
La pelle rugosa. Secca, raggrinzita.
Che impressione. La pelle degli anziani.
Non ho mai avuto nonni, non avevo mai visto anziani. O meglio, non avevo mai avuto modo di voler bene a qualche anziano. Non avevo parenti. Eravamo solo noi, noi sei, la mia famiglia. E né mio padre, né mia madre, avevano la pelle rugosa.
A Natale i miei compagni di classe parlavano di grandi famiglie riunite, di regali, paghette e parenti. Noi a Natale eravamo a tavola in sei come in tutti gli altri giorni dell’anno. Però si portava in tavola il pandoro farcito. Le domeniche sempre noi. Le riunioni familiari eravamo noi, ancora noi e in sei, cosa c’era di diverso? Noi, forzatamente uniti ed estranei al mondo. I miei non avevano amici perché è difficile stringere sincere e spontanee amicizie quando fai fatica ad esprimerti e la cultura e la mentalità sono troppo distanti dalle tue.
Non facevamo il presepe perché era troppo cristiano, ma l’albero sì, piaceva a noi bambini con tutte quelle luci e quelle palle. E a Pasqua pure l’uovo. E persino a Santa Lucia trovavamo i regali. Cercavano di non farci sentire troppo diversi dagli altri bambini, anche se si rifiutarono di battezzarci e si ostinarono a parlarci nella lingua madre. Le maestre dicevano, ai colloqui, che a scuola parlavamo italiano misto alla nostra lingua. Che non avremmo mai imparato a parlare correttamente così. Che non andavamo a catechismo come tutti gli altri. Mia madre rispondeva fiduciosa che avremmo capito col tempo quando e dove, con chi, avremmo dovuto usare certi suoni piuttosto che altri. E che bastava già l’ora di religione a scuola.
Tutti i suoi sforzi per farci sentire come gli altri. Ma io mi sentivo sola ed estranea ugualmente.
La prima volta che vidi dal vivo una pelle rugosa mi spaventai a morte. Pensavo fosse una persona cattiva, perché era pure cosparsa di macchie e tremava. Non volevo che mi toccasse. Venni sgridata da mia madre. Diceva che gli anziani andavano rispettati. Che era come se fosse un mio nonno o una mia nonna.
Nonni.
Come sapere che in Africa esistono gli elefanti, senza averne mai toccato uno. I cani invece sì, di quelli ne avevo accarezzati già tanti.
Non avevo mai avuto il nonno paterno, e le due nonne morirono sole nei loro paesi con tutti i figli sparsi lontani nei vari continenti. Mia madre pianse tanto, la ricordo in quella mattina d’estate stringere la lettera di una notizia oramai remota. Non ha mai potuto visitare la tomba di sua madre. E credo di aver sentito mio padre piangere una sola volta nella sua vita. Il giorno in cui arrivò quella telefonata da lontano.
Ricordo gli occhioni neri e rotondi di una vecchia signora persino più piccola di me, con i capelli d’argento lunghi fino alle caviglie, sempre raccolti in una pesante crocchia. Riuscì a venire un’unica volta in Italia. Guardai sorpresa quell’estranea che doveva essere la madre di mio padre. Ero un po’ imbarazzata di essere vestita e conciata da adolescente europea con lei al cospetto in abito scuro e tradizionale. Non mi abbracciò perché non è nostra usanza esternare gli affetti. Ma mi strinse le braccia e tremava. Disse: “Sai parlare la lingua? Posso comunicare con mia nipote”.
Morì l’anno dopo. Forse avrei preferito non conoscerla mai. Che senso ha conoscere i nonni se dopo muoiono. Fa solo star male.
Dopo la guerra, dopo i dieci anni di prigionia, il mio nonno materno venne richiamato dall’ambasciata americana, in ricordo delle vecchie alleanze e dei servizi militari, e mandato a vivere in California.
E lo conobbi lì, insieme ad una parte dei “parenti”.
Parenti.
Come sapere che in Australia esistono i koala, ma non ne avevo mai toccato uno.
Negli Stati Uniti è facile ingrassare. Strano vedere i parenti in sovrappeso. Pensavo che facendo parte della mia famiglia fossero tutti magri. Come noi. Noi sei.
Decantavano la California facendo intendere di essere stati più fortunati di noi, intendiamoci: fra Italia e California non c’è paragone.
