mercoledì 24 giugno 2015

Il tempo

Volevo scrivere la mia storia stasera, ma accendo il pc e non riesco ad installare il programma per scrivere.
Non ho molto tempo.
Un dono, un pensiero, come piccoli diari di allora, colorati di pagine ed inchiostro un tempo antico. Un tempo scritto a mano, per te.
Allora i sussurri che sgorgavano velocemente nella mia mente sono rimasti qui, in un crescendo grandioso orchestrale, è un direttore davanti ai musicanti, ma sembrano bambole. Sento un doloroso silenzio. Il disco ancora non parte.
Con foga, fretta, si sbattono contro le pareti del mio cranio, come il vento impazzito di una notte fredda che vorrebbe frantumare le mie finestre e sfondare la porta per entrare in questa stanza.
Mi addormento. Se potessi volare sulla piuma e scrivere questo canto. Prima che il momento passi e non abbia ricordato nulla di noi.
Ma non posso. Per favore, aspettami.

martedì 23 giugno 2015

Sprazzi

In un universo parallelo io chiedo di amarmi ancora una volta. Mia sorella che torna da un viaggio col volto nero, con i capelli rossi e i riflessi viola. E quel che rimane di mia madre, si appiccica al mio polso e diviene una enorme farfalla gonfiabile.
Un palloncino, si sgonfierà?
Torno a casa su di una moto.
Mi fanno bere birra buona, una dolce e una amara, panna.
Una cantina o un garage, ed è lì, che io chiedo ancora per una volta, amore.
 

domenica 21 giugno 2015

Dopo uno spettacolo

Che strana che sono. O forse no.

Mi ha sempre un po' stupito il fatto che molti miei amici musicisti abbiano tra il pubblico, durante i loro concerti, i genitori e i parenti. Sono pure "grandi", cioè, gente di venti, trent'anni, pure quaranta!

Io non li ho, ma mi pare normale così.
Io non li ho avuti neppure per il mio diploma e per la mia tesi.

Mi ricordo che da piccola e da adolescente, c'erano perché essendo minorenne, non potevo spostarmi da sola, così mi accompagnavano in macchina ai miei concerti, ma io non è che ritenessi importante o normale che ci fossero. Forse più che importante, non mi sembrava "normale" che ci fossero.

Per me era normale che ci andassi da sola. Non mi ricordo se ci tenessi però che venissero a sentirmi.

Mi ricordo di quella volta, al concerto del Carmina Burana col coro del conservatorio. Ecco, quella volta era un bel concerto e volevo che venissero, al Teatro Grande di Brescia.

L'ingresso era libero, loro arrivarono giusto in orario ma era pieno e non li fecero entrare. Non c'erano cellulari al tempo per avvisarmi, così io cantai dando il meglio di me credendo che mi stessero guardando. Alla fine dello spettacolo corsi in fretta a cercarli, ma non li vidi. Ricordo che la delusione fu forte, e mi sedetti sui gradini del portone a piangere. Dopo arrivarono a prendermi, non avevano idea di quanto fosse  durato, erano dispiaciuti, purtroppo non c'era replica.

Questo è l'ultimo episodio che mi ricordo. Da allora non ho più chiesto alle persone a cui tenevo di venire, per paura di rimanerci male se non fossero riusciti.

E' abbastanza raro che io invita i miei amici, di solito se lo chiedo, lo faccio perchè ci tengo alla loro presenza, per condividere un mio momento che ritengo importante, più che per "fare pubblico". Non creo mai neppure eventi su Facebook come fanno in tanti, facendo pure spam, mi limito a postare le locandine, per chi vuole e, ultimamente, faccio poco pure quello. 
Lo dico a voce.

Magari sbaglio. E' che dentro di me non sono proprio un personaggio di mondo e di spettacolo.

Ho sempre sentito una certa solitudine nel dover esibirmi ed interagire col pubblico. Interagire? Beh, io non guardo neppure chi c'è giù, chi mi ascolta, non parlo. Non si può dire che interagisca. Lo fanno gli altri.

Ma sono serena così. Salgo, suono, sorrido, ringrazio, scendo.
Sono una solitaria, dentro. Anche con tanta gente, anche con la sala gremita, anche sopra un palco.


mercoledì 17 giugno 2015

Il colore delle mie ali

Ho tolto le lenzuola per cambiarle. Poi, non ho avuto più voglia di andare avanti, ma è arrivata la notte, fuori segna sedici gradi. Non posso dormire su un materasso nudo, per coprirlo allora, stendo una copertina rossa leggera, morbida ma calda, di quelle che si usano in inverno sul divano.
Con la schiena nuda però. Ho freddo. Starnutisco. In questa notte fredda senza vestiti.
Prendo il lembo della coperta e me la avvolgo attorno. Con le ginocchia al petto. Sembro un baco da seta rosso.
Che bizzarra immagine: un baco non sarà che un bruco, che nel suo bozzolo ancora, lotta e lotta per crescere e bucare le pareti.
Ma io non so, non so se voglio vedere fuori. Perché non posso scegliere se rimanere un baco o diventare farfalla? Non mi è concesso.
I bachi se non lottano, se non vogliono, se rifiutano di crescere e diventare farfalle, muoiono.
Ma io questa notte, non voglio volare e conoscere il colore delle mie ali.
Non sarò una farfalla, neppure una crisalide.
Qui. Nei miei fili che mi avvolgono. Solo qui. Per sempre.

mercoledì 10 giugno 2015

Festa della musica 2015

Anche quest'anno sarò presente al più grande appuntamento musicale bresciano, con l'orchestra Musical-Mente, il trio Les nuages, la Busker band e, per la prima volta, l'inedito e raffinatissimo duo acustico Eritha.
Non potete perdervi la prima!
Eritha:
www.facebook.com/Erithamusic

mercoledì 27 maggio 2015

L'amicizia

In questo ultimo anno ho dovuto rivedere molto il mio concetto sull’amicizia, mi verrebbe da scrivere quante amiche si sono rivelate inattendibili o false eccetera… ma non voglio fare la vittima, e mi metto qui invece a guardare come mi comporto di solito come amica.

Quello che fanno gli altri non lo capirò mai fino in fondo. Quello che pensano, vivono o hanno vissuto, è un percorso che non è il mio e con fatica, mi astengo dal giudicare, anche se non credo che per ciò io debba essere la figura su cui sfogare il proprio vissuto.

Partiamo da questa storiella: ci sono due persone in barca, tu sei una di queste e stai remando. Pensi: che bella l’acqua, che bella questa giornata di sole, e sono in compagnia… sono felice… compagnia? Sei molto stanco e ti riposi un attimo, e ti accorgi che se ti fermi la barca non va avanti. Attorno a te un paesaggio silenzioso, di fronte a te la persona dormiente. Andavate avanti perché tu remavi. Tu faticavi e ti illudevi che la barca e il viaggio progredisse, ma sei sempre stato solo. Se tu fossi solo veramente, almeno ci sarebbe meno peso e andresti più velocemente, l’altra persona dorme, è un’illusione.

Lessi questa storiella su un libro scritto da una psicologa americana che trattava i rapporti di coppia. Si riferisce a quelle coppie, dove uno dei due fatica tanto per far funzionare le cose, quando un giorno apre gli occhi e si sofferma a riposarsi, si accorge però che l’altra persona non c’era mai veramente stata, che viaggiava da sola.

Io oggi non voglio parlare d’amore di coppia, ma di amicizia, e questa storiella mi serve per paragonare certi rapporti d’amicizia che sembrano andare avanti a fatica. Credi di avere degli amici. Poi quando tu smetti di cercare una persona, quel rapporto si dilegua.

Ho sempre avuto delle amiche e amicizie con cui passare del tempo, chiacchierare, confidarsi. Finché si era “nella stessa barca”. Ma nell’ultimo anno mi sono ritrovata, come nella storiella, più sola che mai.

Che è successo? E’ colpa mia? Sono stronzi gli altri? Sono stronza io?

Ecco, a sorpresa.
Ecco. Onestamente, non credo di essere una grande amica. E’ il mio pensiero su di me, non so se oggettivamente poi sia così.

In amore io do tanto e vivo fino in fondo, ma le amicizie le ho sempre viste come figure “interscambiabili”.

Mi ricordo fin da piccola, non avevo la mania della “migliore amica”. Qualche volta mi venne chiesto se volevo diventare “l’amica del cuore”, con imbarazzo… non ricordo cosa risposi. Di solito legavo con la compagna di banco, ma non sentivo con trasporto quel vincolo di “fedeltà” e intensa complicità che vedevo nelle altre amicizie.

L’amore è un rapporto romantico, spirituale e fedele, l’amicizia è un concetto cameratesco, ci sono milioni di persone al mondo, posso avere più amici e amiche senza legarmi a nessuno, l’ho sempre vissuta così.

Probabilmente questi miei pensieri sono filtrati nel mio modo di fare e le mie amiche hanno percepito qualcosa, oppure ho sempre trovato amicizie con persone che la pensavano come me, di conseguenza io ho avuto la stessa importanza per loro, come loro lo erano per me. Nel momento in cui nella loro vita c’è stato qualcosa di più importante, mi hanno lasciato remare da sola.

Mi vedo così. E dalla parte opposta, mi vedo invece bimba, che ci rimanevo male quando in seconda elementare la mia compagna di banco preferì mettermi da parte per essere più amica di altre bambine con i genitori che parlavano bene l’italiano. O quando in seconda media, Francesca preferì legarsi a delle ragazze che facevano già le superiori. Io ero acerba, senza libertà di uscita, straniera, non alla moda, forse la imbarazzavo.

Mi ricordo come se non fossi io, ventenne, di Elisa che disperata mi telefonava alle tre di notte, alle cinque del mattino, io lasciavo il telefono acceso apposta perché era appena stata lasciata e magari aveva bisogno di parlare. Ero io? Così disponibile? Mi sento sempre come se fossi cattiva, non so perché.

Ero sempre io che alle superiori, troncai tutte le amicizie che mi erano state vicine e senza spiegazioni proseguii sulla mia strada, senza più loro. Non volevo più essere fragile e non riuscivo a diventare forte con tutta quella gente che non voleva che cambiassi. Credevo che essere forte equivalesse a comportarsi da stronzi, e che la debolezza fosse perdersi nei sentimenti. Per questo dovevo chiudere col passato, loro volevano che io continuassi ad essere la Thasala “debole”.

