o montata a macchina che veniva più soffice e voluminosa, ma che sciolta in bocca sapeva d'aria. Avevo imparato che bisognava inclinare leggermente il bicchiere per incorporare un po' d'aria, altrimenti sarebbe rimasta ostinatamente liquida.
Era divertente giocare così.
Al mio diciottesimo compleanno, lo ricordo bene, nevicava. Era una neve anticipata e scendeva in piccoli fiocchi bianchi. La mia gattina Lili, tutta bianca pure lei, saltava sul balcone della cucina cercando di afferrare con le sue zampette rosate i fiocchi che scendevano. Avevamo ottenuto il permesso da nostra madre per fare la festina, anche se in realtà la festa l'aveva chiesta più la mia sorellina che io. Io meditavo di diventare maggiorenne riflettendo sulla vita e sull'importante passaggio che mi stava accadendo, ma per fortuna decisi di divertirmi anziché cadere in stati spirituali. Nella piccola cucina della casa adolescenziale, cercavo di fare una torta che avesse un senso, ma non avevo mai fatto torte. Avete mai provato a tagliare una torta in orizzontale per farcirla? Difficilissimo!
Con me c'era Manuela, la mia compagna di classe. Era tutto sottosopra, e il budino grumoso non voleva solidificarsi nonostante lo mescolassi fino a farmi male il braccio. Risolsi la questione con cerchi di Pan di Spagna acquistati al supermercato farciti di budino al cioccolato (quello che non voleva rapprendersi) e cucchiate di panna. Alla fine era talmente brutta che la ricoprii interamente di panna e ne venne fuori una soffice montagna tutta bianca cosparsa di cacao. La torta fu un successone, a distanza di anni posso rivelare come la preparai. Anche Manuela mantenne il segreto, almeno per quel giorno.

Come nuvole serene, come fiocchi di cotone, come il colore della purezza. Come i momenti di spensieratezza.
Ho vinto io, ho vinto io! La mia è più densa!
Quanti anni da allora, da quei giorni. Me ne stavo composta ed elegante in quella pasticceria. Ero grande.
- Vorrei una tazza di panna montata - ordinai semplicemente al cameriere.
E solo panna, sì, specificai. No senza gelato, no senza cacao. No senza zucchero. Insomma solo panna. Ho già pranzato. Tanta, sì. Mi faccia una coppa piena. Grazie.
In cassa dovettero consultarsi per decidere un prezzo, perché non era inserito nel listino. Perché di solito, la gente non consuma bicchieri di panna a fine pranzo.
Non lo faccio più. Non ho problemi di colesterolo, né di linea, ma se ne mangio troppa mi fa star male, non ho più lo stomaco di una volta. Solo qualche volta, presa dalla malinconia, sono andata verso il frigo, ho prelevato la bomboletta e me la sono direttamente sparata in bocca.
C'è chi si consola con la Nutella, e chi con la panna.

martedì 8 ottobre 2013

Piove

Nota:  I racconti qui pubblicati sono inediti  ed interamente ideati e scritti da Thasala Phan, a cui appartengono tutti i diritti (vedi nota in fondo alla pagina). Alcuni luoghi citati, i personaggi e le trame sono frutto di sola fantasia. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


*** 


Piove, piove, la gatta non si muove... cantano i bimbi in girotondo.

Una cantilena infantile stranamente inquietante.
Ombre nere di voci bianche che danzano in cerchio, tenendosi per mano. Sto in mezzo al cerchio, bendata.

... se accendi la candela, si dice "Buonasera", se accendi il lumicino...

Ridolini, ginocchia sbucciate, codini e treccine, nastrini colorati, berretti e calzette corte.
Sarebbe dovuta essere innocenza. Bimbi.

... si dice "Buon mattino".

Strappo la benda.
Ma non c'è nessuno. Solo un parco giochi deserto. Altalene che si muovono al soffio del vento, giostre abbandonate e scivoli rotti. Cavallini cigolanti. Ulula e ulula attorno a me. Scende fitta l'acqua e sono sola. Alberi alti e infiniti, sono troppo piccola. 
Mi guardo attorno.

Dove sono. Dove sono tutti. 


°°°


Abita da sola l'anziana e povera signora, e non si da pace al pensiero dei gatti che questa notte dormono sotto la pioggia. Lei nutre tutti i gatti randagi della campagna, anime selvagge, vite libere. Ogni giorno porta ciotole d'acqua e cibo che nasconde nei cespugli e in posti che solo i suoi strani amici conoscono.
Ogni giorno ritira le ciotole vuote che tornerà a riempire.

La signora si alza e si mette il suo scialle nero oramai liso. Fa freddo fuori. Infila le scarpe grosse e scure ed esce di casa per controllare come stanno. Il vento e la pioggia orizzontale la investono. I lampi e i tuoni spaccano il cielo senza stelle.

Ricurva, prosegue. 

Non c'è nessuno in giro, non rispondono mai al richiamo. Si saranno nascosti chissà dove. Non vogliono essere disturbati, vivono diffidenti, misteriosi, indomabili. La scrutano nella notte, coppie di lunghi occhi che osservano circospetti.  Fessure scintillanti di smeraldi e topazi pronti a guizzare via appena qualcuno si avvicina. 

Ma una signora anziana non dovrebbe girare da sola in luoghi abbandonati di notte.
Ci sono rumori di passi nell'oscurità oltre a quelli della vecchietta. Passi sicuri e regolari umani che si stanno avvicinando.

Ha paura.

Succede tutto in pochi secondi. Ecco il pericolo che si materializza. Ecco un branco di gatti che appaiono dal nulla e aggrediscono l'uomo. E l'uomo non c'è più, perché preso in contropiede, spaventato dell'aggressione, non ha potuto fare altro che scappare via. 