“Chiunque vorrebbe vivere in California” dicevano. E poi: “Ma anche in Italia c’è la guerra? Avete da mangiare? Le tue figlie sono tutte sottopeso” dicevano a mia madre.
Mia cugina aveva un anno in più di me, e a sedici anni girava con il macchinone. Aveva già ritoccato gli occhi e rifatto il naso, portava unghie e ciglia finte e si stupiva che noi sorelle avessimo i capelli neri e che io non fossi mai stata da un’estetista. “Posso almeno farti i riccioli? Non ti tocco il colore”. Ero la sua cuginetta “poco sveglia”, il topo di campagna del terzo mondo. Ma mi voleva bene, ero solo da proteggere e da svezzare.
Mio nonno se ne stava in silenzio nella sua nostalgia senza dire la sua e un giorno, quando furono soli, lo sentii dire a mia madre: “Le tue figlie mi ricordano le ragazze laggiù. Sono ancora snelle e naturali”. Disse che io da dietro gli ricordavo tanto mia madre da ragazzina. “Crescile sempre così, non lasciare che ingrassino e che si facciano influenzare dagli artifici”.
E poi c’erano gli altri parenti, un’altra parte dei misteriosi parenti, in Nebraska. Andammo a conoscerli.
Mio zio mi guardò in faccia ed esclamò a mio padre: “E’ uguale a nostra sorella!”
Il giorno in cui ci riportarono all’aereoporto mio cugino disse: “Quando ci rivedremo voi sarete già oramai sposate e con i figli”.
E da allora passarono quasi vent’anni.
Parenti.
Un po’ come aver visto da vicino, allo zoo, dei koala, ma alla fine non sono esseri con cui puoi conviverci e avere in casa come un gatto o un canarino. Rimangono là. E io di qua. Funziona così.
E ce ne tornammo in Italia.
La pelle rugosa.
In Italia c’era una signora che era particolarmente rugosa e che incontravo spesso sul mio tragitto dalla casa al centro.
Come se fosse una tua nonna.
Non so perché mi guardava sempre con simpatia, così io mi sentivo in obbligo di salutarla: “Buongiorno”, se non altro per educazione.
Lei era sempre là sul cancello, ma un giorno sparì per quindici giorni e quando la rividi, dopo il consueto “Buongiorno” le chiesi: “E’ stata bene?” essendo così vecchia avevo creduto che fosse morta.
“Sono stata male sì, ma sono tornata”.
Mi invitò a salire per un the nel suo appartamento. Non so perché accettai. Ero stata veramente in pensiero in quelle due settimane, e non sapevo neppure chi fosse.
La sua casa era piena di fotografie e di nostalgia. Odorava di naftalina. Era felice di avere compagnia, mi offrì dei pasticcini e parlò, parlò. Aveva sete di raccontare. Delle fotografie, dei figli e dei nipoti. Alcuni lontani, alcuni vicini. I suoi nipoti che erano la sua gioia.
La nonna quando eri piccola ti adorava, non sai quante coccole.
No, non lo sapevo. Avevo un anno quando mi portarono via da lei.
La nonna ti parlava, ti voleva bene. Diceva “questa bimba è molto sensibile”, non bisogna parlare a voce troppo alta…
Lei morì sola, senza i suoi figli, senza mai più rivedere i suoi nipoti.
Non ho mai più rivisto la vecchina sul cancello perché la mia famiglia si trasferì nuovamente e non passai più per quella strada.
Ho un allievo anziano. Molto anziano, che ha deciso di imparare a suonare perché l’ha sempre desiderato.
Un giorno mi disse: “La devo ringraziare, nonostante la sua giovane età, ha una sensibilità che non ho conosciuto spesso e un rispetto per gli anziani… ecco io la ringrazio per la sua pazienza che ha con me”.
L’ho guardato in volto: ha i capelli tutti bianchi e la pelle rugosa.
Potrebbe essere tuo nonno.
Il mio unico nonno rimasto che vive solo a San Diego. L’ultima volta che l’ho visto avevo quindici anni. I suoi figli e i suoi nipoti sono sparsi per i vari continenti. La guerra non colpisce solo una generazione. Si protrae nelle generazioni future e cambia le storie, le carte in tavola. Cambia intere vite, le divide per sempre.
“Lei è molto paziente con me”.
La sua faccia è veramente rugosa. Rispondo: “Grazie”.
La pelle rugosa oramai non mi spaventa più.
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