C'era Sara. Sempre presa in giro. Quella scena di lei in ginocchio alla capoclasse per farsi ridare il cerchietto. Sara era brutta e un po' ritardata, la prendevano in giro tutte. Un giorno le chiesi cosa avrebbe fatto domenica pomeriggio, per uscire insieme a giocare a bowling e per prendere un gelato. Onestamente, mi annoiai a morte quel pomeriggio, a diciassette anni non era il modo migliore di passare il tempo, ma lei era felice e a distanza di anni penso di avere fatto bene. Quando le mie compagne di classe seppero che ero uscita con la "sfigata", presero in giro pure me.

Chissà cosa avranno pensato di me: Laura, Barbara, quando alle superiori mi allontanai. Che ero un’amica falsa e cattiva. Laura, so che ci rimase così male che pianse e la sua poca autostima che aveva ripreso un po’ con la mia amicizia, crollò del tutto. Barbara mio odiò.

Nei tempi recenti pure una mia amica ha chiuso tutti i ponti con me senza spiegazioni, come ho fatto io in passato con altre persone. La differenza era che io avevo sedici anni, lei oggi trentuno. Non so darle della stronza, forse solo immatura, io oggi forse, dico forse, non so se farei così. Ma io sono immatura in tante altre cose.

Le mie amiche che nel momento del bisogno sparirono? Avevano problemi più grandi di loro probabilmente. Ho tanto riflettuto se anch’io ho fatto così. Ma onestamente, credo di no. Io nel momento del bisogno, se potevo, c’ero. Anche solo con un sms da lontano, se non subito, il giorno dopo.

Penso di essere una buona amica. Forse amo più me che gli amici, tutto qui. Forse sono un po’ troppo diretta e mi infiammo facilmente, ma non ho mai pugnalato nessuno alle spalle.

Sono passati mesi, c’è stata tanta delusione, sconforto, abbandono e solitudine. Le amicizie si sono dileguate da sole, pazienza, me ne farò altre. Altre invece, poche, sono rimaste in piedi. E poi ci sono quelle che ho chiuso io, mica solo gli altri.

Che strano quando credevo che le cose fossero per sempre, colpa delle favole e dei libri con i loro: “E vissero per sempre felici e contenti” e i film con gli idilliaci: “The End”. Mi viene da sorridere. Non voglio pensare che tutto finisca, ma semplicemente, che tutto si evolve. 


venerdì 1 maggio 2015

Il mio Inno qual è?

Il 25 aprile, come tutti gli anni da tantissimi anni, sono a suonare per la festa, quella in cui si suona l'inno di Mameli. Così anche il 4 novembre, il 2 giugno, e per altre ricorrenze.

Osservo da fuori. Mi rendo conto in quei momenti di non essere e soprattutto di non sentirmi italiana. E' bello vedere le persone che solennemente cantano e si sentono appartenere ad una nazione, io non ho mai sentito questo, io non ho mai avuto un paese. 
Anche in quelle rare feste nazionali del mio paese, svolte in Italia, in cui da piccola i miei genitori mi portavano, io sentivo di non far parte nemmeno di quel "gruppo". Parlo perfettamente l'italiano e la mia lingua madre con accento straniero. So leggerla a fatica ma non so scriverla, e avendola parlata solo e sempre con i miei genitori in un linguaggio informale, non saprei affrontare un discorso formale e professionale in altri contesti. Sono una straniera per i miei "connazionali".

La bandiera che i miei considerano ancora, è quella gialla con le tre strisce rosse orizzontali, anche se dal dopo guerra è riconosciuta quella rossa con la stella gialla in mezzo. Ho due codici fiscali perché l'anno in cui sono nata il paese era già unificato, mentre i miei hanno sempre e solo tenuto conto del Vietnam suddiviso in nord e sud e dichiarato questo per me all'anagrafe. Per loro io sono nata nel sud, anche se l'unificazione è accaduta nel 1975.
Due codici fiscali ambigui. Due iscrizioni all'Inps, due versamenti come se fossi due identità diverse, due nomi, due persone incasinate. Chissà se avrò mai la pensione. 
Nei documenti, devo specificare una nazionalità e un'altra cittadinanza. Nei curriculum da quanti anni sto qui, per la questione della lingua e le scuole frequentate.

Non ho un mio inno.

Pure la religione. Da piccola cantavo nel coro del paese diretto dal mio insegnante di pianoforte. Era una bella cosa la musica, in tutti i contesti, perciò mia madre ci portava volentieri alle prove e la domenica mattina presto per cantare alle messe. Abbiamo fatto pure il grest e andavo all'asilo dalle suore, senza mai convertirci.
Se scavo nella memoria, credo di essere entrata nelle chiese quasi esclusivamente per suonare o cantare alle messe cattoliche o per visitarle con le gite scolastiche. 
Potrei dire quasi con certezza di aver messo piede una volta sola in una chiesa, con l'intento di pregare, per vedere com'è una messa, da spettatore, l'anno scorso. Per voi forse vedere frontalmente un prete che parla è normale, per me no. Per me la messa era quel momento in cui, con scarpette lucide, vestita di nero, si stava dietro all'altare in silenzio mentre la voce parlava, poi quando finiva si cantava assieme all'organista.
Ma io non sono cattolica e neppure cristiana. E credo di aver fatto, nonostante tutto, più messe io di un credente. Al primo matrimonio di mia sorella indossai un abito tradizionale durante la cerimonia con il monaco, e uno occidentale al ristorante. 

Ci stavo pensando. Chissà come dev'essere dire: "Sono italiana", senza averne dubbi, o: "Sono vietnamita", senza sentirsi stonati. 

Boh, io non sono né carne, né pesce. Quando facevo la barista, il proprietario del bar mi disse: "Sei un cocktail ben riuscito", almeno era un complimento.

Non mi sento vittima, chiariamo, sono solo pensierosa riguardo a queste cose, che mi vengono in mente nei contesti delle feste nazionali. Per me sono dei giorni di vacanza da scuola con l'impegno di suonare. Anzi, questo post mi è venuto in mente a seguito dell'esternazione di un mio amico, che con disappunto, ha detto che l'inno sacro e nazionale, tradizionale di Mameli, non doveva essere storpiato come hanno fatto all'Expo. Io non seguo l'Expo perciò non so come l'abbiano eseguito, ma è proprio per le sue parole: "tradizione, l'Italia, il nostro paese, la storia" che mi sono soffermata in queste considerazioni, altrimenti non mi sarei sprecata a scrivere sul blog.

Il mio nome significa "regina delle nuvole", o "nuvola d'oro", le nuvole non hanno un'appartenenza: vagano nel cielo per tutte le nazioni e in tanti continenti, e quando tornano non sono mai della stessa forma, cambiano continuamente. Mi piace pensarla così: il mio paese è il cielo, libera nell'aria e senza catene, senza confini, era questo il mio destino. 
Devo scrivere un inno tutto per me.



martedì 21 aprile 2015

La vita non ti da quello che vuoi, ma quello che sei

Ecco: scrivere un post al mattino. E' da tanto che non lo faccio, perché al mattino devo studiare, lavare i piatti, fare i mestieri. Doveri. 
Però voglio stravolgere ogni tanto le abitudini e fare una cosa inutile come scrivere un post senza grossi contenuti. Che saranno mai dei piatti nel lavello e qualche granello di polvere di tanto in tanto?

Ci sono persone che vivono tutta la vita abitudinariamente senza intaccare mai le loro sicurezze. Ossessionate dai doveri, dalle regole, dal giudizio delle persone. 

Io da adolescente vedevo la vita e il meraviglioso sole alto su nel cielo, allora non mi andava di rinchiudermi in un aula tutte quelle ore... così, decidevo di passeggiare in castello, nei parchi, cucinare, oppure rilassarmi beatamente a letto. 
A tutti quelli che credono ancor oggi che fossi fannullona a scuola o inaffidabile, racconto che io ero una delle pochissime in grado di consegnare i lavori di disegno e i temi nei tempi prestabiliti, prendendo sempre il massimo dei voti. Poi mi avanzava del tempo, che dovevo fare?

Io pensavo candidamente che la scuola fosse un obbligo inutile, perché non capivo a cosa servissero così tanti anni di frequenza per imparare delle cose che avrei potuto imparare in uno o due anni. 
In effetti, quando decisi di superare il test di ammissione a medicina, studiai in un anno tutte quelle materie che non avevo mai fatto a scuola, essendo ad indirizzo artistico e non scientifico, e riuscii a passare. Il mio problema era la rapidità.

Così, mentre la professoressa perdeva un'ora intera per spiegare qualche capitolo di storia, io mi dedicavo al mio benessere, e poi recuperavo l'ora persa leggendo velocemente per conto mio quei capitoli.

Parliamo di paure. Alcune persone hanno proprio paura di vivere, che sia anche semplicemente sgarrare qualcosa, iscriversi ad un corso, imparare qualcosa di nuovo a sessant'anni. Cambiare lavoro, cambiare casa, cambiare e ricominciare. Vivono oppresse, si svegliano al mattino già cupe e/o arrabbiate, ce l'hanno col mondo, si lamentano e criticano chiunque per non vedere se stessi. Aiuto, mi domando come ci riescano.

Naturalmente ora sono più matura e non salto il lavoro perché mi vorrei fare un giretto al lago. Ho più responsabilità, ma mi piace mettermi alla prova e sperimentare piccole cose, per esempio: fare qualcosa per cui non sono portata. C'è qualcosa che pensate di non essere bravi, di ludico, magari anche inutile, ma che non vi dispiace l'idea di cimentarvi? Qualcosa che se anche lo fate male non succede nulla, a parte una figuraccia da riderci su? 

Io ho sempre avuto due convinzioni di me: avere il pollice rosso ed essere un tronco di legno nel ballo, ah ah ah!!!