La vecchina è rimasta sola con i suoi amici. Sono quasi cento, randagi, tutti attorno a lei. Forse è la prima volta che si vedono e si guardano negli occchi, in silenzio. E sarà forse anche l'ultima volta.

Con grazia ed agilità spariscono silenziosamente in diverse direzioni, da dove sono venuti, inghiottiti dal buio e dalla pioggia.

Stanno bene.

Tranquillizzata, ripresasi dal pericolo scampato, può avviarsi verso casa e proseguire il suo sonno.
Sa che per tutto il tragitto, senza farsi mai vedere, senza farsi mai prendere e senza desiderio di contatto col mondo degli uomini, la stanno sorvegliando, per ringraziarla di quello che fa di giorno per loro.

E' strana questa amicizia.


°°°


Il poeta che scrive nella notte cerca di fare alla svelta, perché quella è la sua ultima candela e poi non gli rimarrà più altra luce. Intinge la penna nel calamaio mentre la pioggia batte sui vetri e la città dorme.

Il poeta spera un giorno di essere letto e capito da tante persone e di diventare un qualcuno, per poter offrire il suo cuore alla sua amata. 

E intanto brucia la fiamma della candela.

Sono i sogni che lo sorreggono nella sua vita. Sogni di un futuro migliore, con tante candele per poter scrivere tutta la notte, una vita in cui carta e inchiostro non mancano mai, con l'arcobaleno al termine di ogni pioggia, con il sole al termine di ogni notte. Con l'amore al suo fianco che gli dice che è tardi ed è il momento di coricarsi, dolcemente, serenamente, con lei.

E intanto si scioglie la cera.

Ancora qualche verso. Guarda con ansia la candela. Deve farcela, è il suo progetto, il suo manoscritto che gli cambierà la vita, ogni volta, è sempre una speranza. Sarà un grande poeta. Un poeta dagli occhi blu e lo sguardo sognante degli adulti che conservano la purezza dei bambini.

E intanto bussa e bussa la pioggia alla finestra.

E' grande ed affollata la città e le case sono tutte uguali, oramai le finestre sono spente e la gente dorme cullata nei caldi e soffici guanciali, perché di notte di solito si chiudono gli occhi. Ma nell'immenso silenzio, solo la finestra all'ultimo piano di un palazzo nei quartieri dei bassifondi è ancora debolmente illuminata.
C'è un poeta che sogna. Finché la sua ultima candela glielo permette.

E intanto scende l'acqua.

Ora anche l'ultima finestra si è spenta. C'è veramente buio questa notte.
E' l'umanità, è il Grande Sonno.

Chissà se il poeta è riuscito a scrivere tutto quello che sentiva nel suo cuore.


°°°

So che quando strapperò la benda non ci sarà nessuno. 
Sono al buio. Non ci sono candele. Non so dove sono i gatti. Le voci infantili, i mici e i cuccioli umani. L'ho cercata tanto.

Piove, piove, la gatta non si muove...

Le candele si sono sciolte, l'ultima è stata consumata. Rimarremo tutti al buio.
Mi siedo al suolo con la benda sugli occhi, non cambia se la tolgo. Ma sento le voci, la cantilena dei bimbi.

Mi siedo sola in questa notte mentre il vento soffia forte ed attendo il giorno.
Sento la musica dell'acqua che scende. E' unicamente lei che mi fa compagnia.
Tutto il resto, è solo un' illusione.




Se accendi una candela, si dice: "Buonasera"... 
Se accendi il lumicino, si dice: "Buon mattino!"



lunedì 7 ottobre 2013

I 7 peccati capitali - Ira

Avarizia.
Gola.
Lussuria.
Ira.
Accidia.
Superbia .
Invidia.

Sono una peccatrice. Più della metà dei vizi capitali fanno parte di me. La lussuria, la gola e la superbia li considererei pure delle virtù, e anche l'accidia. Ma l'ira. Proprio non so ancora gestirla. Non del tutto.

Mi piaceva leggere "Piccole donne" di Louise May Alcott, perché ognuna delle sorelle aveva qualcosa di me: la maggiore, Meg, la bella di casa, combatteva contro l'indolenza e il desiderio di cose belle, Jo l'aspirante scrittrice, generosa e ribelle, cercava di domare i suoi stati d'animo impetuosi, Beth la pianista era bloccata nella sua timidezza ed Amy l'artista, era una piccola raffinata e vanitosa, un po' presentuosa, che sperava un giorno di inserirsi nell'alta società.

Ma di tutte, Josephine March mi era d'ispirazione perché mi sentivo esattamente come lei: quando l'ira la travolgeva era capace di dire e fare cose che ferivano gli altri, incapace, nel suo orgoglio, di perdonare, finì quasi per perdere per sempre la sorella Amy nel lago ghiacciato. Rimase paralizzata, terrorizzata, mentre questa rischiava di annegare e morire assiderata. Questo fu l'episodio che la fece piangere e la spinse a lottare contro la sua naturale indole.

Per le persone pacate di natura non è semplice capire cosa si sente quando una fiamma da dentro ti travolge e ti brucia. In quei momenti qualsiasi cosa venga fatta e detta per calmare, è come un secchio di petrolio che viene versato sulla fiamma, che diventa un grande incendio. Tutto viene distrutto, anche la persona accecata dalla collera. E a volte è solo la stanchezza o la disperazione a far cessare questo stato.

Mi ricordo di porte sbattute, vetri rotti, grida e urla, lacrime e tante ore passate in solitudine a girovagare per la città per calmare i bollenti spiriti. Ero un'adolescente e non potevo andarmene via di casa. Stavo sui pulmini ore e ore d'inverno per stare un po' al caldo perché non potevo parcheggiarmi tutto il giorno in un bar, senza soldi in tasca. Avevo l'abbonamento per i mezzi di trasporti pubblici e quando il conducente, dopo vari capolinea cominciava a guardarmi dubbioso, scendevo e cambiavo corsa.