Così, tramite anche la spinta di un'amica, mi sono avvicinata al mondo del verde, e ho scoperto che è divertente. Non ho giardino, solo un balcone in città. Dopo un corso di come piantare un orto, un'altra mia amica mi ha regalato quattro piccole serre, così, con l'aiuto iniziale di queste due persone, ora ogni giorno mi affaccio ad osservare il mio minuscolo orticello sul balcone di insalatina. Erano timide foglioline verdi, ora stanno crescendo e diventano belle e colorate.

Mi è sempre piaciuto guardare le persone che ballano, gli spettacoli con i ballerini e i costumi colorati. Da sola poi, riparata da tutti, mettevo la musica e mi muovevo per conto mio. Ma non ho mai pensato di iscrivermi a qualche corso, un po' per i costi, un po' per il tempo a disposizione. La verità però è che non mi sono mai neppure informata, perché di scuole economiche, a cercare, ci sono.

Ci sono persone che mi dicono che a loro piacerebbe imparare a suonare ma non si sentono portate o non hanno tempo, oppure sono vecchie. Io rispondo sempre che lo si fa per divertimento personale, che l'età non è un ostacolo e che il tempo impegna anche solo il minimo di mezz'ora al giorno. Insomma non trovo scuse, e imparare uno strumento è una cosa più metodica e scientifica di ballare, ricordare i passi e andare a tempo. Che scuse ho allora io? Che sono un pezzo di legno? In realtà questa convinzione sono io la prima ad averla, ma anche se fosse non mi interessa diventare una professionista, è solo per il mio divertimento. Lo stesso concetto che dico io a quelli che vorrebbero ma "non possono" cominciare a suonare.

Mi sono iscritta. Il primo corso fattibile. Perché cade nella mia unica serata libera durante la settimana, perché costa poco e posso permettermelo, perché non è troppo, troppo lontano. Risultato? Beh, è un corso di danze delle isole greche, non ho scelto io il tipo di ballo, ma ero ansiosa di cominciare. 

A distanza di un mese, sono contenta di averlo fatto, anche se a volte sono veramente stanca e mi piacerebbe di più starmene a casa davanti un film o uscire per locali, ma supero il momento e ogni volta sono così contenta, così ancora più stanca di prima, che oramai non mi pongo più il problema: finito il lavoro, di corsa a casa, mezz'ora di tempo per "rigenerarmi", e poi vado.

Sono brava, non sono brava? Non credo di essere una cima, ma mi diverto. Mi guardano perché non sono brava? Sinceramente non lo so, siamo in tanti. Io ascolto spesso persone che suonano che sono delle schiappe, ma non ci passo la mia giornata e la mia vita a farmene un problema, non mi ricordo neppure chi sono quelle persone, perciò suppongo di non essere io stessa un problema per il prossimo. Si viene sempre giudicati per qualcosa e questa è la cosa meno importante per me.

Rompere le abitudini, sfidarsi ogni tanto. Per fare grandi passi, bisogna cominciare da quelli piccoli e che ci sembrano insignificanti. Un passo alla volta.
E' proprio vero che la felicità bisogna crearla in noi senza aspettare e dipendere dagli altri. Io sono entusiasta di queste piccole novità.

Ho letto da qualche parte che la vita non ci da quello che vogliamo, ma quello che siamo.

Ecco perché mi sveglio al mattino e voglio sorridere di me, e a me stessa, prima che al mondo. Voglio tanti motivi per cui sorridere e ridere dalla mia vita, è difficile, davvero difficile. Ma dai, provateci anche voi!




mercoledì 15 aprile 2015

Favole e nuvole

Oramai è un anno che sono qui. 

Mi dicevano che sarebbe stato bello per gli spazi, l'indipendenza, per la libertà e altre cose. Non potrei più tornare a casa dai miei se non fossi in gravi difficoltà, anche se quando stavo da loro, tutte le cose per cui mi consigliavano di andare a vivere da sola, non mi mancavano o non erano un grosso problema. 
Per gli orari facevo già quello che volevo, dormivo fuori senza preavviso, entravo e uscivo e per il discorso economico, contribuivo in famiglia, non sono mai stata una mantenuta. Con la vita che faccio poi, stavo poco a casa e capitavano pure giorni che incrociassi appena le persone che vivevano sotto il mio tetto.

I primi giorni nel mio nuovo appartamento scoprii però una cosa che non sapevo mi mancasse davvero tanto: la libertà di piangere. Vivere da soli, o in compagnia di qualcuno con cui stai bene e puoi essere te stessa al cento per cento, comporta soprattutto questo. 
Salivo velocemente le scale, aprivo la porta, mi chiudevo a chiave dentro e scoppiavo a singhiozzare. Erano lacrime liberatorie. Subito dopo mi sentivo spossata ma anche più leggera. Avevo gli occhi come ripuliti, un sorriso più sincero, una speranza nel cuore. Nelle settimane successive, capitavano dei momenti, quando ero in giro, di sentire il bisogno di tornare a casa per sfogarmi nella mia solitudine. Una cosa che per anni e anni non avevo potuto fare.

Alla gente piace il volto positivo, che non crea problemi. Al lavoro non posso piangere, con tante mie amiche, mi rendevo conto che dovevo fingere, tornata a casa poi, una volta, con mia madre, mio padre e  mio fratello che mi avrebbero sentita in qualsiasi stanza fossero stati, per non ricevere domande, a volte affondavo il viso fra due cuscini, sotto le coperte, chiusa in camera, e mi lasciavo andare a qualche singhiozzo soffocato, ma nulla di più. A volte piangevo quando guidavo, l'unico momento di libertà. Ma non in città, solo in tangenziale o in autostrada, perché ferma ai semafori non volevo che mi guardassero.

Potere stare male, poter toccare il fondo.
Questa fu la vera libertà.

La scelta dei copriletti, di come disporre le cose, gli esperimenti fra i fornelli, invece, erano lati divertenti della nuova vita, ma non così essenziali per me, per stare bene. 

Mi viene in mente una mia vecchia compagna dei sedici anni. Quel giorno stavo male, davvero male e scoppiai in lacrime, ne avevo bisogno. Lei gridò: "Non ti voglio vedere piangere! Non piangere! Devi sorridere". Erano buone intenzioni? Non saprei, lei me lo impedì per davvero. Io se fossi stata al suo posto avrei fatto il contrario, avrei abbracciato la mia amica e le avrei detto semplicemente: "Sfogati". Poi me ne sarei stata in silenzio, facendole solo sentire la mia presenza.

Fatto sta che non molto tempo dopo lei non si rivelò per nulla amica, perciò non credo ci tenesse veramente a me neppure quel giorno.

Il monolocale in cui vivo non è grande e i mobili sono modesti, ho cinque tazze tutte diverse, quattro piatti e qualche bicchiere. Va bene così, se avessi più stoviglie non saprei dove metterle. Non mi lamento, sono contenta delle mie piccole conquiste. E mi sento serena a vivere senza il timore che i ladri mi entrino in casa e mi portino via tutto, perché qui non c'è nulla da portare via.

I piatti stanno sempre lì a scolare anche quando sono asciutti, perché per farci stare tutti i miei vestiti... ho dovuto invadere anche qualche mobile della zona cucina. Non ho altri posti dove riporre quei quattro piatti.

Ho solo una scarpiera, le altre tre stanno dai miei. Il che vuol dire che tengo un terzo circa delle mie scarpe all'occorrenza. Quando le stagioni sono definite va pure bene, mi prendo le calzature invernali che uso maggiormente col freddo e in estate faccio il cambio, il problema sono quelle strane temperature della primavera e dell'autunno: quando indosso ancora stivali sotto i vestitini ma inizio con scarpe o sandali già aperti sotto i jeans. In queste circostanze mi servirebbero tutte le mie scarpe, allora capita a volte che, dopo essermi vestita, scopro di non avere quelle adatte che credevo di avere, perciò mi cambio, oppure corro dai miei a prenderle.

Qualcuno potrebbe trovare tutto ciò una seccatura, io lo trovo divertente.

Non ho qui la mia collezione di saxofoni, ho preso con me solo qualche libro, qualche cd. E' rimasto quasi tutto là, anche il lucido e scuro pianoforte in sala, quello che un tempo mia madre chiuse a chiave per mettermi in punizione, e nessuno usa la mia vecchia stanza, la considerano ancora mia perché ci torno per esercitarmi.

Se non hai nulla, non puoi perdere nulla.

Tutto sommato, le persone che non hanno nulla da perdere sono quelle che vivono senza paure.

Ho portato via solo il mio pianoforte digitale che acquistai a rate e la chitarra che non so suonare. Il pianoforte è sotto la finestra, quando suono vedo il cielo e i rami. La chitarra è un vecchio cimelio, la suonava mio padre. Ho un pupazzo a forma di tartaruga che mi regalò mia madre al venticinquesimo compleanno, dopo anni e anni di libri, enciclopedie ed atlanti fin da piccola. Chissà perché mi regalò un oggetto così infantile. Le enciclopedie e gli atlanti non ricordo se li ho ancora, questo amico peloso invece mi guarda ancora in silenzio dal divano.

Questo è ciò che penso del mio primo anno. 

Resoconto? Ci sono stati alti e bassi, come l'inverno scorso quando facevo saltare la corrente più volte perché non avevo imparato a gestire gli elettrodomestici... per esempio, che dovevo spegnere il boiler dopo la doccia, prima di accendere il phon, e magari non cucinare proprio nello stesso momento, ma dopo due volte a dicembre che con i capelli bagnati, nuda, in accappatoio sotto e cappotto fuori mi ritrovai col buio ad uscire per riattivare la corrente, non me lo scordai più. Oppure le volte che con la febbre stavo a letto tremante, e non c'era nessuno da chiamare dalla stanza per farmi portare acqua o la minestra pronta. 

Beh, si cresce.

Però ho avuto anche momenti lieti, come il mio primo alberello di Natale, o tutte le volte che ho cucinato con e per amici e persone care. Lo facevo già dai miei ogni volta che andavano in ferie: era il momento di invitare cavie per fare assaggiare gli esperimenti culinari. Mi divertivo tanto. Oggi mi piace farlo anche per me.

Sono invecchiata di un anno, ma più in quest'anno che nei precedenti. Sono caduta diverse volte. Ma oggi sono qui e non guardo davanti a me, non so cosa osservare. 
Osservo invece il cielo e le nuvole. Quando sto a letto al mattino le vedo dalla finestra. 

E' bello poterle osservare anche così.






martedì 14 aprile 2015

Di nuovo.

Il segreto dell'indomani, è alzare lo sguardo al cielo ed accorgersi che l'inverno è passato. Torneranno altre primavere, diverse, strane, nuove.

La vita.


venerdì 3 aprile 2015

Curriculum discorsivo (studi)

Dalle persone, di solito allievi e amici, spesso mi vengono rivolte domande di curiosità riguardo al mio rapporto con gli strumenti e il mio lavoro, mi chiedono a quanti anni ho cominciato, cosa ho iniziato a suonare per prima, quale strumento preferisco, perché ho scelto l'uno anzichè l'altro. Dove ho studiato.

Sul mio sito c'è un curriculum con le informazioni che servono, ma non è molto personale, così ho deciso di rispondere alle domande creando questo post, una sorta di curriculum discorsivo, spiegando come, quando e perché e tutte le curiosità su di me.

Ho iniziato a otto anni, fu mia madre a scegliere per me il pianoforte. A quell'età, a meno che un bambino non si mostri molto propenso o interessato ad uno specifico strumento, di solito sono i genitori a sceglierlo. 
Scavalcai i canonici sei mesi di solfeggio, secondo il metodo di allora, perché sapevo già solfeggiare, avendo mia sorella maggiore in casa che già suonava.
Non fui un'allieva diligente, dovevano obbligarmi o persuadermi per farmi venire voglia di esercitarmi, non perché non mi piacesse la musica, ma perché preferivo giocare ed ero piuttosto distratta. Giocare mi piace tutt'ora, e lo ritengo un grande vantaggio: sapersi divertire è una qualità che si perde crescendo, mentre sarebbe prezioso non dimenticarsene. Per questo, ai genitori che si preoccupano perché il figlioletto non si esercita con la musica, dico di solito che non vuol dire che non sia portato o che non gli piaccia, non si tirano conclusioni affrettate, magari ha bisogno di più tempo per maturare il senso di responsabilità e di impegno. 

A dieci anni smisi con le lezioni, in quegli anni di "pausa", fui io stessa a prendere gli spartiti che mi piacevano e ad impararli da sola, senza che nessuno me lo dicesse: bisognava solo leggere le note e mettere le dita giuste sul tasto giusto, nel momento giusto. 
Ricordo ancora oggi un episodio: mia madre per punizione per qualcosa che non avevo fatto, chiuse a chiave il pianoforte per una settimana, perché a suo dire trascuravo i miei doveri per la musica. Un giorno in sua assenza però, entrai in camera sua a trafugare e la trovai, e per tutto il periodo di punizione suonavo lo stesso di nascosto, tenevo d'occhio l'orologio e rimettevo la chiave nel nascondiglio prima che tornasse. Questo per dire che, anche se non me ne rendevo conto, dovevo suonare proprio tanto o dimostrare che mi piaceva, se la punizione colpì proprio questo punto!

Il saxofono iniziò a piacermi verso i nove, dieci anni. Lo vidi in un cartone animato. Un giorno arrivò a scuola, ero alle medie, un volantino della banda del paese dove pubblicizzavano i loro corsi e chiesi a mia madre di iscrivermi. All'inizio ero indecisa fra il flauto traverso e il sax, alla fine scelsi il secondo. Non fu un'iscrizione semplice. La banda obbligava a tutti un anno di solo solfeggio prima di toccare gli strumenti, io avrei voluto iniziare subito e non aveva senso farmi cominciare daccapo: dopo due anni di pianoforte la musica la leggevo. Ero insofferente, svogliata e bruciavo sempre le lezioni.

Questa mia esperienza negativa ha avuto ripercussioni sul mio ruolo d'insegnante: da quando ho iniziato ad insegnare, non seguo un percorso e un metodo standard per tutti, solo perché qualcuno ha deciso la regola: se un allievo si mostra avanti, già capace o più sveglio, lo spingo ai livelli successivi, perché mi ricordo la mia frustrazione da bambina: la voglia di imparare e un freno insensato imposto. Se sono sotto ad un direttivo scolastico con delle regole, sono io a far presente che quell'allievo è in grado di saltare delle tappe e insisto perché i tempi vengano accelerati.

La banda non volle farmi suonare il sax: nelle loro intenzioni, dovevo iscrivermi a clarinetto, dissero che non avevano più sassofoni. Io odiavo il clarinetto, ancor oggi fatico a suonarlo. Comunque non ho mai preso una lezione di clarinetto in quella banda. Supplicai i miei di comperarmi il sax, e non fu un ostacolo semplice. Superata con fatica il problema strumento, mi informai tramite gli altri allievi della banda sugli orari degli insegnanti, e andai a parlare direttamente con quello di sax, portando con me già la preziosa valigia con il luccicante strumento, per dirgli che volevo iscrivermi al suo corso e non a clarinetto, scavalcando il direttivo e tutte le persone che mi ostacolavano. Avevo quattordici anni. Erano quattro anni che lo desideravo tanto. Ecco: il sax è lo strumento che io ho scelto, il secondo strumento che ho cominciato a suonare dopo il pianoforte, che nel frattempo non avevo mai smesso.

Perché il conservatorio? Ci sono finita di mia iniziativa, i miei non c'entrarono. Ma fu a causa di un motivo economico: mio padre, architetto in proprio, ebbe un problema di cataratta agli occhi, non potè lavorare per molto tempo, dovevamo tirare la cinghia e io avrei dovuto abbandonare le lezioni di sax. Nel frattempo ci trasferimmo in città. Pensai ad una soluzione e sapevo che a quei tempi il conservatorio era una scuola statale, con tassa d'iscrizione annuale pari alle scuole superiori. L'unico problema era l'accesso a numero chiuso. Chiesi ed ottenni da mia madre un'unica possibilità: sei mesi di lezioni mirate in un'accademia piuttosto costosa, che avrebbe dovuto prepararmi per l'ammissione, se avessi superato, avrei potuto continuare a studiare, altrimenti, avrei smesso.

Ecco perché ci sono finita. L'ambiente non era per me: troppo inquadrato, troppo retrograda, troppo accademico, ma potevo studiare musica solo lì. Il genere non mi piaceva, ero un pesce fuori d'acqua. Mi sentivo umanamente, terribilmente sola. Ad esempio: ogni anno venivano buttati fuori o si ritiravano in massa studenti per far spazio a quelli nuovi. Io mi affezionavo tanto e sempre ai miei amici, e ci impiegai anni ad imparare a distaccarmi, ad abituarmi al malessere che provavo ad ogni rientro a settembre, quando scoprivo chi se n'era andato. Dei quattro che entrammo, nell'anno della mia ammissione, io arrivai da sola alla fine. Gli altri si persero. Il conservatorio fu una delle cause scatenanti della mia depressione. Una cosa positiva ci fu: studiai pianoforte come materia complementare con una bravissima insegnante e, nonostante non fosse la mia materia principale, ricordo che spesso dedicavo molto piu tempo al piano che al sax. Ancora oggi ne conservo il metodo di studio che imparai in quegli anni da lei.

Dove ho studiato? Ho iniziato a Brescia, i primi tre anni con un insegnante, poi per due anni ne arrivò un altro. Dopo il quinto, decisi di ritornare con il primo, che aveva abbandonato la cattedra di Brescia per insegnare a Milano. Chiesi il trasferimento per seguirlo, ed è per questo che alla fine mi sono diplomata al Giuseppe Verdi e non a Brescia.

Mi diplomai nel 2001. Successivamente ci furono le nuove riforme scolastiche, quelle che fecero diventare le università il 3+2 che abbiamo oggi e rivoluzionarono i titoli di studio delle accademie delle belle arti e dei conservatori. Decisero che il diploma musicale del vecchio ordinamento, se accompagnato da diploma di maturità, era da equiparare alla laurea triennale, e vennero istituiti i nuovi bienni di specializzazione, ad indirizzo a scelta fra jazz, strumentale o didattico per "completare" gli studi.
Io feci l'ammissione per quello strumentale. Per motivi dovuti a come far combaciare studio e lavoro, scelsi il conservatorio di Brescia, dal momento che ci vivo e lavoro. Era il 2008, e terminai nel 2011. Con questo nuovo titolo di studio sarei laureata in sax, come dovrei chiamarmi? Dottoressa saxofonista? Ah! No! Mi fa troppo innaturale, mi fa sorridere, e mi viene più logico dire che sono diplomata, piuttosto che laureata. Di università poi, sicuramente ci sono le tasse lievitate, per il resto, uno che suona, non cambia molto se è laureato o diplomato.

Fu durante il biennio che iniziai il clarinetto. A differenza del corso tradizionale, in cui le materie principali e complementari non si potevano decidere e scegliere, nel nuovo ordinamento, e quindi nel biennio, bisognava costruirsi il piano di studi personalizzato: con corsi obbligatori e corsi a scelta fra le varie discipline. Per esempio, fra la storia del teatro, storia del jazz e storia di qualcos'altro che non ricordo, io scelsi quella del jazz. Le materie strumentali comunque davano molti più crediti ed essendo io pigra ad aprire libri, scelsi il più possibile di suonare e di studiare meno materie teoriche. Non presi mai di mia spontanea volontà in considerazione il corso di clarinetto, che non era obbligatorio ma considerato strumento affine al sax. Frequentai tutti i corsi di pianoforte: fu una sperienza molto utile il corso di accompagnamento pianistico, in cui mi ritrovai ad accompagnare altri solisti anzichè esserlo io, a differenza del solito.

Il clarinetto entrò nella mia vita in questo modo: insegnavo in una banda in cui aveva qualche allievo di sax e qualche allievo di clarinetto, non sufficienti per far venire voglia a due insegnanti diversi di venire per poche ore. Il direttivo mi diede il clarinetto in mano e mi disse che tanto erano simili, di imparare le posizioni, così mi avrebbero dato tutti gli allievi delle ance semplici. Io, che avevo bisogno di lavorare, presi la valigetta con quello strumentino nero dentro. Durante l'estate imparai da autodidatta, ma sapevo che per insegnare non bastava conoscere le posizioni, dovevo suonarlo. Così decisi di unire le richieste del lavoro con quelle del conservatorio e inserii nel mio piano di studi il corso di clarinetto come materia affine al sax. Per due anni studiai e diedi esami pure di questo strumento da cui ero scampata a quattordici anni, e al termine, una estate seguii un master con altro insegnante. Feci pure l'esame di ammissione per il corso principale di clarinetto in conservatorio, ma lo frequentai solo per un anno e poi decisi di non proseguire.