L'ira e l'impulsività rovinarono tante cose nella mia vita. Lavoro, rapporti, amicizie, situazioni. Quando decisi di voler cambiare, passai inevitabilmente al difetto opposto. E divenni una pentola a pressione. Tutto veniva mandato giù e represso. Le esplosioni, quelle poche, rare e inaspettate che ne derivarono, furono ancora più dannose di quando erano frequenti.

Ci vuole coraggio a voler combattere contro se stessi. E non è vero quando dicono che volere è potere, perché non si cambia mai veramente, anche con la più grande forza di volontà. Si può solo prendere coscienza e scegliere di non fare del male agli altri. E provare, riprovare, allenarsi. Quando si è felici e sereni, si è anche più tolleranti e l'ira è un peccato che non si rivela. Ma nei momenti difficili, torna quella sensazione di bruciore che grida da dentro di farsi sentire. E allora è come essere ritornati al punto di partenza.

Ricordo che una volta ero talmente furibonda che scaricai dalla macchina, di notte e sotto la pioggia, due mie amiche con cui stavo litigando. O quando nel mezzo del lavoro, in un locale, gettai lo straccio e annunciai di pagarmi subito le mie ore, perché non volevo rimanere un minuto in più in quel posto. Quelle furono alcune delle mie esplosioni della "pentola a pressione" e, dopo tanto tempo passato a soffocare la rabbia, fu una notevole liberazione, e dopo mi sentii svuotata e incredibilmente stanca. Ma gli altri attorno a me ne rimanevano addolorati e spaventati. Di tutto quanto, alla fine mi rimaneva il ricordo di aver ferito e perso le persone a cui tenevo.

Non sono cambiata, in realtà. Anche se spesso la gente non crede che io provi emozioni di tale portata. Ma io non sono docile. Se la mia stessa madre mi dava del "maschiaccio", aveva le sue ragioni.

Quello che riesce a fermarmi, ora, non è il concetto del giusto e del sbagliato, la maggior parte delle volte è l'amore. E nonostante l'amore, riesco ancora a ferire le persone, quelle che mi stanno più vicine.

L'amore non è solo quello romantico, quello fra un uomo e una donna.

Il primo amore che mi è stato d'aiuto è quello per la vita. Da adolescente, quando era difficile crescere e avevo paura di vivere, sentivo più spesso in me quel fuoco incandescente. Perché ero infelice. Come ho detto più sopra, quando ci si sente sereni ed appagati si è anche più tolleranti.

Il secondo amore è quello più generale. Quello per le persone, ma non tutte, solo quelle a cui tengo. Mi ferisce ripensare ai loro sguardi, alle loro incertezze dopo essermi lasciata andare. Questo mi spinge, ogni volta, a pensare all'amore che come un fiore chiede di essere sbocciato e non distrutto, e la fiamma si ritrae, una pioggerellina scende. L'incendio si vergogna e piano piano viene sconfitta.

E poi c'è l'amore importante, quello per una persona sola. Semplicemente perché è quello di cui hai bisogno. Perché non hai molti contrasti, perché le discussioni non degenerano, perché non ti fanno alzare la voce e non si sa bene il perché.

Ci sono ire che sono come incendi, altre che guizzano per un po', come fiammiferi fregati contro il muro.

Ci sono persone che a contatto con piccole fiamme diventano dei combustibili, e il piccolo male cresce anziché contenersi e si propaga. Ci sono altre invece, che scendono come pioggia e raffreddano tutto quanto. Altre che non ti cambiano del tutto, ma che costruiscono un camino attorno per proteggerti e il fuoco non brucia più per distruggere, ma per scaldare. E forse non è più lo stesso fuoco.

La chimica fra le persone è complessa e non l'ho mai capita del tutto.

E ho imparato un altro metodo per far fronte all'ira: scrivere. Per fortuna è un mezzo di comunicazione che mi riesce facile. 

Scrivo per esprimere la mia rabbia, alla prima stesura. E vomito l'anima, senza preoccuparmi di quello che dico. Se non ho interesse a recuperare i rapporti mando gli scritti così come sono. Se invece non voglio ferire, non voglio perdere la persona, riscrivo la lettera con gli stessi contenuti e magari parole diverse, e alla seconda stesura già mi vengono anche concetti di amore, assieme alla rabbia.

Questo mezzo mi permette di comunicare e di gestire i sentimenti negativi in maniera più pacata. E' un bel mezzo. Quando rivedo la persona che mi ha fatto arrabbiare, dopo averle già scritto, la rabbia è ridotta notevolmente, le idee sono già state ordinate ed espresse, e parlare diviene più facile e non si rischia di dire cose che possono ferire.

Ho scritto queste cose oggi, perché è venuto a trovarmi di nuovo il mio peccato capitale: l'ira.
L'ho detto, che non si cambia mai veramente, e mi fa male lasciarmi andare così con le persone vicine.

Ma non sono cattiva. Non volevo. Ci riprovo.

°°°

La strada era sconnessa e scivolosa, il piede mi è scivolato mandando l'altro piede fuori strada ma mi sono ripreso e mi sono detto: sono scivolato, non sono caduto.

(Abraham Lincoln)

domenica 6 ottobre 2013

Morgan

Ragni neri muffa.
Freddo indifferenza disperazione.
Entra e mi cava gli occhi.

Non guardo non sento.
Pupazzo servo solo a divertire.
Sorriso fisso dipinto ma io ho un'anima.
Impugna la lama non ci pensa.

Cala giù.

Squarcia il petto tanto non sento nulla.
Una vita intera senza senso.

Affonda più volte ci riprova.
E poi gode il suo spettacolo.

Ora non sta meglio.
Ma almeno ne è libera.

Morte.



Alice

Ragni neri muffa.
Freddo imposizioni disperazione.
Entra e cava gli occhi alle bambole.