Ancor oggi lo studio più o meno costantemente per motivi principali legati al lavoro: in tutte le scuole in cui insegno, sono insegnante sia di sax che di clarinetto, quel corso al biennio mi ha dato più ore di insegnamento, perciò ritengo il  clarinetto una disciplina a cui devo applicarmi al pari delle cose che faccio più volentieri. Ed ecco raccontate le storie dei miei tre strumenti, come li ho iniziati e quali preferisco.

Il pianoforte è legato alla mia infanzia, non l'ho mai abbandonato, mi piace anche se non l'ho scelto io. E' stato il primo amore, il mio primo incontro con la musica. Il sax l'ho voluto fortemente con idee precise, con passione e desiderio, ma è anche il ricordo sofferto degli anni del conservatorio, dell'adolescenza. Delle sfide, le delusioni, degli studi forzati e degli scontri con gli insegnanti. Il clarinetto è stata una scelta razionale, legata a questione pratiche, tuttavia, ci sono giorni in cui mi piace abbastanza.

Credo con questo racconto di aver risposto a molte domande. Se avete altre curiosità domandate pure.

Sapete una cosa, la vita è ancora lunga, non è detto che io non inizi un quarto strumento, visto che me ne piacciono tanti. Per ora non mi cimento per questioni di tempo, ma la chitarra mi piace parecchio.
Chissà!


domenica 15 marzo 2015

Io e le bugie

Odio le bugie.

Le bugie, prima o poi vengono scoperte. Prima o poi, ma ricordatevi che il tempo restituisce tutto. 
Che senso ha mentire se comunque la persona ingannata prima o poi saprà la verità? 
Scoprire di essere stati ingannati è la peggiore delle sensazioni: si perde fiducia, credibilità. Si prova rabbia: è una presa in giro. La lealtà è la base della fiducia, e nessun rapporto senza fiducia può essere positivo. La fiducia va costruita e può essere persa. 
Non dite le bugie, dite sempre la verità, per quanto male possa fare.
E non esistono mezze verità: una mezza verità è una bugia. 

Le persone che dicono bugie, per mantenere la tesi, devono continuamente mentire su quella strada. Che razza di vita è? Eludere le domande, inventare scuse. E' da vigliacchi, certo ci vuole coraggio a guardare negli occhi ed ammettere la verità. Le persone che ricevono la bugia, sono semplicemente state ingannate, e parole come "protette", "risparmiate" sono solo scuse per i bugiardi, per sentirsi a posto con la coscienza.
Il punto è che chi mente, è solo un falso, un bugiardo. Io non voglio essere protetta se il prezzo è di non credere più nel protettore. Io voglio fidarmi. 

Sono stata educata fin da piccola a non mentire.

Benché i miei siano entrambi di istruzione medio alta o alta, in verità non ho mai subito forti pressioni per lo studio: arrivare al diploma di maturità era d'obbligo, ma non ho mai vissuto nel terrore di essere bocciata, non sono mai dovuta andare a scuola con la febbre, imbottita di medicine, se prendevo un brutto voto mi impedivano la televisione per un po', ma alla fin fine erano cavoli miei se invece di terminare le scuole in un preciso numero di anni ci avrei messo di più. 
Mia madre non voleva che ci ammazzassimo sui libri, voleva che facessimo altri corsi, tipo nuoto, musica, e con la bella stagione ci diceva di finire i compiti alla svelta e ci mandava all'aperto a giocare. Diceva che niente è impossibile, che se ci riescono gli altri comuni mortali, ci saremmo riusciti anche noi. Perciò se ci sono persone che oltre alla scuola si dedicano ad altre attività e riescono bene, è solo questione di organizzazione, non di intelligenza superiore.

Bene, nonostante ciò, nonostante la scuola venisse dopo la salute, fosse alla pari con il gioco, lo svago, le attività extra; nonostante abbia sempre fatto i compiti da sola fin dalle elementari e nessun genitore mi abbia mai seguito, noi sorelle non siamo mai state rimandate e, dopo la scuola, abbiamo tutte proseguito con gli studi. Però una cosa devo contestarla a mia madre: non è vero che non esistono persone di intelligenza superiore e altre inferiore... io ero per davvero, intelligente oltre alla media, nella mia classe e in generale. 

Però una cosa era importante: non si dovevano dire le bugie: crollava la casa. 

La verità non era mai così terribile.

Se una persona si veste male stai zitto: che cavolo le fai i complimenti se pensi il contrario? E' una bugia. Se te lo chiede dì la verità: dì che non ti piace, in fondo te l'ha chiesto. E' così terribile?
Se un bambino ti fa una domanda rispondi la verità, altrimenti crederà che la vita sia una cosa spaventosa se non ne si può parlare serenamente, crederà che i problemi non esistono e se ci sono bisogna fingere che non ci siano, che bisognerà sotterrarli sotto terra, fino a quando fra qualche anno la vita e la mente diventerà una pattumiera marcia di menzogne. Poi verrà tutto a galla. Prima o poi. 
E allora non si avrà mai imparato ad affrontare la vita.

Se una persona ti sta sulle palle evitala. Se non puoi evitarla non fare la bella facciata, sii almeno neutrale: conserva la tua dignità e coerenza. Credi di essere cortese, ma sei solo un falso. Se non vuoi farle un favore dillo chiaro. Anche l'attesa e le continue speranze deluse fanno male. Se fai il favore controvoglia poi non sparlare alle spalle però: è un problema tuo se non sai dire no.
Se ci sono problemi di coppia parlane, perché ingannare col silenzio?

Quanto odio le bugie. Odio le persone false: nessun titolo di studio e nessuna istruzione fanno una persona leale. Siete sicuri di poter dire di vivere senza aver nulla da nascondere? 

La mia essenza è qui: sotto la luce del sole.
E' la cosa che preferisco di me. Oltre alla mia intelligenza superiore alla media.


sabato 14 marzo 2015

Gli strappi

Il mio bisogno di ricordare, collegare e scrivere, è forse un modo per ricucire i miei strappi. Ne ho avuti tanti, nella mia vita. Ho lasciato tanti posti, tante persone.

Il primo, ad un anno, quando lasciai per sempre il mio paese. Mia madre racconta che mia nonna era innamorata di me, perché sembravo una graziosa bambolina giapponese e perché mi spaventavo facilmente. Nella culla, se qualcuno alzava appena la voce, mi tremava il mento e mi allarmavo. Allora la nonna raccomandava a  mia madre di essere molto delicata con me, diceva che ero molto sensibile. Che sarei stata una persona molto, molto sensibile da adulta. Quando andai via da Saigon, lasciai anche mia nonna e non l'avrei mai più rivista. Era un addio. Può un bambino di meno di un anno ricordare inconsciamente le persone, le sensazioni, la mancanza da un giorno all'altro di un adulto che lo proteggeva? Oggi che osservo le mie nipotine, dico di sì. 

Poi finimmo in Thailandia, a Tha Sala. Il sindaco del villaggio si affezionò a me: ero la più piccola e la più delicata dell'imbarcazione. Ero praticamente morta: mi davano pizzicotti e graffi e neppure reagivo. Può un bambino così piccolo rendersi conto di avere fame, freddo, paura e di non poter soddisfare i suoi bisogni primari di protezione? Ad un certo punto, non piangevo più per sfinimento, mi racconta mia madre. 

E così, mi ero rassegnata a morire. 

Forse, nella mia mente, pensavo che non ci fosse posto e tempo per me al mondo, altrimenti perché appena nata nessuno mi salvava? Mia madre dice che quando vennero i pirati, vollero gettarmi in mare per darmi agli squali, per farsi consegnare tutti gli ori, persino quelli dei denti finti, allora lei volle sacrificarsi al mio posto. A questo punto, mossi a compassione, ci lasciarono vivere tutti. Anche i pirati hanno un cuore davanti ai neonati!

Giunti casualmente e per sbaglio in Thaliandia, il sindaco, viste le mie condizioni, si diede da fare, fece venire medici, mi procurò da mangiare, da bere, le cure, e io, "resuscitai". 

Nacqui la prima volta a Saigon e la seconda a Tha Sala, e il mio nuovo nome fu proprio quello del posto in cui mi venne data un'altra possibilità di vita. Il sindaco disse ai miei che gli sarebbe piaciuto potermi adottare, che si sentiva mio padre, che se un giorno fossi rimasta sola e se avessero avuto problemi, lui era il mio secondo padre, di ricordarsi di lui.

Poi. 
Dovetti abbandonare pure quest'altro adulto che mi voleva bene e pure il mio secondo paese. Non ritornai mai neppure in Thailandia.

Dove sono nata io? 

Vissi qualche mese a Latina, poi a Cremona, e infine in provincia di Brescia. Tutto nel giro di pochissimo tempo. Quanti viaggi e spostamenti. Quante persone mi presero in braccio, cercando di non spaventarmi, persone da cui poi dovetti distaccarmi.

I traslochi dei miei genitori coincisero più o meno con i miei stessi cambiamenti scolastici: asilo in un paese, elementari e medie in un altro. Superiori e casa in città. Finiti gli studi, lavoro, e ci trasferimmo di nuovo. Strano. Perciò, cambiare compagni di classe, significava anche lasciarli per sempre, andare in un nuovo paese, in una nuova casa, cambiare vita, ricominciare da zero veramente.

Da piccola, io credevo invece che le cose durassero per sempre, ci speravo, invece no. Non vi era nessuna certezza.

Non avevo più rivisto Fog City da quando i miei mi portarono via. Non che sia un posto lontano, ma quella casa nascosta in campagna, in una bolla di nebbia, con la statale dai tramonti viola e rossi, i campi e i fossi, non l'ho mai più voluta rivedere. Stava in via San Giovanni, era gialla e ci vivevano quattro famiglie, la mia era la più numerosa.

Strappi.

Ho rivisto le mie scuole medie dopo più di vent'anni, qualche giorno fa. Ho rivisto le stesse strade e il supermercato che ora è chiuso e abbandonato. Mi sembrava più grande il giardino della scuola, invece era normale. Quelle strade: la mia casa distava tre chilometri dal centro. Un fine anno scolastico, era la prima media, i miei compagni organizzarono una cena in pizzeria, io avrei dovuto aspettare che tornassero i miei per farmi accompagnare, siccome ritardarono cinque minuti, mi avviai da sola a piedi. Ho ripercorso quella strada in macchina: era senza marciapiede e col fosso, e le macchine sfrecciano veloci, ora capisco perché mia madre si arrabbiava sempre quando non l'aspettavo (l'avevo fatto più volte) e gli altri mi dessero dell'incosciente. Non avevo paura, o meglio, pensavo che non avesse senso aspettare se potevo arrangiarmi da sola, forse non mi fidavo, forse ho creduto fin da piccola che se avevo fame e paura, se stavo male, dovevo ignorare me stessa per sopravvivere. Alla morte, ai pirati, agli strappi.


Quanti anni ho. Su di una pagina bianca, con il filo delle lettere nere, con una penna, ricucio gli strappi della mia vita. Rammendo il cuore, si fa così. E non ho il coraggio di tornare indietro, sono troppo stanca per cercare la verità. Questa è la mia persona: brandelli di patrie sconosciute e lontane, amici persi e ricordi sopravvissuti alle fotografie sbiadite. Promesse e parole sussurrate negli abbracci, non mantenute. 

Sopravviverò, che vuoi che sia. E' solo un ennesimo strappo.




giovedì 26 febbraio 2015

Progetti infantili

Quando ero piccola sognavo di scappare di casa. Credo che dipendesse anche molto dal fatto che in quegli anni c'erano tanti cartoni animati, con protagonisti piccoli, che vagabondavano per il mondo, come quello di Marco che cercava la mamma, Sandy Bell che girava col camper e scopriva tanti posti nuovi e interessanti (adesso che ci penso, non capisco come una quattordicenne potesse guidare un camper, e dove li trovasse i soldi per la benzina e per vivere), Remì che con un'arpa in spalle non aveva dimora e l'amico di Tom Saywer, mi pare si chiamasse Huck, che non doveva tornare a casa e viveva libero come il vento dell'est su di una zattera.

Che bella vita! Io sognavo di vivere così: coi cambiamenti, improvvisando ogni giorno, scoprire cose nuove, avere tanti amici, chiacchierare, senza il peso dei doveri, già da bambina mi sentivo soffocare dalla monotonia.

Ma forse i cartoni mi avevano solo risvegliato qualcosa che sentivo già, perché tanti miei coetanei con cui ho parlato, non pensavano fosse normale scappare di casa. Ho nitide quelle sensazioni e quei ricordi di me, piccola, davanti alla finestra, con la voglia, come un fuoco bruciante, di correre e correre fino a non riuscire più, e poi gridare con tutto il fiato in gola. Io soffocavo nel mio essere bambina e di dover chiedere i permessi per qualunque cosa.

Facevo accurati progetti: per esempio, ero abbastanza pratica da pensare che dovevo mangiare, così pensavo di suonare per le strade e di vivere con quei soldi. A me poi mangiare piace, perciò soldi ne avrei dovuti tirare su tanti! Il pianoforte non era comodo da portarsi appresso, ma il sax sì, solo che dovevo ancora averlo, e i miei non me lo volevano prendere, ma forse pure il sax era pesante, meglio il flauto: piccolo e di pochi grammi, però pure per quello dovevo convincere i miei, accipicchia, quanti ostacoli al mio meraviglioso progetto!

L' avventura, il divertimento e le novità erano le uniche cose in grado di smuovere la mia pigrizia, per il resto, non avevo voglia di sforzarmi troppo per nulla, a meno che non mi pagassero, ma da bambini bisognava fare tante fatiche a scuola e nessuno pagava, mondo ingiusto e crudele.

L'altra mia esigenza, che però faceva a pugni col progetto di fare la vagabonda, era che volevo essere sempre profumata e vestita bene, ma i vagabondi puzzavano, almeno quelli che avevo incontrato io, e questo era una cosa che mi bloccava, oltre alla mancanza del sax. Esistevano vagabondi vanitosi e narcisisti? Perché io vanitosa lo ero parecchio.

Forse avrei potuto fare la vagabonda chic: magari suonando per le strade avrei guadagnato così tanto da poter cambiare albergo ogni sera, fare il bagno in vasche piene di bolle profumate e dormire in lenzuola di cotone egiziano! Ma come potevo trascinarmi appresso tutti i vestiti e tutte le scarpe?
Dilemma degli undici anni!

Il mio cuore era un focolare caldo, ma la mia mente scalpitava come un arcobaleno nomade. Ancora oggi sono divisa in due così.
Non riesco a spiccare il volo senza la sicurezza di poter tornare in un nido. Un unica radice, un miliardo di rami verso il cielo.

Oggi, amo viaggiare con pochi bagagli, ho sempre pensato: zaino in spalle e avventura! Autostop, treni, camminate. Zaino leggero per riempirlo di ricordi ed esperienze. Autostop? Che paura, meglio di no. 
Mi piace sentire la pioggia e il vento su di me. Mi piace sdraiarmi direttamente sull'erba, sulla sabbia, giocare fra i sassi. Sento riaffiorare dal passato quell'indole selvatica che fatico a zittire. Ma poi, da sola mi sento troppo sola. Mi mancano i miei sogni a casa, le strade familiari, la musica malinconica, il profumo di muschio bianco, le letture e un letto in cui fantasticare fino le undici del mattino.

Io credevo che, siccome volevo scappare di casa, anche gli altri lo volessero. Chiesi a non meno di dieci amichette e amichetti di scappare con me, ma tutti avevano paura, quelle mezze calzette!

Quanta irrequietezza che avevo in me. Sarei stata abbastanza sventata e incosciente da fare cose in grande, da passare all'azione, fregandomene della morale e dei doveri che, a dire il vero, risvegliavano il mio gusto di fare bastian contrario. Una pazzoide.

Sapete cosa mi trattenne dallo scappare? La sensazione di abbandono, di abbandonare qualcosa, e quell'immagine di mia madre in cucina che preparava la cena. E poi il freddo in inverno!
La mamma.

Forse, in fin dei conti, ero una bambina come tutti gli altri.



domenica 22 febbraio 2015

Le bambole di Alice V - La famiglia Blanchard

Nota:  I racconti qui pubblicati sono inediti  ed interamente ideati e scritti da Thasala Phan, a cui appartengono tutti i diritti (vedi nota in fondo alla pagina). Alcuni luoghi citati, i personaggi e le trame sono frutto di sola fantasia. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


*** 


Nell'estremo Oriente, negli anni Cinquanta, accadde un fatto inquietante. Questa storia mi è giunta alle orecchie da fonti certe e so che è vera, tutto quello che scriverò qui non l'ho inventato io.
Si tratta della storia di una splendida dimora in campagna, costruita nell'Ottocento, durante le colonie europee. La prima famiglia in cui la visse fu composta da un unica figlia e da una numerosa servitù inglese. Spiccava in uno di quei posti verdeggianti, con le ombre e le cascate a cui aspirano tanto i turisti. Una villa isolata dal mondo e disabitata.

Gli abitanti del posto hanno una particolare abitudine legata alla magia bianca: quando cambiano casa e vanno a stare in una nuova abitazione, accendono l'incenso, preparano il riso e fanno donazioni di frutta, fiori e pregano gli Dei, affinché il luogo venga benedetto e che non accada a loro nulla di male. Questo rituale allontana le forze negative e in Oriente tutti sanno che non bisogna scherzare con i poteri contro cui non sappiamo dominare. E' necessario allearsi con gli spiriti buoni e chiedere il loro aiuto per rimanere protetti.

Le leggende dell'epoca raccontavano che, nonostante la sua bellezza, quella villa fosse disabitata e che nessuno volesse viverci. Quelle rare e brevi volte che qualcuno ci aveva messo piede, si ammalava inspiegabilmente fino ad arrivare alla morte, e nessun medico era riuscito a capire che malattia fosse. Accadde pure però, che certi che si ammalarono, guarirono appena vennero allontanati dalla casa.

Un giorno una coppia di marito e moglie occidentale, decise di acquistarla e di venire a vivere con i dieci figlioletti, dai cinque ai diciotto anni, tutti biondi. L'agente sembrava avere fretta di concludere il contratto e di allontanarsi il più alla svelta possibile, oltretutto il proprietario non si fece mai vivo per la vendita, ma la famiglia Blanchard era troppo entusiasta del posto per porsi domande.

Le voci nel villaggio giravano, e giù nella locanda non si parlava di altro, sussurrando, con terrore, cose che non dovevano essere risvegliate.

Capitò un giorno, durante il trasloco, che un viso scuro con due stretti occhi orientali celati da lunghi ed arruffati capelli neri, si avvicinò al signor Blachard e gli disse:

- Benedite la casa, ma occorre uno potente, non potete farlo voi, vi posso aiutare.

Il signor Blanchard era un uomo gentile, ma era abituato alla sua cultura d'origine e non credeva in queste cose. Rispose allegramente:

- Oh! Siete di qui? Siamo contenti di fare amicizia con qualcuno del posto. Grazie, ma non credo abbiamo bisogno di riti e magie.
- Vi prego, mi sembrate brava gente. In questa casa sono morte delle persone. 
- Eh! Accade, ma se nessuno più occupasse case in cui sono decedute persone... il mercato immobiliare chiuderebbe non le pare? 
- Non bisogna scherzare con gli spiriti. Nessuno è mai riuscito a capire come siano morte.
- Accidenti! Che sfortuna! - disse allegramente Blanchard. Aveva occhi chiari, ridenti e barba e baffi biondi - ma stia tranquillo, saranno stati casi, a noi non succederà niente. Venga pure a trovarci!

L'uomo dalla pelle scura e gli occhi stretti e a mandorla si allontanò scuotendo la testa.