Non guardare non sentire.
Pupazzi prendono solo in giro.
Sorrisi fissi dipinti senza anima.
Impugna la lama e non pensarci.

Cala giù.

Squarcia il petto tanto non hanno anima.
Infanzia rubata.

Affonda più volte, riprovaci.
E poi godi il tuo spettacolo.

Ora non stai meglio.
Ma almeno ne sei libera.

Morte.




martedì 1 ottobre 2013

Strucco

Oggi ho voglia di parlare di trucco. Non quello dei prestigiatori, intendo il make up, quello delle donne.

Io ho imparato a truccarmi a scuola durante le ore di disegno. In quell'istituto di sole ragazze interessate alla moda e alle riviste gossip, si facevano venti ore di disegno a settimana, cultura non ce n'era molta ma noi cazzeggiavamo alla grande. Non sapevamo come risolvere i sistemi e le equazioni di secondo grado, ma ci scambiavamo i consigli su come far colpo sui maschi.
Gli insegnanti a volte ci ignoravano, stanchi dei tanti anni di insegnamento in mezzo a ciarlare femminile di adolescenti indemoniate.

Passare dai pennelli sulle tavole, ai pennelli per il viso e per le unghie è d'obbligo. Furono le mie amiche le prime a dipingermi il viso per farmi diventare più bella, più grande, più femminile, più donna. Come le modelle sulle riviste patinate. Prima di allora mi truccavano solo per Carnevale.

Tornata a casa, cosa credete che mi disse mia madre? Che le mie amiche, si vedeva che erano bambine alle prime armi, e mi insegnò i segreti del mestiere di una adulta. Le creme per la mia pelle, come impugnare la matita, come fare durare più a lungo l'ombretto e il rossetto.
Ecco: queste sono le mamme che hanno ragione di fare le mamme!
Avevo circa quattordici, quindici anni. E fu pure verso quell'età che mi arrivarono le prime scarpe con i tacchi, le indossavo con le calze a rete nere e il vestitino rosso intrecciato sui seni.
Rubavo i vestiti dall'armadio di mia madre.

Le donne hanno a disposizione un sacco di cose per apparire più affascinanti: scarpe, gonne, acconciature, borse, gioielli, mascara per avere ciglia più scure e più lunghe, fondotinta e cipria per coprire la faccia ed avere la pelle perfetta, il fard per colorire le guance, il rossetto per colorare le labbra, matite e ombretti per ingrandire gli occhi. 

Gli uomini invece non sembrano poi tanto diversi dal mattino appena svegli a quando escono dall'operazione restauro.

Mi è venuto in mente questo argomento stasera, quando mi sono guardata allo specchio e avevo una riga liquida nera sulla guancia. La macchia si era asciugata, e le ciglia erano tornate morbide, liberate dagli strati di Rimmel. I miei soliti occhi addolciti dalla miopia. Non è che sono così sensuali di natura, è che ho lo sguardo poco sveglio, di una che non afferra tutto quello che vede. Io vedo il mondo sfocato, come credete che possa accorgermi di quello che mi gira attorno?

Odio struccarmi, per pigrizia di solito mi infilo in doccia o mi butto l'acqua sul viso, tanto va via tutto.

Quando non ho niente addosso, di tutti quei vestiti provocanti, quando sono a piedi nudi, e i miei capelli scendono lisci e vanno dove ne han voglia loro. Quando le mie guance non sono più rosa e tornano pallide come le mie palpebre nude senza pigmenti colorati.
Quando c'è solo il mio viso, e sono solamente io. Quando mi guardo allo specchio, e vedo una ragazza privata di qualsiasi gioiello e indifesa mi sento così, con quella faccia. Così bella.

Come un'attrice senza parte. Come un clown triste. Come un ufficiale senza il suo plotone. Come una regina senza trono.

E quasi quasi, penso, mi preferisco triste e stanca, senza trucco e con le ciglia morbide e gli occhi meno grandi, con le occhiaie. Ho un paio di piccoli nei sulla guancia sinistra. Puntini scuri che non servono a nulla. Quasi quasi andrei in giro così. 
Potrei anche non mettermi in tiro e girare come se fossi appena uscita dalla doccia.
Sarebbe bello poter sempre camminare a piedi nudi e con l'accappatoio. Ci si metterebbe molto meno tempo per prepararsi.

Quasi quasi.

Pensavo di lasciare la macchia nera sulla guancia. Ma poi non ricordo che cosa ne ho fatto. L'ho tolta. Penso che non posso essere troppo seducente, è una fatica dopo gestire la mia vita.

E' meglio pitturarsi un po' la faccia.

Come una prima attrice sotto i riflettori, come un ridicolo clown circense, come un colonnello d'oro di medaglie, come un'imperatrice e i suoi sudditi.

Ma di notte è meglio togliersi tutto. Per fare respirare la pelle, come diceva mia madre.

E così. Questa notte bella e spoglia, senza nulla sul mio viso, senza nessuna macchia. Solo i miei piccoli e inutili nei.
Vado a dormire così.


venerdì 27 settembre 2013

Disegni senza contorni


E di notte
passare con lo sguardo la collina 
per scoprire dove il sole va a dormire. 
Domandarsi perche' quando cade la tristezza
in fondo al cuore
come la neve non fa rumore...

Guidava come un pazzo con i fari spenti nella notte. 




Guidare quando c'è buio, una strada dritta e larga. Le macchine che sfrecciano, la radio che non  trasmette nulla di interessante. Interviste che non ti interessano. La giornata al termine. La solitudine, i pensieri, i ricordi, le speranze, la malinconia.


I profili delle colline, che man mano diventano case e tutto si illumina e si allarga all'ingresso in città.
Rimanere in macchina sotto casa, senza voglia di scendere.

Emozioni. 

La chiave che gira nella toppa, la casa buia. Le stanze buie, le stanze che dividono. Le scale al buio, mi sfilo di dosso i vestiti. Pensieri.