Nel giro di qualche mese, la casa fu pronta e la famiglia europea venne a vivere in quell'angolo di paradiso. Avevano una bella macchina lussuosa e lucente e il signor Blanchard viaggiava tutti i giorni per raggiungere la capitale e occuparsi di affari. La signora Blanchard era una graziosa mogliettina affezionata al marito e alla famiglia, ogni mattino accompagnava i figlioletti a scuola, poi tornava a casa a sbrigare le faccende, a cucinare e ad aspettare la sera il ritorno del marito. 
Per qualche tempo tutto sembrò andare bene. Il più grande era all'ultimo anno delle superiori e sognava di diventare avvocato. La dolce Isabelle rallegrava la casa con delicate melodie al pianoforte, i più piccoli correvano giocando felici nel giardino. Il tranquillo Robert passava invece le giornate all'ombra dell'albero a divorarsi i suoi amati libri.

Dodici persone. Se ripenso a quello che poi successe ad ognuno di loro, mi vengono i brividi. Non sono stata in quel posto e non c'ero in quegli anni, eppure io oggi ho paura a raccontare, la stessa paura che ho letto negli occhi di chi a sua volta mi raccontò, sussurrando, e poi non volle mai più parlarne. Ci sono cose che non vanno risvegliate, ma è necessario mettere in guardia, affinché non vi siano altre vittime innocenti.
Andiamo avanti.

Successe per primo al più piccolo, e fu come gli altri casi: si ammalò improvvisamente ed inspiegabilmente, non volle nè mangiare, nè bere, entrò in coma, e nonostante l'intervento di medici occidentali ed orientali giunti pure dall'Europa, i signori Blanchard gridarono dalla disperazione al capezzale del piccolo morto.

Tempo dopo capitò anche, ad uno ad uno, agli altri membri. Tutti con la stessa dinamica. Il figlio maggiore, poi la dolce Isabelle, la piccola pianista, pure Robert, il sognatore poeta.
Il signore Blanchard, distrutto e senza più forze, pensò di non abitare più in quella villa, e ricordò le parole di quello strano uomo scuro. Ripensandoci, quelle misteriose pupille iniettate di nero lo rabbrividirono. Tuttavia andò a cercarlo in paese ma nessuno sapeva di lui.

Erano rimasti solo la moglie e quattro dei dieci figlioletti. 

- Dobbiamo scappare di qui! - dissero i signori Blanchard, ma la sera in cui si prepararono a spostarsi in un albergo, la signora cadde in trance. I medici la misero subito a letto: aveva gli occhi splancati, terrorizzati, la bocca aperta come a volere gridare qualcosa senza riuscirci. Fissava il vuoto, il sudore le impregnava la fronte e i capelli spettinati. Con un dito tremante cercò di scrivere qualcosa nell'aria. 
I bambini piangevano e si abbracciavano. Terrorizzati. Oramai era una famiglia distrutta.
Il signor Blanchard non volle che videro la mamma con quel volto agghiacciante.

- Emilie, fatti forza, ora ce ne andiamo via di qui, ti scongiuro - le diceva al cappezzale.
Il primo ospedale era troppo lontano. La signora Blanchard morì il mattino dopo. Non fecero in tempo a scappare da quel posto.

Il mattino seguente il signor Blanchard portò via immediatamente i quattro figlioletti rimasti e questi, assieme, a lui, furono gli unici a salvarsi da tutta quella storia.

Il giorno del funerale della moglie, in disparte ed invisibile, il signor Blanchard rivide lo strano uomo scuro del primo giorno. Aveva un volto indecifrabile.

Lo avvicinò: - Non vi avevo voluto credere, ma avevate ragione, quella casa è maledetta.
L'uomo dagli occhi stretti e neri fissò Blanchard in volto: rispetto a mesi prima, il suo sguardo azzurro e sereno era scomparso, gli occhi erano rossi, il volto segnato e le rughe lo invecchiavano, come se di colpo avesse vissuto trent'anni in più.

L'orientale annuì: - E' necessario chiamare qualcuno potente, un'esperto di magia bianca e nera.
- No - disse il signor Blanchard - la casa è di mia proprietà, ho deciso di farla abbattere. Ha ucciso delle persone. Sapete, quella notte, mia moglie tracciava continuamente la lettera "A" nel vuoto. Era l'unica cosa che riusciva a fare. Ma non fu in grado di spiegarmi altro. E' un falso paradiso, è maledetto! - gridò con rabbia.
- Signore, la casa decide, è più forte di voi, di me, potete farla abbattere, ma lasciatemi chiamare ad assistere un esperto il giorno in cui accadrà. Non rimanete soli di fronte all'ira della casa, quando verrà distrutta.

Il signor Blanchard non aveva più nulla nella sua vita. Non aveva creduto una volta, non voleva più commettere lo stesso errore e acconsentì.

La cosa inspiegabile, dopo, è che pure i bambini in albergo si ammalarono e sarebbero morti pure loro, ma qui accadde la parte del racconto più strana.

La casa fu abbattuta, e venne un monaco a guardare il lavoro.
Quel giorno ritrovarono nascoste, cementate dentro le mura, dodici bamboline in legno, ognuna riportante una data di nascita e una data di morte, che coincidevano con i dodici membri della famiglia Blanchard, e una lettera: "A".
Sette di questi avevano già adempito la maledizione: il giorno della morte previsto era lo stesso di quello poi accaduto, ma cinque dei membri sopravvissuti, il signor Blanchard e i quattro bimbi, si sarebbero potuti ancora salvare.

Il monaco osservò le bambole: - I bambini devono morire oggi. E lei, signore, fra un mese. 

Mi è stato raccontato che le bambole vennero bruciate e il suolo pure. Poi pregarono, pregarono per dodici giorni portando in dono al luogo distrutto ciotole di riso, frutta fresca, pesce. Misero una grande statua di un Dio pacifico e a turni anche gli abitanti del villaggio vennero a praticare il culto.

I bambini in ospedale, appena distrutte le bambole, si ripreso miracolosamente. Il signore Blanchard scampò alla sua morte stessa in tempo. La pioggia, col tempo, spazzò via la cenere delle bambole e delle mura. Dal suolo ricrebbe l'erba e spuntarono fiori. Ma da allora il luogo è rimasto disabitato e nessuno ha più costruito nulla. La famiglia Blanchard ritornò in Francia e il padre non tornò mai più in Asia.

Anni dopo, con l'avvento di internet, uno dei figli sopravvissuti, Richard, volle vederci chiaro e cominciò a viaggiare e ad avviare delle ricerche, ritornò pure sul posto e fece delle domande agli anziani del villaggio. Venne a sapere che l'unica figlia della prima famiglia che vi abitò, si chiamava Alice e aveva la passione delle bambole. Era una ragazza pallida e fragile di salute, morì giovane. Ma era anche un tipo strano: creava bambole vestite da sposa in nero, incideva il legno e non parlava con nessuno. La stanza in cui nelle mura vennero ritrovate le dodici bamboline, era la stessa in cui vi aveva vissuto rinchiusa lei e dove morì.
Ripensando alle lettere "A" incise sulle bambole ritrovate quel giorno e ai segni tracciati dalla madre, intuì che ci potesse essere un legame, che fosse una maledizione. Quello che ancora nessuno ha risolto, è come potessero essere cementate nel muro tanto accuratamente, e come potesse nell'Ottocento una ragazzina prevedere l'arrivo di una famiglia di dodici persone ed indovinarne la data di nascita, avvenuta poi in un futuro di cent'anni dopo.



Racconti indediti di Thasala Phan
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Fiaba

Il gigante e la bambina, nel giardino e poi addormentati vicino. L'uno accanto all'altra. C'erano fiori e c'era il sole nel giardino, ma da lì non sarebbero più potuti uscire.

Il gigante poi con un pugnale recide il fiore per salvare la bambina, che recisa non è più bambina e mai più sarà donna.

Le urla e la rabbia della gente che sale in difesa di lei, troppo tardi, non salvano il gigante.


Dolce fischiettìo di favola innocente. Che innocente non poteva essere vista. Il giardino non ha più fiori.

L'unico sbaglio è stato il tempo.
Ora giacciono lontani, morti entrambi.

sabato 21 febbraio 2015

Libro: "STANCO? Diari di quattro rinascite" di Simona Orioli (recensione).




Il fatto che il destino ce lo creiamo noi, oppure che ci sia già un percorso, è un quesito che mi pongo spesso.
Sono nata con la convinzione che "volere è potere" e, se venisse chiesto a mia madre com'ero da bambina, lei risponderebbe che ero una testa dura. Io quando volevo/voglio qualcosa ho sempre battuto il chiodo, con le buone o con le cattive, dietro le quinte o alla luce del sole, e di solito prima o poi raggiungo l'obiettivo. Essendo una pigra, tendevo a schivare gli scontri e spesso mi limitavo allegramente a fare quello che volevo, evitando la fatica, quando era possibile, di chiedere il permesso o di avvisare. Anche se le persone a volte pensano che ci abbia rinunciato, è solamente perché sto facendo una pausa.

Di solito raggiungevo l'obiettivo. Queste sono le due paroline chiave. Di solito.

Ho raggiunto un'età in cui la vita mi ha insegnato che non tutto dipende da me. Che a volte le cose non arrivano perché è meglio per me un altro percorso, e il non accontentarmi può essere un regalo divino. Ma preferisco pensare che arriverà tutto quello che desidero, solo con i tempi diversi, più dilatati, o con un ordine più creativo.

Per esempio, da piccola volevo tantissimi, bellissimi vestiti. Non potevo, ora posso. Volevo fare il conservatorio. Volevo fare la specializzazione, da sola e senza l'aiuto dei miei. Studiavo e lavoravo. 
Desideravo fare la barista. Poi la commessa e vendere vestiti. Poi di fare la segretaria. Poi di avere una macchina. Poi ho deciso di insegnare a tempo pieno. E dopo desideravo di riuscire ad arrivare ad uno stipendio decente per vivere da sola.
Ho fatto tutto quanto. Solo che quando volevo quelle cose, al momento non mi era dato modo di riuscirci. Non allora, solo dopo.

Nel frattempo, le deviazioni mi hanno permesso di conoscere alcune persone che mi sono rimaste amiche sino ad oggi, ecco perché non potevo raggiungere subito l'obiettivo, è stato un regalo per la mia vita il dover faticare un po'. Le deviazioni erano gli unici posti, gli unici ambienti in cui avrei potuto conoscere e sperimentare alcune situazioni necessarie per il mio bagaglio e per apprezzare e sapere gestire l'obiettivo raggiunto.

Diari di quattro rinascite è un libro che mi è giunto fra le mani con una certa casualità, ma nel momento in cui forse avevo bisogno di leggere alcune parole. Dice che noi siamo responsabili della nostra vita. Ecco.

- Dice il contrario di quello che dici tu - mi viene detto. Ho regalato una copia del libro anche a questa persona, scelta fra le sei a cui avevo pensato a Natale. Perché io oggi vengo vista un po' come una fatalista, una che aspetta, e non serve a nulla dovermi convincere che il destino ce lo creiamo noi, non ne ho bisogno. Io ho fatto il percorso inverso degli altri, non ho paura ad agire e a credere in me, la mia lezione di vita è di allentare la presa e credere di più nel destino, che non può che essere meraviglioso per me. Imparare ad osservare e ad avere più fiducia, anche nelle persone. Pensare con serenità che non tutto dipende da me. Che se a volte lascio fare agli altri, il risultato potrà essere anche migliore.

L'esortazione di dover credere in se stessi e di essere artefici della propria vita, è per quelle persone che hanno paura di lottare, di provare, di affrontare. Io no. 

- Io credo che ci sia un disegno, e in mezzo il libero arbitrio - rispondo. Il mio "creare il mio destino" oggi, non è più lottare fino a sanguinare contro gli eventi, ma cogliere il bello da quello che mi succede. Io scelgo se subire e soffrire, o creare e sorridere con quello che mi viene offerto al momento. E' difficilissimo, più difficile questo per me, che fare qualcosa.

STANCO? Diari di quattro rinascite di Simona Orioli.

Simona Orioli era una mia vicina di casa, nonché compagna dell'asilo. Aveva un anno in più di me, me lo ricordo, perché quando si è piccoli, il bambino più grande di un anno, è molto più grande!
Poi c'era l'altro bambino sempre vicino di casa e che veniva nello stesso asilo, Alessandro.

Io mi trasferii a Fog City verso i cinque anni e frequentai l'ultimo anno di asilo lì. Perciò ci perdemmo di vista molto presto.
Nella mia vita, se oggi mi viene chiesto chi ricordo degli anni all'asilo, rispondo "Milena", una bambina bionda di Fog City, la suora Maria Rosa, perché era quella che mi prendeva più spesso in braccio, Simona e Alessandro, quest'ultimo perché i nostri genitori rimasero in contatto. Ma Simona, non so perché. Ci sono diverse foto di gruppo dell'asilo e c'è lei.

Un giorno mi chiese l'amicizia su Facebook e ci scambiammo qualche saluto. Mi disse che il sax era proprio un bel strumento. Mi comunicò che aveva scritto un libro che sarebbe uscito sotto Natale. 

Ci rivedemmo dopo anni, alla presentazione del suo libro, al Palazzo Novello di Montichiari, una domenica pomeriggio di dicembre per un allegro tè.

- Ognuno può interpretare in maniera diversa quello che legge - mi ricordo che disse.

Comperai sei copie senza averlo ancora letto, perché intuii che poteva essere un libro che avrebbe aiutato alcune persone, che c'erano argomenti che volevo condividere con chi mi sentivo in sintonia, e perché era corto, perciò anche quelli che non amavano leggere, potevano leggerlo in qualche ora.

- Sono quattro diari, consiglio di leggerli proprio nell'ordine - disse, mentre Viola, la sua bambina, correva qua e là.
- Guarda l'immagine di copertina - presentò.

Ho qui il libro mentre scrivo. Guardo la fotografia della copertina. C'è un lago in tempesta. Mi viene da pensare al lago di Garda. L'ho visto rabbioso, l'ho visto cupo, ma anche sereno, tranquillo e accomodante. Non ho mai pensato che il lago o il mare potessero essere sempre tranquilli o sempre agitati. E' facile pensarlo per la natura, è altrettanto semplice applicare questo concetto alla vita? Io non riesco ancora pienamente. E' una cosa teorica che so, ma ho ancora bisogno di aiuto per ricordarlo. 
Così ripenso al quarto diario: Il riflesso di un lago in tempesta, l'ultimo, quello in cui riassume e svela chi sono i tre protagonisti dei precedenti diari. Parla di trasformazione, di gratitudine. Infonde speranza e coraggio di guardare i cambiamenti e di apportarli nella propria vita.

Se sei stanco del lavoro, se stai soffrendo. Hai il potere di non continuare su questa strada. E' il riassunto di Simona. Se lei ce l'ha fatta, vuol dire che tutti possono.

Il diario che mi ha colpita di più, però, è: Come i campi di grano, il terzo. Forse perché da adolescente ho sentito anch'io il desiderio della protagonista, lo stesso dolore, ma la mia vita non proseguì con lo stesso risvolto. Anche se descrive una ragazzina, gli adulti si ritrovano spesso nelle stesse tentazioni e sofferenza. Qual è la vostra scelta? Da dove prendete il coraggio di proseguire verso un'azione o l'altra? Cosa decidete di fare? Di imparare la lezione o di posticiparla in un'altra vita? 

Tu sei la tua casa è il primo diario. Un lungo viaggio onirico e simbolico che porterà il protagonista alla rinascita, ma per arrivarci dovrà cadere, conoscersi, affrontarsi, prima di rialzarsi. Mi fa pensare alle apparenze. 

- Hai fatto il conservatorio per fare la commessa? - mi dicevano i primi tempi, dopo gli studi. Eppure, quello, per un po', fu il periodo più sereno della mia vita. 

Sono stata un'adolescente indisciplinata e spontanea, cresciuta con insegnanti che mi dicevano: "Sei superficiale", squadrata male per i corridoi del conservatorio a causa dei miei vestiti stravaganti, le gonne corte, le calze a rete. Persino il bidello mi disse che io ero lì per sbaglio.

Tutto ciò mi faceva male, avevo sedici anni. Io ci credevo in quello che dicevano. Che ero sciocca e superficiale. Mi impegnavo come potevo, rinunciavo alle vacanze perché avrei disturbato, il sabato e la domenica non andavo mai via tanto per potere esercitarmi tutti i giorni. Ho rinunciato a tante attività dei miei coetanei, chiusa fra quattro mura a suonare, mentre desideravo con tutte le mie forze andare all'aperto e liberarmi dagli obblighi e dai doveri. Amavo suonare, ma ero anche una "frivola socievole", l'apparenza infastidiva i vecchioni accademici e i figli di papà. Ero troppo timida per sbilanciarmi ed essere carina con gli insegnanti. 

Quando finalmente riuscii a diplomarmi, sentii come un grosso peso ruzzolare giù dalle scale: avevo ventidue anni, dopo tanti anni, non avevo più l'obbligo di dover suonare musica che mi faceva schifo, tutti i giorni, non interagendo e parlando con nessuno, da sola nella mia stanza, non dovevo più rispettare un programma ministeriale, gestire la competizione.

Mi piaceva scegliere gli abiti e vestire i manichini nelle vetrine, sotto Natale poi, luccicava tutto. Potevo liberare la fantasia e la femminilità. Parlavo con le clienti. Avevo il mio primo stipendio, durante il lavoro chiacchieravo con le mie colleghe, e quando tornavo, se ero stanca, non dovevo per forza montare lo strumento per studiare musica che odiavo e che non avevo scelto. Potevo uscire con le mie coetanee.

- Non penserai di stare lì per sempre vero? Con tutta la fatica che hai fatto e i soldi spesi.

Io in quel momento ero felice così, era un recuperare la mia adolescenza perduta. Ma avere a che fare con le apparenze e le aspettative era dura. Come il protagonista del primo diario. Non fu facile per me. La gente si aspettava altre cose e il vedermi in un negozio a mettere via i vestiti provati dai camerini, la vedeva come un mio fallimento. Thasala una fallita.

Come la mia amica che ora insegna lettere per fare felici i genitori mentre desiderava fare l'Isef. Perché insegnare lettere per loro era più dignitoso. Ma lei non è felice ogni mattina di svegliarsi e di fare il suo lavoro. Qual è il vero fallimento?
Eppure, siamo noi a farcene un problema, o sono veramente gli altri? Siete voi la vostra gabbia dei giudizi o sono gli altri che vi ingabbiano? Cosa vi impedisce di aprire questa gabbia e di prendere il volo? Avete le capacità di cambiare, di essere più forti dei giudizi e delle aspettative e di amare voi stessi veramente?

Leggete il primo diario.


Il mio nonno è morto da qualche mese. E' andato via nel sonno. In questo periodo affronto spesso il tema della morte, anche un mio vicino è andato via giovane, nel giro di venti giorni, e pure il mio cagnolino che venne qui, piccola come un battufolo.

Cos'è la morte? Tutti moriamo, ma allora cosa è servito vivere e soffrire? Forse la differenza sta in quello che si è fatto e provato in vita, in quello che si ha imparato. Nonostante le sue esperienze negative, in punto di morte, il protagonista del secondo diario, Quello che non ho, è quello che sono, riesce a rivedere nei suoi ultimi istanti la bellezza di quello che la vita gli aveva dato e che non aveva colto. Tuttavia riuscirà a fare pace con se stesso, e la sua vita non sarà sprecata. Ha imparato la lezione d'amore.

Il libro conta novantanove pagine, con un linguaggio fluido e diretto, l'ho letto in circa due ore. L'ho regalato ad alcuni amici importanti e a mia sorella. A mia madre è piaciuto tanto e l'ha finito prima di me. E' come un piccolo seme che in alcuni terreni farà sbocciare un fiore, in altri ci vorrà più tempo, e in altri forse non servirà a nulla. A volte ci vorranno più letture. Nei momenti di stanchezza, potrebbe essere utile rileggere qualche pagina che in passato ci aveva suggerito qualche fantasia.

Non basta un libro a cambiare la vita, non lui da solo, dobbiamo essere noi, il terreno, a sapere cogliere il messaggio.
Ma l'importante è donare quello in cui si crede, e io credo sia un piccolo, importante dono da parte di Simona, l'averlo scritto.

Grazie.