Sorseggiare qualcosa di caldo prima di mettersi a letto.
Ma la voglia di dormire non c'è. Il sonno, invece sì.

A volte, ho paura della notte.



Vedo il volto ovale del piccolo Pierrot, la sua lacrima d'argento e il viso truccato. 
Mi ricorda il quadro. Un quadro che dipinse mia madre.
Vedo le emozioni e le paure, le debolezze. Le sensazioni, la luna solitaria che non può amare il sole.
Tante stelle attorno a lei. Ma l'unica stella che vuole è il sole.

Ci sono i gatti randagi e c'è troppo silenzio.
Nel silenzio si sente il cuore battere, il respiro, si percepisce la paura, la solitudine, la stanchezza.
Chi la conosce la sua storia. Chi sa perché cantava e suonava dondolandosi sulla luna. Piccolo menestrello. Un pagliaccio. 

La notte è fatta per dormire abbracciati.
La notte esiste per gli amanti.
Ma per chi è solo ci sono i pensieri, i versi, le canzoni.

I quadri color pastello.


Non ci sono nemmeno i contorni. Ma io coloro per riempire, anche se non ho linee. Secchi di pittura, briciole di pastelli a cera. Gocce di inchiostro che si allargano. Mine spezzate.

Di nuovo.



La notte non fa per me. Io voglio essere sempre brillante, non la voglio questa tristezza.

Non ho domande, non ho dubbi, solo incertezze, solo voglia che arrivi presto il giorno, o il colpo di grazia di Morfeo che alle prime luci dell'alba mi chiude le palpebre e io crollo. E non riesco mai a vedere il sole sorgere.

Non dovrebbe mai esistere la notte. Io di giorno sono forte. 
C'è troppa stanchezza per porsi domande sul mondo, sulle persone, sulla vita. Vorrei solo avere il coraggio di affrontare il sonno.

Sento che il sonno mi sta pian piano avvelenando, come qualcosa di inebriante e pericoloso che invade il mio sangue ed entra in circolo nelle vene.

E così. Io cedo.

Non mi importa più nulla del mondo, nemmeno della tristezza. 


***

Non posso farti compagnia menestrello. Fai ridere tutti tranne te stesso. E non fai ridere neppure me conciato così da pagliaccio. Raccontami perché piangi.
Parla mentre io vado via con la mente e ti lascio solo.
Sei sempre stato solo. Ti lascio con la tua lacrima. Canta la luna, canta la notte stellata. Nessuno ti farà compagnia.
Canta quello che senti, canta per chi non ti vuole. Canta al nulla. Fino all'indomani.

Ora appoggio il capo e chiudo gli occhi.
Ho bisogno di riposare.



Canta, canta un po' anche per me.



martedì 24 settembre 2013

Morgan cammina sulle nuvole


Era il titolo di una pagina che avevo aperto tutta per me. In anonimato, ci scrivevo tutte le cose che mi rendono felice, che mi fanno stare bene.

L'idea mi venne in un gelido pomeriggio di dicembre. Ero in giro con i miei cani, c'era già buio e dai giardinetti pubblici rischiarati dai lampioni osservavo le finestre illuminate delle molte case. Mi è sempre piaciuto fantasticare sulle persone e sulle storie che si incrociano, così guardavo in sù verso le tendine, le lampade e i mobili che si intravedevano e talvolta le casalinghe occupate in cucina a preparare la cena, gli studenti seduti nell'altra stanza davanti ad una scrivania.

Per qualche misterioso motivo il contesto mi rasserenava. Pensai che io ero lì fuori al freddo e al buio ad osservare queste scenette famigliari, pensai a come mi sarei sentita bene, in quel momento, se avessi potuto mangiare un pasto caldo, farmi un bagno rilassante e caldo, e dormire in un letto caldo, cullata dalla mia stanzetta.

Per un secondo, questi desideri mi provocarono una sensazione di profondo freddo,  come se per me tutto ciò non fosse concesso. Ma non era un freddo che proveniva da fuori, era qualcosa di molto remoto, di tanto tempo fa, lo sentii in fondo al mio cuore.

Io dovevo aggrapparmi alla vita da sola.


Quel breve secondo venne spazzato via immediatamente al ricordo che io tutte queste cose le avevo, che le potevo fare. Che potevo riportare a casa i cani, entrare in una casa illuminata e avere il pasto caldo, il bagno e il letto caldo. E mi sentii fortunata e felice, come se rispetto al resto del mondo fossi una privilegiata. Fu una nuova consapevolezza.

Tornata a casa, decisi di fare l'elenco delle mie serenità. Alcune erano cose piccole, altre più pretenziose. Altre sono fortune con cui sono nata. Mentre scrivevo mi resi conto della cosa più importante: la vera fortuna che avevo in più degli altri non erano oggettivamente i successi e i beni materiali in mio possesso. Ma il rendermi conto di averli.

Una volta un mio amico, un mio coetaneo, mi disse che la mia e la sua generazione era piena di bambocci e che stava regredendo rispetto a quella dei nostri genitori, che invece erano cresciuti nel dopoguerra, con la mentalità di fare sacrifici e lavorare sodo per ottenere le cose. Ricordo che gli risposi istintivamente: "Parla per te. IO sono della generazione del dopoguerra. E sono della prima generazione dei bambini cresciuti in un paese straniero".

Ecco. Ad oggi, credo che sia stata proprio questa sfortuna, la mia grande fortuna.

***

Morgan cammina sulle nuvole, ed ogni nuvoletta è in questo elenco numerato. 
Non ho mai molto apprezzato i guru che si ergono ad insegnanti di ottimismo e di felicità, mi verrebbe da rispondere: "Che cavolo hai da essere sempre allegro?"

So che ci sono tante difficoltà nella vita. Non sono una bambina cresciuta in un paese delle meraviglie, ma so anche che la realtà a volte è migliore delle favole.

Questo elenco è per me. Per quei momenti in cui la malinconia pervade, allora verrò qui per ricordarmi di cosa posso fare per assaporare la vita. Spero che possa essere anche una piccola fonte di ispirazione a qualche lettore.


Le cose che mi rendono felice:

1- Passeggiare sotto Natale per il centro con la mia amica. E dopo gli acquisti rifugiarci in una profumata ed accogliente pasticceria a sorseggiare cioccolata calda con tanta panna montata.


2- In estate, esplorare le campagne e le strade in bicicletta.
3- La pioggia che batte forte fuori e io in casa senza nulla da fare, a guardare un film o a leggere un libro avvolta in una calda copertina.
4- Sognare ad occhi aperti o sonnecchiare sotto un ombrellone, al mare, mentre un leggero venticello mi accarezza la pelle.


5- I giorni di completo riposo dopo una settimana di intensa attività lavorativa.
6- Lo stipendio che arriva tutti i mesi, che mi permette di soddisfare i miei capricci.
7- I momenti delle prove e dei concerti condivisi con le persone con cui mi trovo bene.
8- Poter esaudire i desideri materiali delle persone a cui voglio bene.
9- Arrivare a casa, sfilare via i tacchi e camminare a piedi nudi, finalmente!
10- Avere desiderio di mangiare un determinato piatto e la mamma che me lo fa trovare per cena.

11- Sentirsi tristi ed avere qualcuno con cui parlarne.
12- Sentirsi felici ed avere qualcuno a cui raccontarlo.
13- Sentirsi preoccupati ed avere qualcuno con cui condividere le preoccupazioni.
14- Avere delle persone a cui voler bene.
15- Avere delle persone che mi vogliono bene.

16- Ogni mattina, riordinare la cameretta.

17- Avere sonno e poter dormire.
18- Avere fame e poter mangiare.
19- Avere freddo e poter scaldarsi
20- Sentirsi stanchi e poter riposarsi.

21- Cucinare insieme e poi insieme mangiare e riordinare.
22- Farsi coccolare e coccolare. Abbracciare, accarezzare.


23- Giocare con le mie nipotine.
24- Migliorare quando mi impegno ad imparare qualcosa.
25- Imparare qualcosa.
26- Conoscere persone nuove.
27- Il delicato profumo di incenso che accende mia madre quando prega.
28- Annusare i vestiti freschi di bucato e di stiro.
29- Quando faccio shopping, trovare "l'affare".
30- Il fuoco del camino.


31- Le caldarroste acquistate e mangiate in strada, alle fiere.
32- Passeggiare a piedi nudi nel mare.
33- Questo bellissimo sole settembrino che oggi sta entrando dalla mia finestra!

***

Proseguirò.



giovedì 19 settembre 2013

Risultati di ammissione

La mia allieva che ho seguito e preparato per mesi, ha superato l'esame di ammissione al conservatorio. Beh, queste sono piccole, grandi soddisfazioni. Naturalmente io avevo preso l'impegno di prepararla solamente perché avevo visto delle capacità, perciò il grosso del lavoro è suo, ma mi sento importante per aver contribuito un po' al risultato.

E con questa sono a tre aspiranti candidati, su quattro, che sono riuscita a far entrare.

Il primo allievo, quello che non aveva superato l'ammissione, era bravo pure lui, ma ero poco più che ventenne e non mi sentivo io per prima all'altezza di questo compito. Per fortuna lui fece l'esame sia per oboe che per saxofono e riuscì a passare col primo strumento. Mi sentirei un po' in colpa adesso, se una carriera musicale fosse stata stroncata sul nascere a causa della mia inesperienza.

In bocca al lupo I., ora vai avanti per la tua strada. Ogni tanto ricordati di me!

mercoledì 18 settembre 2013

Farfalle e coccinelle

Ed eccomi qua, stasera a letto presto con i miei piani della serata rovinati a causa di un po' di febbre. Mi sento troppo stanca per muovermi, ma scrivere un paio di righe mi consola un po'. 
Non è che avessi in programma di uscire a far baldoria, io stasera pregustavo già la gioia di riordinare gli armadi per fare il cambio stagione.

Eh?

Piegare, appendere, riordinare i vestiti ed abbellire l'ambiente in cui vivo è una delle cose più rilassanti che ci sia, ma quando lo dico in tanti non riescono a capirlo.

Non si tratta solo di avere le cose al loro posto, è tutto un lavoro di esposizione estetica che deve rispecchiare certe regole: gli abitini appesi in ordine di colore, le maglie a seconda della lunghezza delle maniche, le magliette piegate e disposte con criterio nei cassetti in diverse pile rispettando le fantasie e la tinta. I maglioni a seconda del collo e della scollatura. I jeans stretti da una parte, quelli sportivi dall'altra, quelli scuri di qua e quelli chiari di là. Le camicie in base al tessuto.

A lavoro compiuto, è bello aprire l'armadio e vedere tutto in ordine, i colori che convivono armoniosamente in diverse gradazioni! 

Le cose messe dove capitano mi danno un senso di smarrimento.

Anche i miei cd sono tutti in ordine alfabetico e proprio non mi piace quando qualcuno me li prende in prestito e poi me li rimette nel primo spazio che trova, è come se non capisse e non tenesse in considerazione i miei bisogni, le mie esigenze.

Non è che io sia una maniaca dell'ordine, ma mi piace l'arte classica, e le cose disposte nella giusta successione sono come una scultura dalle corrette proporzioni.

Qualche domenica fa non sapevo proprio più come fare con le mie collanine che si attorcigliavano fra di loro, così mi è venuta l'idea di attaccare qualche gancetto a forma di farfalla e coccinella alla parete e li ho tutti appesi. Dopo sono rimasta a contemplare l'opera, ed ora posso guardare tutti quei nodi disciolti e liberi con serenità e soddisfazione.


Le persone disordinate a lungo andare mi danno sempre ai nervi. Questa sera che mi sento pure febbriccitante non vorrei averne a che fare neppure con una, neppure per sbaglio.

Cambiando discorso e ritornando al cambio di stagione, mi piace anche spostare le cose e riaprire gli scatoloni dei maglioni che non vedo da mesi, perché sembra di fare shopping: i vestiti che non si vedono da un po', appaiono come novità.

Fra i miei post cancellati da quei geni di MySpace, ne ho trovato uno risalente invece a quel giorno in cui tiravo fuori le cose primaverili ed estivi dagli scatoloni per mettere via i cappotti e i maglioni. 

Mi fa ridere questo post. Conferma che questa "cerimonia" è sempre un evento critico e importante per me. Per fortuna, avviene solo due volte all'anno.


Martedì, 2 aprile 2013

"Il fatto è, che la notte è il momento della giornata più affascinante, quando tutti dormono e tu smetti di essere idiota per partorire un paio di pensieri più profondi. Poi per "profondi" bisogna pure vedere. Ma perché scrivo in seconda persona? Di notte la realtà non esiste più, e forse è l'unico momento in cui le persone tolgono le maschere. Così i sogni sono figli di volti reali e mondi notturni immaginari. Bello, mi piace.

Addormentarsi fino al risveglio naturale e trovare la casa deserta, mi ricorda come quando alle superiori mi svegliavo tardi e in casa non c'era nessuno, e la mamma non riusciva neppure a controllare quante assenze facessi a scuola e che vita facessi, come mi vestissi, cosa mangiassi, se ero felice o depressa, quanti piercing mi fossi sparata alle orecchie e al naso, i tatuaggi, non si è mai accorta di nulla.
Papà mi diceva che ero troppo sregolata e vacua per fare qualcosa di serio nella mia vita. Forse aveva ragione. Poi per "serio" bisogna pure vedere. Non voleva neppure pagarmi l'università perché diceva che con me sarebbero stati soldi sprecati. Beh, in questo ci aveva visto giusto. Che cosa sto combinando. Ero quasi felice fino a dieci minuti fa. 

Il guardaroba, ecco quello che mi preoccupa in questi giorni. Ora ricordo perché volevo diventare una stilista di moda, per rendere più belle le persone e le donne. Ma in questi giorni nei negozi non trovo nulla di decente. Sono tornati gli anni Ottanta, che non mi sono mai piaciuti.  Borse colorate che sembrano di plastica, manichini fucsia e gialli??? Come si può abbinare il fucsia col giallo? Non trovo più niente che mi piaccia. I pantaloni stretti non stanno bene a tutte. Girare con cento euro in tasca per comprare qualcosa di nuovo e non riuscire a spenderli perché non si trova nulla che soddisfi il gusto: ecco cosa può rendermi insoddisfatta.

E questi sono i miei pensieri profondi, i miei problemi seri, già. Io non sono seria. Se sono felice scherzo, se sono infelice scherzo, se sono preoccupata scherzo, se sono arrabbiata scherzo.  Scappa scappa, Thasala. E ora mi metto a sistemare il guardaroba che fra un po' arriva il caldo. Devo smetterla di pensare, che se mi vesto male poi è peggio". 


Ora che mi ricordo, mia madre mi raccontava che da piccolina non riuscivo ad addormentarmi se prima non passavo ad allineare perfettamente le pantofole di tutti i membri di casa, e le disponevo anche in modo che fossero pronte per essere calzate appena scesi dal letto, perché non sopportavo che fossero buttate in giro e sparpagliate. O quando passavo ore a disporre le bambole e i giocattoli "in un certo modo", che doveva essere come lo pensavo io.

Piccole bimbe maniache crescono, e da grandi diventano Thasala!

Andrea sta bene

Mi è successa una cosa strana. Qualche sera fa, di punto in bianco, mi è venuta in mente una persona che conoscevo e, incuriosita, mi sono chiesta che fine avesse fatto. Prima di raccontare però questa storia è bene tornare indietro di qualche anno e cominciare dall'inizio. Non farò i nomi reali di nessuno per questione di privacy.

Nell'inverno del 2004 mi trovavo in una minuscola birreria del centro con un chitarrista a suonare dei duetti jazz, in acustico. Alla fine dell'esibizione ero sola davanti ad un bicchiere, mentre la ragazza del chitarrista si era avvinghiata a  lui e l'aveva subito portato via.

Fra il pubblico che fino a quel momento aveva ascoltato, c'era un ragazzo dai lunghi riccioli biondi, anche lui rimasto solo, che prese ad attaccar bottone con me, un tipo strano. Andrea.

La sensazione che mi diede subito era di un bambino cresciuto (aveva due anni in meno di me) alto un metro e novanta, magro, molto confuso ma molto innocuo. Mi propose un panino in un locale di via Milano, io accettai e ognuno con la propria macchina raggiunse il posto.

Ricordo che appena scesi dall' auto, mi disse subito:

- Non ti fare ingannare dalla mia macchina come fanno tutte. Non sono pieno di "pila", l'ho comprata con i soldi che mi hanno dato per un incidente. Quasi ci rimettevo la pelle.

Passai la serata con lui a parlare di assurdità e di serietà. Non ricordo perché vivesse solo con sua madre. Ci riempimmo di panini e di patatine. Mi chiese se avevo voglia di uscire con lui e i suoi amici nei prossimi giorni.

Fu così che per un certo periodo, fino alla fine dell'estate di quell'anno, frequentai questa compagnia, e con uno di loro intrecciai una relazione così vuota ed innocua, che nei miei ricordi fatico a pensare che sia esistita realmente.

Erano studenti e studentesse universitarie della Brescia benestante. Giravano con macchine lussuose e spendevano cifre da capogiro ogni fine settimana. Ragazzi brillanti, simpatici, galanti con le donne, con l'ambizione o con l'obbligo di seguire le orme famigliari e di diventare avvocati, medici, politici. La classe di ex liceali del centro, quelli definiti "figli di papà". Quelli felici e senza problemi.

Non era la vita con cui ero cresciuta io, che tanto avevo calpestato per rendermi indipendente economicamente dai miei, dall'acquisto di un rossetto alle tasse scolastiche. Pensavo a tutte quelle volte che, giovanissima, avevo servito nei locali ragazzi della mia età, nelle sere in cui correvo avanti e indietro con i capelli raccolti, quando desideravo anch'io vestirmi elegante, con i tacchi, anzichè sudare in tenuta da cameriera volando fra un tavolo e l'altro, tenendo a mente le comande e contemporanemante mandando a quel paese vecchi clienti bavosi dalle battute volgari e scontate.

Nonostante lavorare presto fosse stata una mia scelta, non nego di aver provato invidia davanti a combriccole tanto allegre, con i giovani che per fortuna apprezzavano la mia presenza, seppur puzzassi di fumo e di birra del locale.

Ora da ventenni eravamo tutti lì e io uscivo con loro. Mi aprivano la portiera dell'auto, mi facevano i complimenti e insistevano per pagarmi sempre il conto.

Ma ogni cosa ha il rovescio della medaglia e mi accorsi frequentandoli, che tutta quella bella vita nascondeva anche smarrimento e malinconia. Come se cercassero rassicurazioni, conferme nelle incertezze dell'indomani. La situazione si ribaltò e divenni io quella più "leggera", quella che non aveva i problemi, che non pensava futuro, sembrava che fossi io ad aver avuto di più e probabilmente era così. O forse semplicemente non mi facevo più problemi e al futuro ci pensavo ma non ne avevo paura?

Questa era la compagnia in cui mi inserì Andrea.

Il suo disperato bisogno di affetto e di attenzioni mi soffocava e spesso mi ritrovavo a non rispondere alle sue chiamate. Sembrava che dovesse vivere per forza ma che non gliene importasse nulla di se stesso, guidava per procurarsi incidenti quasi mortali e anche i suoi amici avevano rinunciato a rimetterlo sulla retta via e a lasciarlo da solo nel suo brodo con le sue stranezze.

Ci allontanammo sempre di più. Non eravamo neppure più amici.

Mi stupì quando, circa un anno dopo dal nostro incontro, mi rivelò che era tornato da poco perché appena saputa la notizia dello tsunami era partito per fare volontariato.

Se n'era tornato con qualche tatuaggio in più e una moto nuova di zecca. Uno sproloquio dei suoi nuovi progetti e delle sue contraddizioni. 

Mi invitò a farci un giro, per andare a pranzo da un suo amico. Dopo tutto quel tempo mi fece piacere rivederlo, ma purtroppo litigammo nuovamente. Proprio non andavamo d'accordo.

Conoscendo il suo modo di guidare, lo avvisai che se avesse fatto lo stupido con me, me ne sarei tornata a piedi piuttosto che salire con lui. Mi promise e si trattenne all'andata, ma al ritorno non resistette e, pur di mostrarmi quanto valesse il suo motore, mi ritrovai in galleria a gridare terrorizzata di rallentare, e a stringermi forte a lui dalla paura di morire, ma non mi ascoltava.

- Hai visto? - disse poi compiaciuto - sono passato dai sessanta ai centossettanta chilometri orari in due secondi.

Ero riuscita a farlo fermare in mezzo alla strada, e restituendogli il casco gridai: 

- In città, in galleria. Mi avevi detto che non l'avresti fatto. Hai accelerato senza avvisarmi, se non mi fossi aggrappata per tempo sarei potuta cadere all'indietro!

Girai sui tacchi e me ne tornai veramente a piedi. Dopo quella volta non ci sentimmo più e neppure pensai mai a lui e ai suoi amici.

Fino a qualche sera fa. Chiedendomi se fosse ancora vivo (ma ironicamente) e non trovandolo su Facebook, ho provato a cercarlo su Google, e la notizia che ho letto mi ha raggelato per qualche secondo il sangue. Un anno fa, in moto con un suo amico, aveva fatto un incidente e tutti e due erano rimasti feriti molto gravemente. La notizia era riportata sui giornali. Era uscito di strada. L'amico scaraventato all'aria. Andrea era alla guida.

Ho cercato notizie per sapere se fosse sopravissuto ma non ho trovato nulla.

Dopo tanti anni non avrei voluto sapere queste cose, soprattutto quando l'ultimo ricordo che avevo di lui era stato il nostro litigio a causa di quel suo "scherzo" in moto.

Non so perché mi è venuto in mente così all'improvviso.

Oggi pomeriggio, mentre ero in coda alla cassa del centro commerciale, ho guardato distrattamente in lontananza i vivaci corridoi pieni di vetrine e di negozi, e l'ho visto.

Lui era lì, lontano, lavorava ed era occupato con i clienti, leggermente ingrassato, con lo sguardo ancora buono e gli occhi azzurri, i riccioli lunghi e biondi, il sorriso disarmante. Mi è sembrato ancora quel ragazzo magro ed innocuo che in  birreria mi aveva detto:

- Andiamocene via da questo buco, lo vuoi un panino? Andiamo in via Milano?

Ho pensato a lui come un bambino, ma di quelli che cadono, che si fanno male, si scordano e felici ed incoscienti si rialzano e riprendono allegramente a fare gli stessi giochi pericolosi. Forse per amore della vita, e non di disinteresse come credevamo tutti.

L'ho osservato, aspettando che si liberasse, che magari da distante come eravamo guardasse nella mia direzione e mi riconoscesse, ma era attorniato dai clienti e preso dal suo lavoro. Non sapendo cosa fare, ed essendo di fretta, me ne sono andata col sorriso sulle labbra. 

Andrea sta bene.